giovedì 30 dicembre 2010

Il mio grosso grasso matrimonio australiano

Mi hanno fatto vestire di tutto punto, con i gemelli d'argento e le scarpe della cresima, mi hanno appuntato un fiore bianco con un rampicante, mi hanno stordito con mezz'ora di nenie e di lettere ai filippesi, quindi mi hanno fatto ripetere un testo zeppo di termini astrusi e approfittandosi della mia buona fede mi hanno estorto un paio di volte "I do", un anello e una firma.
Poi un tipo vestito da autista mi ha offerto un bicchiere d'acqua, si sono abbassate le luci e sono cominciate le foto - la nemesi di quei poveracci che ho tartassato per il mondo - fra
lacrimucce dolci e risate fragorose, abbracci caldi e birra gelata, balli rituali, discorsi improv
visati e cup cakes. Non pensavo che un matrimonio potesse essere divertente, tanto meno il mio. Quasi quasi lo rifaccio.
Siccome per la signora Castaldo non era carino eclissarsi su qualche atollo mollando gli amici venuti da lontano, i
l giorno dopo eravamo di nuovo tutti in marcia. Dopodiché il v
iaggio di nozze è consistito in dieci ore di auto assieme all'unico invitato accorso dal Messico e in tre notti in una camerata del peggior ostello di Sydney in compagnia di un australiano che occupava la stessa stanza da 11 mesi e sentendosi a casa sua girava giustamente nudo, di una tizia di Perth che campava leggendo i tarocchi e investiva gli introiti in droghe pesanti e di un energumeno di nazionalità imprecisata che spuntava solo all'alba e seminava il pavimento di bottiglie vuote.
Al centro della stanza una bacinella per racc
ogliere l'acqua piovana che filtrava dal soffitto.
Sul bagno in comune meglio sorvolare
.
p.s.
L'unica telefonata ricevuta dall'Italia è stata quella di mio zio, che corre spedito verso il terzo matrimonio. Gli ho chiesto il segreto di un'unione indissolubile.

