mercoledì 23 dicembre 2009

Arabia Felix

dariodiviaggio
Although coffee began its journey around the world from the Arabian Peninsula, Yemeni people have a different addiction to caffeine. They chew khat. Or qat. Either way pronounced ciát.
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Khat is a plant, whose leaves have an anorectic effect, causing loss of appetite, excitement and euphoria. It's not clear if the consumption affects the mental health: psychotic episodes can happen, but its consumption creates an uplifted mood and a sense of release.
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In 1980, the World Health Organisation classified the plant as a drug of abuse that can produce moderate dependence, although not seriously addictive. But Yemenis DO consume a lot of it.
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Khat is so popular in Yemen that its cultivation drains much of the country's agricultural resources. An estimated 40% of Yemen's water supply goes towards irrigating it, with production increasing by about 10% every year. One "daily bag" of khat requires an estimated 500 litres of water.
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Researchers estimate about 75% of Yemenis between 16 and 50 years old chew khat daily (women 'only' in 35% of the cases), spending 17% of their income on khat. It'd be like a European wasting 300+ euros in cigarettes monthly, except when you live in extreme poverty every cent count.
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What is even more astonishing, is the amount of time they invest in the practice. Yemenis spend an estimated 14.6 million man-hours per day chewing khat. The carry the above mentioned bag everywhere, throw away the stems (again, literally everywhere) take a few leaves out and stuff their mouth with it. They chew nonstop until they produce a juice which has that the stimulating, relaxing and anorectic effect. Then spit a bit out and stuff their mouth with more khat. It goes on the whole day.
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This guy I bumped into in Sana'a old town had so much khat in his left cheek you could see his vein. And his eyes spoke about the effect too.
Con l'augurio che nel 2010 non si ritrovi una democrazia esportata a colpi di bombe all'uranio impoverito, ecco le foto scattate ad inizio dicembre. Yemen 2009 Altri aggiornamenti post Yemen: WMNA - Episode 16 DarioTube - Allah Superstar Il Compagno di Viaggio

