martedì 3 marzo 2009

Indurain


Lo sghiribizzo gli era venuto davanti a quel cartello Wanted for Bosnia. Marco oscillava fra il Salento e Roma all'andamento lento degli appelli universitari, ma a vent'anni non poteva dire di aver viaggiato. Se non con la mente. Così quell'esperienza da volontario tra i resti di Vidovice gli aveva spalancato una finestra sul mondo. E un anno dopo aver finito di spalare macerie e distribuire mattoni - quando il calendario lasciava all'inverno le ultime cartucce - mi aveva seguito di nuovo. Stavolta in treno, verso la penisola iberica, con lo zaino in spalla, le tasche vuote degli studenti che desiderano sempre più di quel che raggranellano. E la sua chitarra. Se serve, ci mettiamo a chiedere l'elemosina, diceva. Peccato che io sono una campana e lui non è Mark Knopfler. Il cielo sembrava già quello di primavera. A metà marzo, Barcellona era già solare e magnetica, Madrid già frenetica e nottambula, Toledo già mistica e sognante, Siviglia già fresca e fatale, Cordoba già irresistibilmente abbagliante, Granada orgogliosa e ammaliante. Dame limosna, mujer, que no hay en la vida nada como la pena de no volver, confermava una fontana dell'Alhambra. Per due settimane saltellavamo fra gemme d’architettura cristiana, moresca e aragonese ancora risparmiate dai serpentoni umani del turismo estivo, camminavamo fra i vicoli di città calde e civettuole, vive e vivibili, oniriche e ideali. Ancora più a sud, oltre Malaga e la Costa del Sol, fra i peschi in fiore e le sedie di vimini sparpagliate davanti ai bar all'aperto, Cadice ci regalava nove gol in un'unica serata di Copa del Rey fra Barça e Atletico. Cosa sarebbe la vita senza il calcio, titolavano i giornali l'indomani, quando ci tuffavamo fuori stagione nelle acque gelide dell'oceano, prima di arrampicarci oltre la sierra e restare a bocca aperta davanti al tramonto infuocato di Caceres. Avessimo attinto anche a sangria e paella, la Spagna ci avrebbe offerto ogni sfumatura del suo profilo migliore. Invece ad ogni pasto consumavamo un filone di pane e salame. Ad ogni notte sperimentavamo un tugurio diverso. Ad ogni spostamento macinavamo chilometri di asfalto. Fino all'altolà imposto dal porto di Algeciras. Marco non ha il passaporto e in Africa non possiamo scendere. “Tanto vale andare Pamplona” spara, sornione. Lo squadro. 
Vabbé che il Marocco è fuori Schengen, Andorra fuori budget, Gibilterra fuori tema e la Francia fuori mano, ma la corsa dei tori amata da Hemingway scatta fra quattro mesi e scommetterei che l'idea non ha nulla a che spartire né col cammino di Santiago né con San Ignacio di Loyola. Semmai c’entra il fatto che quell'appendice dei Paesi Baschi che è la Navarra ha dato i natali al vincitore di cinque Tour de France, al padrone incontrastato delle strade europee dei primi anni Novanta, all'uomo che solo dopo l'oro olimpico di Atlanta ha appeso la bicicletta al chiodo. E che il primo amore di Marco è proprio il ciclismo. Scusa ma come lo troviamo, Miguel Indurain? gli chiedo. E' cresciuto in un paesino che si chiama Villava, mi sento rispondere. E abita ancora lì? Sì, replica lui sicuro. E come riconosciamo la casa? Ho visto un servizio fotografico su una rivista. Ma se non riconosceresti neanche la tua, protesto, quando ormai abbiamo già lasciato la stazione dei treni di Pamplona. Vorrei minacciarlo – tipo: se non lo troviamo ti stacco le orecchie a morsi - ma dopo settimane di notti sui sedili di treni a scartamento ridotto non ne ho la forza. Ed evito pure di chiedergli come ci andiamo, a casa Indurain, solo perché la risposta già la conosco. 
A piedi. 
Perciò risparmio il fiato e mi metto in marcia. Ma stavolta la chitarra la porta lui. Fondata dai romani nel 75 a.C., saccheggiata dagli ostrogoti, teatro di battaglie fra Carlo Magno e gli arabi, nucleo del regno che si opponeva alla corona di Castiglia, Pamplona non vanta solo il più alto tenore di vita della Spagna odierna, ma anche alcune vestigia del ricco passato. Invece lungo la strada per Villava incocciamo solo due cliniche e una dozzina di rotonde. "Qui abitano i genitori, Miguel s'è trasferito oltre le colline" ci dicono i vicini, quando abbiamo marciato 5 chilometri e lo zaino mi ha già deformato entrambe le clavicole. Da Villava ci vuole un'altra ora di saliscendi fra villaggi prima di arrivare in località Olaz. E lì ci vogliono alcune scampanellate a vuoto ("Se negano insisti, perché fingono: la casa è PROPRIO questa!") prima di spuntare la villetta giusta. Vuota, nel senso che la famiglia Indurain non c'è. "Dài, scriviamo un biglietto con i saluti per lui, la moglie e il figlioletto" suggerisce Marco. Mi sa che ti dovevo fracassare la testa in Bosnia - sto per rispondergli - quando dai Pirenei viene giù il primo ciclista capace di realizzare due doppiette consecutive Giro-Tour. Indurain è meno sudato di noi. Ed è così sorpreso da quei due saccapelisti muniti di chitarra da accoglierci con tutti gli onori e prestarsi volentieri alle foto-ricordo, poi ci congeda. "Sappiate che per la stazione di Pamplona c'è un autobus diretto" ci fa. Guardo Marco in cagnesco. Nei sei viaggi successivi non vorrò sentir parlare né di lui né della sua chitarra. 
(tratto da Ulisse n.295 - Marzo 2009)