mercoledì 24 novembre 2010

Proposta indecente

Lo schermo in finta radica risulta un tantino pacchiano, ma dall'alto dei suoi 20 pollici fa la sua porca figura. I tre tipi di massaggi sono scolastici ma a modo loro sollazzano, il vino bianco è secco ma più che passabile, l'equipaggio è ingessato ma ben assortito: un'hostess è libica, una è brasiliana, una è indiana, una è ucraina, lo steward è australiano di origini calabresi. Ingannata da una camicia destinata ad un benemerito del posto, la Emirates ha deciso di farmi atterrare in Sri Lanka in business class, spaparanzato su una poltrona molto più comoda di tutti i letti sui quali dormirò nei quindici giorni seguenti. Il primo, a castello, lo divido con Wang Si Que, uno dei rari cinesi a potersi permettere di viaggiare zaino in spalla, uno dei rarissimi di etnia han ad aver abbracciato l'Islam, forse l'unico musulmano per scelta che non mangi carne di maiale ma beva alcol e fumi qualsiasi cosa. Wang Si Que, che la madre chiama Lao Mao - vecchio gatto - è fidanzato con Chang Sue Qin (anche nell'intimità si chiamano per esteso, prima il cognome e poi il nome) incatenata a Pechino dai suoi doveri di poliziotta. Un lavoro per il quale ha solo due settimane di ferie comandate e perciò non può viaggiare né ora né nei tre anni successivi ad un'eventuale rinuncia al ruolo. Paro paro ad Aleksej, che adesso fa il programmatore, ma che ha passato le otto stagioni teoricamente migliori della sua vita a collezionare medaglie dell'esercito russo in Kamchatka. E fra i ghiacci ha maturato una tale fame bulimica di mondo che dopo tre anni di purgatorio obbligatori per smaltire un po' di segreti di Stato ha deciso di girare Nepal, India e Sri Lanka in 3 settimane. E' partito ad handicap, perché la moto che aveva affittato l'ha mollato ai piedi dell'unica salita del Paese proprio quando aveva deciso di darmi un passaggio. In eredità mi lascia comunque birra, patatine, una mappa dettagliata e la voglia di camminare.
Per questo finisco per percorrerla a piedi, la costa da Weligama a Galle. In due giorni macino una quarantina di chilometri di stick fishermen, di pescatori in bilico su pali piantati nell'oceano, di pagode, templi indù, chiesette e moschee in ordine di frequenza, di manifesti del sorridentissimo Mahinda Rajapaksha e di pubblicita' delle quattro aziende di telefonia mobile (i cellulari sono così diffusi che in caso di tsunami il governo ha previsto un bel messaggino collettivo di allarme), di corvi e pipistrelli, di varani e vipere dal metro e mezzo in su, di qualche vacca sacra e qualche benedetta mangusta, di palme e scoiattoli, di una pletora guest house e di negozi allestiti con le rimesse degli emigrati, di branchi di cani randagi e di bus lanciati a razzo a rifarti la piega, visto che non c'è un metro per i marciapiedi. Come sopravvivano tutti 'sti animali all'avanzata del cemento non lo so. So solo che fra Matara, il punto più meridionale dell'isola, e Negombo, il più occidentale, si sgomita in 200 chilometri di asfalto opprimente, risparmiato solo dove sono stati allestiti i piccoli cimiteri per le oltre 40.000 vittime dello tsunami. Dopo l'Indonesia questo è il Paese che ha pagato il tributo più alto a quella catastrofe. E so che arrivo a Galle con una maglietta ridotta a un cencio tempestato di granelli di polvere e catrame. Non voglio sapere cosa ho nei polmoni. Quando un fruttivendolo di Kogalla mi chiede quale sia il mio problema, gli indico la testa. Da queste parti un problema diffuso: 50 anni fa un monaco ammazzò il presidente della Repubblica e ancora 20 anni fa Terzani la chiamava l'isola folle. Forse nel senso che se non sei matto come Casul - lo scemo di un villaggio, Polhena, dov'è di dominio pubblico il flirt tra un bonzo e una donna sposata - ci diventi, scemo. E gli incontri che fai non è che aiutino. Io per esempio incontro una poliziotta che cerca di vendermi un appezzamento di terreno, un batterista convinto che il cancro si sconfigga con infusi di foglie di papaya, e Luka. Cinquantenne dal fisico tirato, berlinese, separato, è la mente che ha ideato i velotaxi e che da Unter den Linden li ha esportati in tutto l'occidente (tranne che in Italia, ne ha anche discusso coi sindaci di Milano e Firenze ma ha sbattuto contro l'altolà della 'mafia dei tassisti'), quindi dopo un divorzio e una specie di crisi mistica nel 2008 ha ceduto il marchio e il business e ora vive soprattutto per yoga e meditazione. "I nemici da combattere sono la paura, la rabbia e il desiderio" mi confessa, prima che il suo iphone cominci a suonare a tutto spiano. Prima è la figlia, poi la nuova compagna, quindi il tizio che gestisce uno dei suoi alberghi. Anche Vivianne è tedesca e divorziata. Ma per via delle sue facoltà dagli Inuit della Groenlandia si fa chiamare Shaman e dai cingalesi Shanti, la 'pace interiore'. A conferma del suo basso profilo, sul biglietto da visita della sua guest house sostiene che ti aiuterà a trovare il cammino che porta dentro il vero te e sul biglietto da visita del suo centro massaggi di Francoforte si autodefinisce 'maestra di vita'.
I dottori K.B. Shantha, Pereira, Dimmaka e tutta la compagnia di giro si definiscono invece 'dottori' perche' lo sono proprio, dottori. Ma sulla spiaggia di Unawatuna si comportano come liceali in gita, tambureggiando e cantando a squarciagola per ore, mangiando pollo alla trinitrina e riempiendo bicchieri su bicchieri di Smirnoff purissima per spegnere l'incendio. Shantha del resto si è laureato a Mosca, e tutt'ora invita anestesiste russe a fare stage in un ospedale di Colombo. E quelle gli lasciano ricordi su ricordi. Così quando sotto un diluvio che neanche nei video dei Take That la spiaggia rimane deserta, sulla costa si sentono solo loro rumoreggiare sotto l'effetto della vodka. Loro e me. Salutandomi a fine giornata, Shantha mi propone alticcio, complice e cameratesco di celebrare l'addio al celibato nel resort di un suo amico, assieme a cataste di gamberoni freschi, liquori di importazione e le amorevoli cure delle sue stagiste moscovite.
E visto che in vita mia ho ricevuto proposte peggiori, qualche giorno dopo trovo anche il modo di andarci, a Wadduwa. Ma poi con un mozzico sulla lingua e una martellata più a sud passa la paura. E sotto l'ennesimo diluvio mi ritrovo in una struttura eco-friendly desolatamente deserta assieme a sei singalesi villosi, a consumare cinque portate di pesce e frutti di mare annaffiate da un brandy prodotto su licenza francese. Poi resto pure a dormire. Offre la casa, è il mio addio al celibato.