martedì 17 novembre 2009

Train de Vie

Dopo cinque giorni di richieste, l'ufficio relazioni esterne delle ferrovie di Buenos Aires mi spedisce l'accredito per salire sul tren blanco, il convoglio che la TBA mette a disposizione dei cartoneros per consentire loro di andare in città a riempire i carrelli di materiale riciclabile. Spetta poi a loro rivenderlo alle cartiere per continuare a mangiare. 
In America Latina il fenomeno dei cartoneros non è nuovo, ma l'aumento esponenziale di chi si è ridotto così è una fra le conseguenze più dirette della crisi economica. Trovare il modo di vederli all'opera e sentirli di persona era tra le priorità della mia venuta in Argentina. Riuscire a consacrare loro qualche scatto decente era l'unico modo per infarcire la tesi fotografica di testimonianze forti. 
Come preannunciato dal responsabile delle ferrovie, sul foglio è specificato che posso filmare, fotografare e intervistare i cartoneros. E considerando che nei prossimi giorni ho l'agenda piena come era un tempo la mia pancia, decido di andare oggi stesso. 
Mi vesto di tutto punto: maglietta grigia col buco sotto l'ascella destra, jeans mangiucchiati da un cagnaccio di Avellaneda e Asics bruciate dalla marmitta del Sì di Ilario Melis, ergo datate 1992. Così passo inosservato sia alla stazione di Retiro sia sul treno che porta a José Leon Suarez, il sobborgo di Buenos Aires dal quale i 400 cartoneros della baraccopoli di Carcoba si riuniscono ogni sera alle cinque e mezza per "andare a lavorare'' - come dicono loro - nelle zone più benestanti tipo Colegiales. Che poi è benestante un corno.
Sceso dal treno regolare, attraverso i binari, mi presento ad uno dei poliziotti messo lì per evitare disordini, sfodero il passepartout e mi tuffo tra i cartoneros. Cerco Daniel, il protagonista di un reportage di Raitre, per portargli i saluti di Stefano Bianchi, il giornalista che lo aveva seguito per un giorno, e soprattutto per pararmi il culo. "Daniel è a casa con l'appendicite" mi dicono la moglie Norma e la figlia, che rispetto al servizio andato in onda ha la pancia di 5 mesi. Non so quanti anni abbia, la ragazza, ma visto che i genitori hanno trent'anni, lei deve essere una precoce. 
Abbandonato a me stesso, mi incammino sulla banchina finché un tipetto sdentato come tutti gli altri, con il cappello calato sugli occhi come tutti gli altri e appestato come tutti gli altri mi prende sotto il braccio e mi spinge da una parte, non prima di avermi mostrato una tessera della TBA. Falsa. "Con questo foglio puoi salire sul treno - fa sornione, aprendo il mio passepartout e leggendo la mia autorizzazione -. Ma per scendere, devi collaborare".
"Vuoi che carico un carrello pure io?" rispondo.
Certe volte il silenzio è d'oro. E questa era una di quelle. Roberto Carlos (si chiama cosi', a meno che non mi ha preso per i fondelli pure lui) mi mette una mano sul petto e aggiusta il tiro. 
Quiere plata
Il fatto che io sia al verde non gli fa venire neanche l'ombra di un senso di colpa. Anzi, lo autorizza ad alzare il tiro. 
Così non mi resta che chiudere il sipario sulla versione sfacciata di me stesso per inaugurare la sceneggiata napoletana. Protagonista unico è uno studentello italiano squattrinato in cerca di documentazioni e che non è lì per lucrare sulle disgrazie altrui. 
Del resto non sono mica più idiota di quanto il fatto che mi sia messo in questa situazione possa far intuire: già ho combattuto con me stesso (e con tutti gli argentini dell'ostello, per l'esattezza) la battaglia della ragione per andare a Leon Suarez e per portarmi dietro la macchina fotografica. Mica vado a portarmi pure i soldi. 
Le tasche vuote testimoniano in mio favore: Roberto Carlos alza bandiera bianca e mi passa prima a Christian El chino e poi a Miguel, gli altri capobranco. Ma il trattamento del gruppo è sempre lo stesso, anzi peggiora. 
Alla prima domanda ''Puedo sacarve una foto?'' invece di replicare con un garbato, semplice e monosillabico ''No'', due ragazzi appoggiati ai loro carrelli si alzano in piedi e mi fanno assaggiare il loro alito miasmatico. Quando mi stanno per stampare la meritata pizza in faccia, Miguel li ferma garantendo per me. Sono 'roba' sua.
Il treno parte puntuale da Leon Suarez verso Colegiales e il ritornello ricomincia.
"Vuoi fare una foto?" riprende Miguel. 
"Be', insomma... sai com'è... siccome di economia non capisco una mazza, sulla tesi di laurea devo almeno allegare qualche foto per dimostrare che la mia ricerca sul campo l'ho fatta". 
La versione della storia è talmente vicina alla realtà che quasi quasi Miguel la beve. "Sappi che tutti quelli che sono venuti qui prima di te hanno lasciato almeno 100 dollari di mancia'' risponde.
