giovedì 26 luglio 2012

Fields of gold

Nel 1851 Dickens finiva David Copperfield, Hugo lavorava ai Miserabili, Baudelaire ai Fiori del male e Tolstoj maturava nel Caucaso le esperienze che avrebbe tradotto in Guerra e Pace. Nel 1851 Manzoni, Dumas, Flaubert e Dostoevskij erano nel pieno della vita attiva e riproduttiva, mentre Carducci dedicava le prime poesie d'amore alle compagne di classe e Darwin teorizzava l'evoluzione della specie. In pratica in Europa c'era un sacco di gente interessante e non si faceva altro che scrivere.
Il vecchio continente era un posticino tranquillo, quarant'anni dopo Waterloo e sessanta prima di Sarajevo. Nel 1851 la gente inventava i barbiturici, il semaforo e l'accendisigari, Zola giocava a nascondino con Cézanne e Mary Shelley si reincarnava nella regina Margherita di Savoia, quella della pizza. Senza l'ombra della spending review, gli europei stavano tranquilli e paciosi a casetta loro e l'Australia stava bene dov'era, in fondo a sinistra. Lontana lontana e abitata da duecentomila discendenti dei galeotti deportati 60 anni prima dall'Inghilterra, più qualche manciata di aborigeni scampati alle prime pulizie di primavera.
Poi - il 12 febbraio di quel 1851 - un tale di nome Edward Hargraves, dopo un tentativo andato a vuoto in California e un paio di traversate del Pacifico, trovava qualche pagliuzza d'oro vicino Bathurst, a 200 chilometri da Sydney. Con la rapidità che evidentemente già allora li contraddistingueva, gli australiani ne davano notizia 80 giorni dopo, il 2 maggio. In un giro di passaparola si riversavano nel Nuovo Galles del Sud cercatori dai quattro angoli del globo, preceduti ovviamente dagli aussies, ai quali finalmente la vita aveva dato qualcosa fa fare.
Per evitare di ritrovarsi disabitati come prima dell'arrivo di Cook, i governatori degli altri Stati dovettero offrire ricompense a chi avesse trovato filoni auriferi anche nel loro sottosuolo. E in breve l'oro spuntò dappertutto. Nel Victoria sbucarono giacimenti così ricchi che l'affare fu fiutato anche in Cina, e così inesauribili che 130 anni dopo, nel 1980, un signore barbuto e canuto di nome Kevin Hillier portava alla luce la seconda pepita più grande del mondo, un arnese da 30kg poi ribattezzato Hand of Faith e venduto a Las Vegas per 1 milione di dollari. L'aveva scovato con lo stesso metal detector col quale Mike rimedia al massimo una fede sulla spiaggia di Sperlonga.
Finito mio malgrado a Ballarat, 100km a ovest di Melbourne, c'ho provato anch'io. Dopo cinque minuti accovacciato su una padella, dal fiumiciattolo hanno fatto capolino queste robine qui. Dicono sia oro, in effetti.
Tutte insieme valgono meno di un biglietto del tram. E ho dovuto metterci lo scotch, sulla tesserina, altrimenti manco il ricordo mi restava. Ma appena tornato a casa ho trovato una lettera del governo. Sei giorni dopo aver compilato online la dichiarazione dei redditi, mi informava che sul mio conto avrebbe versato un rimborso. Poi l'ha pure fatto. Tremila dollari, precisi precisi il costo dei voli Melbourne-Gold Coast-Tokyo (14 agosto), Seul-Mosca-Roma (7 settembre) e Roma-Doha-Melbourne (27-30 settembre), più il Japan rail pass per due settimane, il traghetto da Fukuoka a Busan in data da stabilire e due cocuzze per la riparazione della Nikon, uscita da Algeria, Bangladesh e Papuasia con circuiti morti e feriti (la qui presente è stata scattata col telefonino, indeed). In Italia aspetto ancora il rimborso del 2008.