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lunedì 8 novembre 2010

Arrivederci Roma

Il lungotevere è la fiera del grattacheccaro aperto. Di 5 novembre, mica sotto la festa de' noantri. Voglio salutare tutto e tutti, amici e sampietrini, Corviale e Pasquino, er Colosseo e er mejo buco, perché 'sto giro non è in questione il se ma il come ci torno, a Roma. Sono in moto, fermo al semaforo, squadro la fila di stranieri davanti al chiosco di sora Mirella e di colpo sento un peso. Una stretta forte, improvvisa, sempre più dolorosa. Non al cuore, sul piede. Il destro, quello scalognato, quello dei dermatofiti tignosi e delle fratture multiple da Mikasa. La fitta sale dalle falangi al metatarso, dallo scafoide all'astragalo. Se è un segno divino tocca trova' un interprete. Mi giro come una mangusta: AHOOO! Delle 97.000 Smart che circolano nel raccordo, una color vaniglia si è fermata precisamente sul mio piede destro. Né prima né dopo né in punta, proprio sopra. E il tizio al volante è troppo impegnato al cellulare per realizzare che con i suoi 800 chili sta mettendo fine alla mia carriera da idraulico a Melbourne. Alla viglia del primo inter rail, anno del Signore 1995, dovetti millantare l'esenzione dal servizio di leva rischiando di finire nel carcere militare di Gaeta. Stavolta bastano due sventole a tutto braccio sul lunotto anteriore della Smart e un paio di contumelie imparate in fasce fra i banchi di via Sannio per convincere il tizio a parcheggiare altrove e a lasciarmi partire con tutti i pezzi a posto per le Maldive (3 giorni), per lo Sri Lanka (12), per la Malaysia (2), molto in teoria per il Bangladesh (12) e infine per l'Australia.
A tempo indeterminato.


p.s. il governo attuale si è insediato 3 giorni dopo che sono rientrato dal giro del mondo. Tocca tenere duro qualche altra ora e poi è tutto finito. Ero io che portavo sfiga.