Lo so bene, pure il giornalista della Rai ha fatto così. Ma io non ho niente. E per dimostrarlo faccio per spogliarmi. Oltre allo zainetto con la macchina fotografica, addosso ho la tessera studentesca, una penna, un block-notes, 20 pesos scamuffi e il biglietto da visita dell'ostello, ma giusto per il rimpatrio della salma. 
Miguel prima si commuove, poi mi chiede tutti i 20 pesos, che sono sempre meglio della macchina fotografica. 
"E poi in ostello come torno?" obietto. 
Lui ci pensa su e chiudiamo per 10 pesos. Sono 3 euro e spicci. Valgono bene qualche osso intero, ci posso stare. Però il punto da superare è sempre quello di partenza: per scattare foto ho l'autorizzazione scritta della TBA e quella verbale di un delegato del treno, ma i cartoneros a bordo continuano a farsi prudere le mani solo all'idea di finire immortalati da me. Eccetto due simpaticoni - sdentati pure loro - con i quali riesco persino a parlare di politica e di calcio. Ma a parte Marcelo e l'amico suo, gli altri quierono la plata sin compromiso.
Tutto quello che riesco a scattare è una specie di visione panoramica del vagone, e visto che ho montato una pellicola da 3200 ASA, non disturbo neanche con il flash. Ma siccome gli argentini sono logorroici e chiacchieroni, qualcuno fa la spia e un tizio nerboruto - che nella suddetta foto scattata con l'obiettivo 28 occupa con la sua capigliatura nera su sfondo nero un millimetro quadrato tra un carrello e l'altro - si fa largo tra il bordello, e invece di farmi assaggiare l'alito si rimbocca le maniche e mi attacca al muro spingendo il suo carrello con una scarica di forza bruta. Prima che ribadisca il concetto, Miguel mi trascina lontano dalla portata delle sue nocche e cambiamo vagone. Che è meglio.
Da quel momento, quando Miguel mi richiede se voglio scattare foto o l'oggetto è un placido carrello inanimato o la mia risposta è una specie di pernacchia. Per nulla offensiva, comunque. Hai visto mai... Anche perché i passatempi del secondo vagone sono tre: giocare a carte, dire ''no'' alle mie richieste di foto e prendersi a cazzotti finché uno cade a terra e consente al vincitore della contesa di mollare un calcio sulla testa a mo' di chiosa. Insomma, meglio parlare di politica, di disoccupazione, di piqueteros, di patacones e di planes trabajadores con gli altri delegati del treno. 
E soprattutto contare i secondi che ci separano dalla fermata Colegiales.
Per fortuna sono pochi. Esco dal convoglio stretto fra due carritos, con un dito di terra sui pantaloni e lividi ben distribuiti su tutto il corpo. 
Sulla banchina della stazione, un signore sgrana gli occhi e mi intercetta mentre scatto verso la biglietteria per cambiare i 20 pesos in due pezzi da 10. Mi mette una mano preoccupata sulla spalla, lo sguardo spiritato, la voce allarmata. 
Sibila: ''?Donde te vas, loco!!!" sforzandosi di farmi arrivare tutta la sua inquietudine. Ma senza farsi sentire dalla fiumana di cartoneros che inonda la banchina assieme a me. 
Già. E' una domanda che mi sono posto una mezza dozzina di volte solo negli ultimi 25 minuti. 
Allungo la banconota da 10 pesos e saluto Miguel, ma lui mi cinge col braccio e mi propone di seguirlo per scattare foto ("tranquille", sottolinea) mentre rovista nell'immondizia. Sto per dirgli di no quando realizzo che tutto casino dovrà pur servire a qualcosa. Sto per dirgli di sì quando realizzo che fino ad un minuto fa mi stavo cacando sotto e non sarebbe il caso di rimettermi in situazioni per così dire scomode. Mi esce fuori una specie di 'Ni'' che lui interpreta a modo suo, trascinandomi per un paio di isolati mentre il sole è bell'e tramontato. Siamo circondati da spazzatura, carritos e cartoneros al lavoro. Qualcuno beve, altri fumano, tutti mi sguardano storto. 
Confermo di essere idiota, ma solo fino ad un certo punto. Farfuglio qualcosa, tipo che non mi va di ritrovarmi a girare da solo con il buio per Colegiales, e Miguel si mette l'anima in pace. Fa per salutarmi pure lui quando compaiono Norma e la sua bimba incinta, e i tre elaborano un invito per domattina nella villa miseria di Carcoba per assistere - e ''fotografare'' (ormai Miguel ce lo aggiunge sempre) - alla suddivisione del materiale recuperato durante la notte. Se voglio, posso pure fermarmi a pranzo. "Domani cuciniamo asado'' mi fanno, sorridendo. Farfuglio un altro ni e salgo sul primo treno per il centro. Domani pomeriggio ho in programma di andare all'assemblea di quartiere di quegli schizzati della Boca, che hanno occupato una vecchissima sede del Banco d'Italia e per far capire da che parte stanno hanno dipinto l'effige di Che Guevara. Fra l'altro un paio di isolati più in là il Boca e San Lorenzo giocano alla Bombonera per il campionato di clausura e l'aria si prevede incadescente. Comunque vada, l'asado potrei essere io. 
(tratto dalla mia inutile tesi di Laurea, AD 2003)