domenica 15 agosto 2010

Le follie dell'Imperatore

Il panorama è desolato in tutti i sensi. La Libia è il sedicesimo Paese del mondo per estensione e il centunesimo per popolazione, sei milioni di persone occupano una superficie grande sei volte l'Italia. Sparpagliare tutti i pugliesi e i calabresi tra Gibilterra e il vallo di Adriano per vedere l'effetto che fa. Quanto a densità solo Australia, Mongolia e Namibia stanno peggio. O meglio, considerando che i pochi che ci sono producono un migliaio di morti l'anno sulle strade e disseminano i lati di rifiuti niente affatto biodegradabili. Il bello è che di questo immenso vuoto solo l'1% è coltivabile; il resto è pietrisco punteggiato di pietre puniche, greche, romane e bizantine ma pur sempre pietre. E il territorio è accuratamente evitato dai fiumi: lungo i 1770 chilometri di coste non si trova una foce neanche per sbaglio. In un posto così, con zero corsi d'acqua, la definizione di scatolone di sabbia è anche generosa. Ecco perché, cacciato re Idris con la rivoluzione del 1° settembre '69, Gheddafi ha messo in agenda la soluzione del rompicapo vitale: i libici abitano su un'isola di sale stretta fra il mare e il deserto nella quale non hanno futuro. E lo ha risolto a modo suo, costruendo l' "ultima meraviglia dell'uomo", il Great man-made river (qualche volta chiamato il Great made-man river, che suonerebbe come 'Il Grande fiume fatto-uomo' volendo proprio bada' al capello), il progetto destinato ad estrarre l'acqua dolce dalle falde sotterranee del Sahara per condurla fino alla fertile fascia costiera. L'opera è stata però inizialmente accantonata perché il colonnello aveva altri impegni. Nei primi 10 anni di governo ha avuto per esempio da fare per confiscare i beni degli oltre 20mila italiani e per sfrattare gli americani da Wheelus Field, una delle più grandi basi militari del Mediterraneo, per beccarsi con gli ulema su Corano e shari'a e per scolarizzare il 99% dei ragazzi, per dotare ogni villaggio di strade e di corrente elettrica e per costruire supermercati statali al posto dei suq e 200 mila alloggi al posto delle capanne. Assicurando così alla Libia il primo posto al mondo per consumo di cemento pro capite.
Parallelamente, visto che la sabbia era oggettivamente poco ricettiva agli stimoli della sua (tutta sua) 'Terza Teoria Universale', Gheddafi s'è fatto bandiera e promotore del panarabismo, e per sette volte ha cercato di unire la Libia agli altri Stati dell'area. Ma da Nasser in giù trovato solo pacche sulle spalle e porte chiuse. Così, fallita la via diplomatica, ha imboccato quella della forza. Fra il '72 e l'84 ha speso in armamenti 500 miliardi di lire - quattro volte più dell'Italia - acquistando 111 caccia Mirage dalla Francia, 380 blindati Cascavel dal Brasile, 80 Scud, 250 MIG e 2500 carri armati dall'Unione Sovietica, dilapidando il 10% del PIL garantito dal petrolio per armare fino ai denti un esercito di mercenari pakistani, palestinesi, siriani e nordcoreani, ma finendo puntualmente per prendere schiaffi anche in guerra. Persino dal Ciad. Così ha ripiegato sui finanziamenti ai gruppi indipendentisti di mezzo pianeta e sulle minacce di usare 'l'arma distruttiva assoluta' se Israele non fosse stato fatto sparire dalla carta della Terra, ma ha ottenuto solo che la Libia finisse diritta dritta sulla neonata lista degli Stati canaglia. Appena eletto, poi, Reagan ha trovato nella cassetta della posta un messaggio che più o meno recitava: "E' mia speranza che durante la vostra amministrazione i pellerossa vedano riconosciuti i loro diritti, perché nel recente passato i pellerossa mi hanno inviato lettere chiedendo il mio aiuto e perché la maggioranza degli indiani è di origine libica. Io spero di avere un giorno l'opportunità di mostrarle sia le missive sia i reperti archeologici che provano l'origine libica dei pellerossa". Firmato Muammar Gheddafi. Il quale è passato perciò in fretta dall'etichetta di "soggetto bizzarro affetto da stati psicologici limite" (Jerrold Post, capo della divisione politico-psicologica della CIA) a quella di "pirata, ciarlatano, barbaro pazzoide, cane matto" (Ronald Reagan reprise) a quella di "cancro da estirpare a tutti i costi" (Alexander Haig, Segretario di Stato Usa). Anche a costo di fargli pagare gli attentati terroristici di matrice siriano-palestinese - come quelli della discoteca di Berlino e dell'aeroporto di Fiumicino - con il bombardamento che nella notte del 15 aprile 1986 devasta Tripoli con sommo sollievo dei media americani (il New York Post titola 'Gheddafi, beccati questa').
La spallata è dura e obbliga il colonnello, che fra le macerie ha perso una figlia adottiva, ad un cambio di rotta. Il patto che lo lega ai libici o almeno a quelli che sopravvivono alle sue epurazioni d'altra parte si basa su una relativa prosperità in cambio di una spericolata politica di grandezza e della tortura rappresentata dalla lettura del Libro Verde, il Vangelo dell'uomo moderno. Ma quando agli insuccessi militari si aggiunge il crollo delle entrate petrolifere, a Gheddafi non resta che riconciliarsi con i vicini bistrattati (Egitto, Marocco, Giordania, Kenya, Liberia, Gabon, Costa d'Avorio, Senegal, Zaire - e ne dimentico sicuramente altrettanti - accusati di essere 'agenti dell'imperialismo') per trasformarsi da militante del panarabismo a sostenitore della meno compromettente causa africana. Tanto il nemico resta lo stesso, l'Occidente. E per mantenere la coerenza basta continuare a pretendere dall'Italia un congruo risarcimento per i danni del colonialismo e della guerra (a suo dire la scia di sangue lasciata da Hitler è nulla in confronto a quel che hanno combinato Giolitti, Mussolini e Graziani fra Tripolitania e Cirenaica), aggiungere al conto l'annessione di Venezia e delle Tremiti ("la maggior parte dei loro abitanti è di origine araba e libica" ipse dixit) e sparare anche un paio di missili su Lampedusa. Tanto l'Italia dipende dal petrolio di Misurata e continua a vendergli la maggior parte dell'arsenale militare. Insomma, il manico è dalla parte del colonnello. Perciò l'Italia è anche l'unica che continua a fare affari con lui nonostante l'embargo che dopo gli aerei abbattuti a Lockerbie e nel Teneré lasciano la Libia isolata dalla comunità internazionale per un decennio intero. Quegli anni Novanta in cui Gheddafi consolida il potere autocratico e repressivo nella Jamahiriya - lo Stato delle masse - decapitando i dissidenti (la metafora politica va presa abbastanza alla lettera), completa la metamorfosi da fallita guida del mondo arabo a capofila del movimento panafricano, fraternizza con Mandela, accatta il 7% della Juventus e una bella fetta di Unicredit e fa giocare il figlio scemo, Saadi, due partite in serie A. Una con il Perugia di Gaucci e una con l'Udinese di Pozzo. I casi della vita.

E visto che c'è, anche per inaugurare quel benedetto grande fiume artificiale. Completato in 23 anni dai coreani della Dong, realizzato grazie al lavoro di 13.000 persone, alla produzione di 574.000 tubi di cemento armato dal diametro di 4 metri, all'utilizzo della più alta concentrazione di camion al mondo e soprattutto all'esborso di qualcosa come 30 miliardi di dollari, il sistema raccoglie le acque dalle falde fossili dell'oasi del Fezzan con pozzi profondi anche 1000 metri e secondo la propaganda locale si snoda per buoni 20.000km. Quando il 1° settembre '96 il colonnello apre le paratie, l'acqua rovescia i tombini (molti dei quali ancora di epoca fascista) e riempie le piazze di Tripoli fra il tripudio generale. Insomma, oggi le città della costa hanno finalmente acqua dolce e l'agricoltura può cavare sangue dalle rape del deserto. Il problema è che quando le falde saranno svuotate, del mitico fiume artificiale resteranno solo tubazioni con incisi i versi del Libro Verde. Secondo gli esperti potrebbe accadere fra 50 anni, più o meno in concomitanza con l'esaurimento delle scorte di greggio. Per allora questo Gheddafi sarà storia, ma il potere potrebbe essere finito nella mani del figlio Seif Al-Islam. Quello che come il padre - secondo l'archeologo che mi illumina su Leptis Magna - soffre degli stessi vizietti di Berlusconi. E ha reso Valeria Marini l'italiana più famosa in Libia. Roba da cominciare ad emigrare prima che spuntino gli eredi.