giovedì 10 settembre 2009

Firmino

Talvolta mi viene da pensare che tutto quello di cui si ha bisogno nella vita è una quantità considerevole di popcorn e un po' di Bellezze (Sam Savage)

"Eh, caro mio... questo è il classico disturbo professionale. Voi della radio maltrattate le corde vocali ed è normale che la gola vada in fiamme. Ti consiglio antibiotici, gargarismi e una settimana di pausa". Il dottore ignora che nutro per le farmacie una repulsione paragonabile a quella per il bloody mary e chi lo beve. Ignora che per senso del dovere sono andato in onda anche con faringite e 38.5 di febbre. Ignora che per indolenza e contratti da far rivoltare nella tomba Ned Ludd non ho mai preso un giorno di malattia. Ma soprattutto ignora che sono in pausa dal primo settembre. Oddio, non che nel frattempo abbia smesso di chiacchierare a manetta. Vai a spiegare a chi ti considerava un incrocio fra lo spazzolino da denti e il santino sul cruscotto perché non assolvi più il tuo ruolo di sveglia animata. Però almeno le requisitorie non cominciano alle 6. Il che non mi ha impedito di perdere l'uso della voce, ma almeno è un piccolo passo verso la normalità.


E comunque non mi lamento. Anzi, nel recinto dei parenti di primo grado mi va di lusso. Mia sorella s'è rotta un dito e per attenuare il dolore s'è procurata uno shock ipovolemico. Mia madre è svenuta su un vaso e ha rimediato una trentina di punti di sutura. Ovviamente cuciti a freddo. E l'intrusa australiana - nel tentativo di guadagnare i suoi dieci euro al giorno - è stata caricata su una volante e se n'è beccati 3.300 di multa. Se l'andazzo è questo conviene emigrare senza tanti ghirigori. Fra l'altro col mio nuovo documento elettronico posso farlo in piena regola. Il problema semmai è che il passaporto precedente, quello che in meno di due anni ha varcato 57 frontiere, conosciuto 91 timbri e toccato 42 Stati membri dell'Onu più Ossezia, Karakalpakstan e provincia di Ragusa, NON ERA MAI STATO REGISTRATO. Ho percorso il periplo del globo con un documento inesistente. "In pratica - ha detto la funzionaria della questura, sgomenta a posteriori per l'anomalia sbagliata al momento sbagliato - se avessi avuto qualche guaio all'estero e la polizia locale avesse contattato il console italiano, il tuo nome non sarebbe risultato da nessuna parte". Così invece di uscire dai guai sarei finito dentro. E con l'aggravante di aver falsificato il passaporto avrebbero probabilmente buttato la chiave.

Prima di prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di partire con la valigia di cartone e però, devo sistemare un lavoretto a casa. E' una settimana che ho rimesso piede nel monoloculo e naso nel suo puzzo di muffa. E sto ancora raccogliendo ovetti di sterco grossi come mentine. Decine e decine. Nell'armadio, nel letto, sugli scaffali della libreria, sui piatti, sui bicchieri. Dappertutto. Centinaia. Persino nel water. Dico... ce lo vedi un animaletto che caca seduto sulla tazza? Il padrone di casa sostiene sia un geco, ma quelli dal muro non si staccano. A Varanasi ce n'era un fottio. Ogni tanto uno alzava la zampetta, caricava lo sfintere e spruzzava una palletta nera sul cuscino o nelle mie scarpe. Ma andare ad evacuare nel cassetto delle posate, raschiare le listarelle di legno ogni notte e rosicchiare il mio maglione migliore no, non è cosa da loro.

Ieri sera ne ho avuto la conferma. Mentre mi gingillavo davanti al secondo tempo di Italia-Bulgaria mi è sfilato davanti il primo della truppa.

Altro che geco.

Divido i 23 metri quadrati del sottoscala con una famiglia di topi.

martedì 21 luglio 2009

Down Under

Presente (I come from a land) down under?

Quel motivetto d'esordio dei Men at work datato 1982, numero 1 della chart negli Stati Uniti e in Gran Bretagna? Quello che e' valso alla band il Grammy Award '83? Quello cosi' orecchiabile da essere adottato l'anno seguente come inno dall'equipaggio di Australia II, la barca vincitrice della Coppa America di Azzurra e dell'Aga Khan, da accompagnare mr Crocodile Dundee fra le strade di Los Angeles nel 2001 e - dopo essere stato palleggiato da un'infinita' di documentari - da essere usato nel 2003 anche nel trailer di Alla ricerca di Nemo?


Comunque sia, due decenni buoni di ripetute l'hanno sedimentato sull'immaginario collettivo locale, quel motivetto. E quando nel 2007 il quiz Spicks and Specks su ABC TV - roba forte - ha svelato un'anomala coincidenza e ha spinto la piccola etichetta musicale Larrikin a denunciare il plagio, il continente ha tremato.

Apriti cielo. I Men at work - gli 'Operai al lavoro' - hanno scopiazzato il ritornello da una vetusta canzoncina per bambini: Kookaburra sits on the old gum tree.

Dove.

a) il kookaburra e' un goffo volatile, l'ennesimo stravagante componente della stravagante ampia fauna di questo stravagante sconfinato Paese il cui nome non poteva essere non essere stravagante (trascurando l'ornitorinco, l'echidna e il casuario, nella mia personalissima classifica divide il podio con l'epinefelo e il cacatua).

b) Il Kookaburra e' appollaiato sul vecchio eucalipto fa cosi':

Kookaburra sits in the old gum tree

Merry, merry king of the bush is he

Laugh kookaburra, laugh

Kookaburra gay your life must be

Kookaburra sits in the old gum tree

Eating all the gumdrops that he can see

Stop, kookaburra, stop

Kookaburra leave some there for me

Kookaburra sits in the old gum tree

Chasing all the monkeys he can see

Stop, kookaburra, stop

Kookaburra that's not a monkey, that's me !

E anche senza l'ausilio del dizionario, non si perde niente.

c) il testo e' del 1934. Ed e' stato scritto da una tal Marion Sinclair, in occasione della partecipazione del suo Toorak college ad un raduno di ragazze scout da qualche parte nei dintorni di Melbourne.

d) L'associazione delle guide dello stato di Victoria e' andata a cercare lo statuto del convegno e da due anni sostiene che i diritti le appartengano.

e) Chiunque la spunti in semifinale, ad attenderlo davanti ai giudici trovera' gli avvocati dei due autori - Colin Hay e Ron Strykert - di una band che ha venduto 30 milioni di dischi e l'esercito di mangiacarte assoldati dalla Sony BMG Music Entertainment, dalla Sony DADC Australia, dalla EMI Songs Australia e dalla EMI Music Publishing.

Ora.



La storia la dice abbastanza lunga sullo spessore musicale dei brani anni Ottanta, ma il punto non e' questo.



Fossi stato in quelli della Larrikin e dell'asso-scout di Victoria, mi sarei assicurato un po' di ritorno - figurati se Bim Bum Bam o la pubblicita' del formaggino MIO non ti sceglie subito subito come sigla - e avrei continuato a farmi sandwich alla vegemite. Ma il punto non e' neanche questo.

Il punto e' che secondo il Times, questo e' un Paese che in tutto il 1998 ha prodotto 6 notizie degne di essere pubblicate. Cosi' l'approssimarsi della seduta dell'Alta Corte e la soluzione di questo megascandalo e' il tema piu' discusso della settimana sulle tavole australiane.

Per uno che viene dall'Italia, lo shock e' anafilattico.

giovedì 16 luglio 2009

Ti presento i miei

I suoi sapevano tutto.

Sapevano che il mio portafogli stanzia 3 euro al giorno per dormire.

Sapevano che per questo a Bangkok ho alloggiato al quinto piano di una pensione senza ascensore, aria condizionata, acqua calda, corrente, lenzuola e carta igienica nella latrina comune.

Sapevano che per risparmiare sulla trasvolata ero passato per Il Cairo e la Thailandia, impiegando 3 giorni per andare da Roma a Melbourne. Sapevano che in tutto l'ambaradan ho prenotato una manciata di voli JetStar, la low cost australiana famosa per un atterraggio di emergenza sull'isola di Guam (e i suoi lo sanno che sotto sotto ci spero) e perche' a bordo devi pagare tutto, anche le coperte.

Sapevano pure che per questo ne avevo presa in prestito una all'Egypt air.

I suoi sapevano che mi sarei vestito con materiali di risulta del mio armadio, percio' non hanno battuto ciglio quando sono comparso con la felpa di Mr Pizzami, un pantalone verde pisello reduce dalla terza media il cui unico bottone non ancora saltato arriva solo in orbita asola, una camicia della stessa epoca storica talmente lisa da mettere in risalto il simbolo BNL della sottostante t-shirt promozionale degli Internazionali e un paio di calzini di spugna diventati color grembiule dopo un lavaggio sbagliato.

Ovviamente non hanno commentato perche' sanno che nello zaino c'e' di peggio.