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domenica 23 maggio 2010

Uno, nessuno e centomila

Nel frattempo ho fatto l'autore televisivo, nel senso che ho firmato I Miti del Foro - quattordici puntate sulla storia degli Internazionali di tennis - e uno speciale in quattro episodi sulla finale di Fed Cup. Nel frattempo ho collaborato ad una collana di 16 dvd della Gazzetta sui 300 luoghi da vedere nella Terra, ma lì ho lasciato il timone dopo essermi sentito dire che dovevo scrivere: "l'orto botanico di Padova rappresenta la culla della civiltà occidentale". Nel frattempo l'idea più ambiziosa - percorrere via terra la strada tra Roma e Johannesburg con un pallone come amico e un cameraman come accessorio, centrifugare 'Overland', 'Sfide', 'Ulisse' e 'Turisti per caso' per raccontare l'Africa e i Mondiali di calcio, ha ricevuto plausi sparsi da Rai, Sky e compagnia bella e ha reperito fondi sufficienti per comprare una Lamborghini Diablo. Ma alla fine per qualche motivo è saltata. Nel frattempo ho fatto l'emiciclo dei paesi arabi, dallo Yemen al Marocco, passando per l'Algeria e per l'ambasciata libica, ho guidato un migliaio di turisti a San Pietro, ho ricevuto forme di petting più o meno intense da Mediaset, TeleRoma56 e Rainews 24, ho risposto picche alle avances di un paio di quotidiani, ho fatto 97 telecronache per Dahlia Tv e SuperTennis e soprattutto ho pianificato un matrimonio a Melbourne. Il mio.
Ma nel frattempo mi sono tenuto alla larga dalla radio. L'ho spenta il 31 agosto (nel frattempo è arrivato, Fioranelli?) e da allora gli unici contatti si sono limitati al recupero crediti. Dalla prossima settimana, però, tra una cosa e l'altra ricomincio. Fra l'altro da dove ero partito, una quindicina di anni fa. A Power Station. Negli studi mi ha accolto Consuelo, genovese e genoana, che lì è entrata come donna delle pulizie e ora fa di tutto. E' lei che offre cortesemente da bere agli ospiti, è lei che se serve sostituisce i fonici, è lei che fa l'agente pubblicitario (trovando uno sponsor al giorno, dice) ed è lei che conduce saltuariamente il programma serale. Quando sull'avambraccio braccio destro le ho intravisto una celtica le stavo per chiederle se per caso avesse antenati dalle parti di Kilkenny, alché l'occhio mi è caduto sul sinistro, sul quale con pungente sarcasmo politico s'è fatta tatuare venti centrimetri di scucchia del Duce. Sul display del cellulare ha entrambe. "Certo che hai una bella fortuna - mi ha detto illustrandomi il palinsesto della radio - a fare trasmissione alle 14, dopo 'I Figli della Lupa'. Non sai quanti fans hanno Patrizio Petruzzi, Alessandro Grassetti e Fabio Parrotto. Li seguono dappertutto. Che traino... proprio una bella fortuna". Mai dubitato.

mercoledì 17 marzo 2010

Il deserto dei tuareg

Mi vado a togliere un po' di sabbia di dosso e torno.
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Il Compagno di Viaggio