Sapevano che in barba a lingue straniere, titoli di studio e ambizioni fotografiche e letterarie, sostanzialmente da 13 anni campo col calcio. Che mi sveglio alle 5, che secondo audiradio conduco la trasmissione piu' seguita dell'etere romano in ambito sportivo e che da quando sono tornato - sempre secondo audiradio - gli ascolti del mattino sono raddoppiati. Sapevano che prendo 800 euro al mese puntualmente in ritardo e che per il rinnovo l'azienda mi ha proposto un ritocchino all'attuale compenso di 6 euro e spicci l'ora. Ma sapevano pure che per principio ho preferito uscire da quel circo. E che per questo dal primo settembre sono virtualmente disoccupato.

Messi al corrente di tutta una serie di mie abitudini stravaganti, tipo quella di inzuppare i Bucaneve nel caffellatte e di cenare dopo le 18.30, di ignorare ogni episodio di Harry Potter e del Signore degli Anelli, di non allacciare la cintura di sicurezza sul sedile posteriore, di mirare le guance di estranei per sbaciucchiarle un numero imprecisato di volte e di farmela sotto all'idea di nuotare fra gli squali, i suoi sapevano che per il futuro sto progettando una visita delle grotte di Al Qaeda ma che intanto mi accontento di andare in Birmania sventolando una foto di Aung San Suu Kyi in una mano e la tessera da giornalista nell'altra.

E tanto per mettere in chiaro che la figlia non potra' mai prendere nel mio cuore il posto di un barattolo di Nutella, ho subito sfoggiato un grosso brufolo al centro della fronte.

Per questo - quando mi sono seduto a tavola - aspettavo una rissa verbale tipo salottino della D'Eusanio.
Invece i suoi mi hanno chiesto se ci sposiamo qui o li'.

mercoledì 1 aprile 2009

Il tè nel deserto

Quando il peggio sembra passato, il tizio al volante ha un sussulto, agita la mano sul cambio, martella il piede sull’acceleratore e picchia un pugno sul cruscotto. La sua Dodge arrugginita singhiozza fra i canneti e si sgonfia al primo incrocio. Avvolto nel buio e nella kefia, Shamir scende blaterando qualcosa in arabo. Io lo seguo imprecando come viene. Ne so abbastanza per capire che ha staccato la frizione, altro che guasto. Le procedure in quella specie di frontiera sono andate per le lunghe, e lui ha fretta di sbolognarmi. Tutto qui. Il problema non è meccanico. E’ chiarire se oltre a risparmiare tempo vuole anche fregarmi. Nel dubbio, protesto. “Non fare il furbo e rispetta i patti. O niente baksheesh”. La mancia te la scordi, balordo. Nel fazzoletto di territorio siriano appena oltre il confine libanese, la condiscendenza passa facilmente per malleabilità. Che verso mezzanotte sa di vulnerabilità. Insomma, meglio fare il duro. “A destinazione ti ci porta lui” mi rassicura Shamir, indicando un compare mimetizzato nel capannello di impiccioni sbucati dalla campagna. Circondato da una ventina di occhi curiosi, tengo la guardia alta ma abbasso toni e pretese. Anzitutto è il caso di uscire da questa situazione. Così accetto il compromesso e il rischio, salgo a bordo di un pulmino, e dopo mezz’ora di ascesa verso la cittadina di Hosn monto finalmente la tenda ai piedi del Crac des Chevaliers.
Manufatto geopolitico del XX secolo, prodotto del divide et impera occidentale fra le due guerre mondiali, tappeto verde per i rilanci di Inghilterra e Francia nel gioco d’azzardo mediorientale, palcoscenico delle vite da film della regina Zenobia e di Lawrence d’Arabia, nei millenni la mezzaluna fertile a cavallo dell’Eufrate ha attirato civiltà che hanno lasciato testimonianze spettacolari della loro dominazione. Dagli hittiti agli egiziani, dai persiani ai bizantini, dagli ottomani ai mongoli. All’alba del primo giorno in Siria mi sveglio sotto l’aspra imponenza del castello dei cavalieri che otto secoli addietro poteva ospitare 4000 crociati sulla strada verso il Santo Sepolcro, a seguire mi perdo nel fascino ipnotico del mercato di Aleppo, il suq più labirintico, colorato e profumato della Mesopotamia, mi faccio incantare dalla poesia delle scenografiche rovine di Palmira, la sposa del deserto, la città dei datteri e – appunto - delle palme, che non fu mai del tutto romana. Quindi mi faccio solleticare gli occhi dalle abitazioni celesti del villaggio di Maalula e mi lascio attirare dalla suggestione magnetica della basilica di San Simeone, lo scheletro delle mura erette attorno ai resti della colonna di 15 metri in cima alla quale 1600 anni fa un eremita figlio di pastori si rifugiò per pregare, scrivere e dispensare consigli tanto ai devoti quanto alla Chiesa. Visto che non riusciva ad isolarsi dal mondo in orizzontale, Simeone aveva deciso di fuggire in verticale. Perciò trascorse 37 anni, fino alla sua morte, su un pilastro del quale oggi non rimane che una pietra ovoidale. E una pellicola di Buñuel.
Nelle distese insanguinate un tempo dalla ferocia del Saladino, le estati sono segnate dalla lotta all’afa e agli insetti. Nel primo caso l’alleato si chiama chai, il tè aromatizzato offerto da beduini e contadini ad ogni angolo e ad ogni oasi. Bollente com’è, alza la temperatura corporea e rende meno traumatico il rapporto fra l’epidermide e i 40 gradi esterni. Nel secondo caso è una battaglia persa, me li ritrovo anche in bocca. Nel Paese ininterrottamente guidato dalla famiglia Assad dal ‘71, le serate scorrono al ritmo blando delle partite di domino, essenziali come il pane non lievitato intinto nella pasta di ceci, l’hummus, dolci come i pasticcini al miele, speziate come i cibi della regione, inebrianti e innocenti come i narghilé alla frutta. Nella culla degli hammam, i bagni turchi, le notti sono invece militaresche come la canadese che pianto dappertutto - anche ai margini della pista che traccia il Badyyat-ash-Sham, la distesa di sassi percorsa da carovane di pellegrini che dall’Africa musulmana si dirigono annualmente a La Mecca via Baghdad – e che ripiego solo entrando a Damasco.
Un tempo definita ‘la perla tempestata di diamanti’, per i parchi e i giardini, la città che contende ad altri centri del vicino oriente il titolo di abitato più antico del mondo è oggi un agglomerato variegato, zeppo di parabole, che ospita un terzo dei siriani, minoranze curde, cristiano-maronite, armene e circasse, centinaia di migliaia di profughi iracheni e persino genti che si esprimono in aramaico, l’antica lingua della Bibbia. La storia si respira, i precedetti tramandati dallo stile di vita nomade si toccano con mano. Primo fra tutti, l’accoglienza verso lo straniero. Non mi sorprende, insomma, che due figli di allevatori di piccioni - i kashkash – mi invitino subito a sorseggiare thé alla menta e a far gorgogliare pipe piene di tabacco alla mela nel loro cortile. Né che l’indomani mi guidino alla moschea degli Omayyadi, il luogo sacro che custodisce la testa di Giovanni il Battista e nel quale – primo Papa della storia – Karol Wojtyla di lì a poco si toglierà le scarpe in segno di rispetto verso i fratelli musulmani. Né, infine, che mi accompagnino alla ricerca di uno dei taxi collettivi diretti in Giordania. Stavolta per evitare sorprese mi metto in marcia in pieno giorno. Eppure ad Amman arrivo solo quando il sole è già tramontato e mi devo accontentare di dormire sul tetto dell’edificio attiguo alla moschea di Re Hussein, bivacco notturno di decine di barboni.


(IN TEORIA tratto da Ulisse n.296 - Aprile 2009)

martedì 3 marzo 2009

Indurain


Lo sghiribizzo gli era venuto davanti a quel cartello Wanted for Bosnia. Marco oscillava fra il Salento e Roma all'andamento lento degli appelli universitari, ma a vent'anni non poteva dire di aver viaggiato. Se non con la mente. Così quell'esperienza da volontario tra i resti di Vidovice gli aveva spalancato una finestra sul mondo. E un anno dopo aver finito di spalare macerie e distribuire mattoni - quando il calendario lasciava all'inverno le ultime cartucce - mi aveva seguito di nuovo. Stavolta in treno, verso la penisola iberica, con lo zaino in spalla, le tasche vuote degli studenti che desiderano sempre più di quel che raggranellano. E la sua chitarra. Se serve, ci mettiamo a chiedere l'elemosina, diceva. Peccato che io sono una campana e lui non è Mark Knopfler. Il cielo sembrava già quello di primavera. A metà marzo, Barcellona era già solare e magnetica, Madrid già frenetica e nottambula, Toledo già mistica e sognante, Siviglia già fresca e fatale, Cordoba già irresistibilmente abbagliante, Granada orgogliosa e ammaliante. Dame limosna, mujer, que no hay en la vida nada como la pena de no volver, confermava una fontana dell'Alhambra. Per due settimane saltellavamo fra gemme d’architettura cristiana, moresca e aragonese ancora risparmiate dai serpentoni umani del turismo estivo, camminavamo fra i vicoli di città calde e civettuole, vive e vivibili, oniriche e ideali. Ancora più a sud, oltre Malaga e la Costa del Sol, fra i peschi in fiore e le sedie di vimini sparpagliate davanti ai bar all'aperto, Cadice ci regalava nove gol in un'unica serata di Copa del Rey fra Barça e Atletico. Cosa sarebbe la vita senza il calcio, titolavano i giornali l'indomani, quando ci tuffavamo fuori stagione nelle acque gelide dell'oceano, prima di arrampicarci oltre la sierra e restare a bocca aperta davanti al tramonto infuocato di Caceres. Avessimo attinto anche a sangria e paella, la Spagna ci avrebbe offerto ogni sfumatura del suo profilo migliore. Invece ad ogni pasto consumavamo un filone di pane e salame. Ad ogni notte sperimentavamo un tugurio diverso. Ad ogni spostamento macinavamo chilometri di asfalto. Fino all'altolà imposto dal porto di Algeciras. Marco non ha il passaporto e in Africa non possiamo scendere. “Tanto vale andare Pamplona” spara, sornione. Lo squadro. 
Vabbé che il Marocco è fuori Schengen, Andorra fuori budget, Gibilterra fuori tema e la Francia fuori mano, ma la corsa dei tori amata da Hemingway scatta fra quattro mesi e scommetterei che l'idea non ha nulla a che spartire né col cammino di Santiago né con San Ignacio di Loyola. Semmai c’entra il fatto che quell'appendice dei Paesi Baschi che è la Navarra ha dato i natali al vincitore di cinque Tour de France, al padrone incontrastato delle strade europee dei primi anni Novanta, all'uomo che solo dopo l'oro olimpico di Atlanta ha appeso la bicicletta al chiodo. E che il primo amore di Marco è proprio il ciclismo. Scusa ma come lo troviamo, Miguel Indurain? gli chiedo. E' cresciuto in un paesino che si chiama Villava, mi sento rispondere. E abita ancora lì? Sì, replica lui sicuro. E come riconosciamo la casa? Ho visto un servizio fotografico su una rivista. Ma se non riconosceresti neanche la tua, protesto, quando ormai abbiamo già lasciato la stazione dei treni di Pamplona. Vorrei minacciarlo – tipo: se non lo troviamo ti stacco le orecchie a morsi - ma dopo settimane di notti sui sedili di treni a scartamento ridotto non ne ho la forza. Ed evito pure di chiedergli come ci andiamo, a casa Indurain, solo perché la risposta già la conosco. 
A piedi. 
Perciò risparmio il fiato e mi metto in marcia. Ma stavolta la chitarra la porta lui. Fondata dai romani nel 75 a.C., saccheggiata dagli ostrogoti, teatro di battaglie fra Carlo Magno e gli arabi, nucleo del regno che si opponeva alla corona di Castiglia, Pamplona non vanta solo il più alto tenore di vita della Spagna odierna, ma anche alcune vestigia del ricco passato. Invece lungo la strada per Villava incocciamo solo due cliniche e una dozzina di rotonde. "Qui abitano i genitori, Miguel s'è trasferito oltre le colline" ci dicono i vicini, quando abbiamo marciato 5 chilometri e lo zaino mi ha già deformato entrambe le clavicole. Da Villava ci vuole un'altra ora di saliscendi fra villaggi prima di arrivare in località Olaz. E lì ci vogliono alcune scampanellate a vuoto ("Se negano insisti, perché fingono: la casa è PROPRIO questa!") prima di spuntare la villetta giusta. Vuota, nel senso che la famiglia Indurain non c'è. "Dài, scriviamo un biglietto con i saluti per lui, la moglie e il figlioletto" suggerisce Marco. Mi sa che ti dovevo fracassare la testa in Bosnia - sto per rispondergli - quando dai Pirenei viene giù il primo ciclista capace di realizzare due doppiette consecutive Giro-Tour. Indurain è meno sudato di noi. Ed è così sorpreso da quei due saccapelisti muniti di chitarra da accoglierci con tutti gli onori e prestarsi volentieri alle foto-ricordo, poi ci congeda. "Sappiate che per la stazione di Pamplona c'è un autobus diretto" ci fa. Guardo Marco in cagnesco. Nei sei viaggi successivi non vorrò sentir parlare né di lui né della sua chitarra. 
(tratto da Ulisse n.295 - Marzo 2009)

giovedì 1 gennaio 2009

Fino alla fine del mondo


Terra di tedeschi emigrati tra fiordi e specchi d’acqua andini, la decima regione cilena – quella de los lagos – sfodera un campionario di cittadine insulse alternate a paesaggi da acquerello. Come quello che sbuca dopo 30 ore di sobbalzi ad ovest di Baires, con la sagoma del vulcano Osorno, fiancheggiato da colline verde pastello e circondato da un’aria fresca e rarefatta, incappucciato di bianco e riflesso nel blu cobalto del lago Llanquihue.
La perfezione del cono spezza il fiato per una, per due, per tre ore. Poi - come dire - stucca. Alla quarta ora mi volto verso il paesino di Puerto Varas e l'unica attrazione che trovo è l'annuale Volksfest, il raduno di baffuti nostalgici in braghe alla zuava che bevono Löwenbräu, si ingozzano di würstel e suonano la fisarmonica sotto un tendone, mescolando rigidità teutoniche a note castigliane. 
Come se la cadenza cilena, dondolante fra lo squittio e il piagnisteo, non fosse già esilarante di suo.
Applicato a facce come quella di Mario&Mario, il dialetto di Neruda è cabaret puro. MarioUno - con la zavorra di un doppio mento che gli cade sul petto – è l’autista del bus che da Puerto Montt punta verso sud. E che prima di affrontare la notte al volante ingurgita una zuppa di patate, tre empanadas, un’insalatona di pomodori e cipolle, una bistecca che nel piatto non ci sta e un dolce alla crema su tre piani. 
Dinoccolato e inebetito, con la lingua costantemente penzoloni, MarioDue è il suo ayudante. Parafulmine di mestiere, aspirante capro espiatorio, a bordo svolge una serie di compiti ingrati: programma filmacci tipo Fast and Furious (impresa che non gli riesce mai prima del terzo tentativo), colleziona gli improperi dei passeggeri e distribuisce i cosiddetti pasti di bordo. 
Un medaglione con una fetta di prosciutto alla quarta ora di viaggio e lo stesso medaglione con una fetta di formaggio alla 23ma ora di viaggio. 
Durante il tragitto, il trabiccolo si fa largo fra i picchi della cordigliera, sfiora il Fitz Roy e il Torres del Paine, poi scivola nella pampa patagonica. Finché, superata Rio Gallegos, si pianta. Due gomme sono scoppiate. 
Mira, se vai a Punta Arenas resti bloccato – trillano Mario&Mario mentre li aiuto a cambiare i copertoni –. Da lì i collegamenti con Ushuaia non sono frequenti”. 
Morale della favola, alla dogana di Monte Aymond scendo dalla corriera. E sollevo il pollice a caccia di un passaggio per la Terra del Fuoco. 
Frontiera di Monte Aymond. Scendo dal bus e faccio autostop alla ricerca di un passaggio verso lo stretto di Magellano
Nella prima ora non si ferma nessuno. In quella che segue, solo una dozzina di camionisti evasivi. Infine, alle soglie del tramonto, mi caricano Ramon e Lumi, due signori in età pensionabile disponibili a scarrozzarmi giusto fino al primo incrocio, a due ore di cammino dall'imbarcadero di Punta Delgada. “Cosa pensano i tuoi genitori del fatto che viaggi in autostop?”. Lei è una bacchettona di dimensioni australi. “Non lo sanno. E fino a qualche ora fa non lo sapevo neanch’io”. Non basta. Per guadagnare il passaggio fino al porticciolo devo esporre una filippica pseudosociologica tempestata di frustate etiche su questo mondo che consuma i sentimenti e un sacco di altre cose. Lei vuole sentirsi dire questo. Io voglio arrivare al molo. Affare fatto. Saluto, bacio e mi fiondo sulla chiatta appena in tempo. In italiano si chiama bucio. Per la cronaca, il traghetto attraversa lo stretto documentato da Magellano nel 1520. Ma io sono troppo impegnato a saltellare tra i veicoli per accendere un cero alla Storia. E, sempre per la cronaca, sta scendendo la sera. Ma io sono troppo entusiasta per preoccuparmene. Anche perché non so che sull’altra sponda non c’è neanche un capanno. E prima di scoprirlo, quando gli autotreni hanno già acceso i motori, un energumeno mi fa un cenno con la testa. Significa che posso salire.
Il benefattore si chiama Daniel Zugarelli, di nonno italiano. 43 anni più sdentati dei 95 della mia bisnonna, trasporta pezzi sfusi in Patagonia e risale a Buenos Aires carico di televisori e frigoriferi. Daniel succhia il mate, parla a monosillabi e guida svogliato, ma ha la media realizzativa del Batistuta dei bei tempi: quattro figli, una decina di amanti e una serie di cartucce da 20 pesos sparate ogni volta che parcheggia ad Asuncion. Inevitabile – sostiene - quando si passano 35 giorni di fila lontano dalla moglie. Inevitabile non lo so, comprensibile forse. Ma il punto è che l'istinto del gol uno ce l'ha nel sangue. Ed è pure ereditario. Per questo lui a 43 anni è già nonno, mentre quel figlio di monogami incalliti che sono io non batte chiodo dai tempi dell'afta epizootica. 
Guanachi nel Torres del Paine - dove mi sono perso 
Ci vogliono quattro ore sotto una luce rosata per percorrere 150km sterrati e battuti solo dai guanachi. “Hai mangiato?” mi chiede a metà dell’opera. Effettivamente sono fermo al pane e formaggio di MarioDue e forse la mia faccia spiffera che mangerei anche quella minestrina in polvere allungata nella brocca piena dei suoi avanzi. “Tu sei matto” sussurra lui, senza che gli abbia neanche raccontato il mio 
incontro ravvicinato del terzo tipo coi cartoneros. Poi però mi offre una bistecca di vitello con rosso di Mendoza, mi invita a passare il Natale in famiglia e, quando cala la notte, accosta il bestione accanto al cartello Las Malvinas son argentinas. All’ennesimo confine. Daniel si sistema sul lettino dietro la tenda, io compenso il vuoto tra i due sedili anteriori con lo zaino. E mi accuccio. 
L'alba dopo la notte passata nella cabina del camion di Daniel tra due frontiere

All’alba mi sveglio con naso e piedi congelati in punta e un accenno di lombalgia. 
Cuidate, loco! - urla Daniel, quando mi scarica a Rio Grande – e guarda che ad Ushuaia è tutto pieno. Hai prenotato?”. 
Ovviamente no. E sono troppo stanco e sollevato per curarmene prima di sbarcare nel centro abitato più meridionale del pianeta.
Ushuaia è fotogenica come una scarpiera da bagno, ma è la fine del mondo di nome e di fatto. Impallinata da un vento assassino, abbarbicata a montagne dalle pendici annerite ed esposta al canale Beagle, che scorta il mare verso i ghiacci antartici. 
La città scoppia di turisti. Ma non le manca il fascino della frontiera. 
Ushuaia
Passeggio a lungo prima di bussare al Refugio del mochilero, ché il nome ispira proprio quello di cui ho bisogno. Calore. 
“Hai prenotato?” Victor, l’omino della reception, di notte alza il gomito e di giorno ne sconta le conseguenze. Intuisco, prendo fiato e improvviso. "Io personalmente non ho potuto, visto che viaggio ininterrottamente da 50 ore. Ma al mio amico Christian avevo chiesto di riservare a nome mio. Puoi controllare, per favore…?". 
La palla è campata in aria. Ma desidero un letto così ardentemente che la frottola ha l’inerzia della verosimiglianza e la forza della disperazione. 
Victor scartabella. “Christian come?”. 
Già, il nome è plausibile dall'Alaska alla Nuova Zelanda. Esclude a priori solo i tizi con la galabia e quelli con gli occhi a mandorla. 
“Che domande, Victor... ho sonno… non me lo ricordo!”. 
“Sei un casino – sbuffa –. Comunque per ora prendi il letto n.12. Magari quello che ha prenotato non si presenta”. 
E in effetti va così.
Quello che aveva prenotato, non si presenta.

(tratto da Ulisse n.293 - Gennaio 2009)