mercoledì 30 aprile 2014

La partita di pallone

I controlli ai cancelli sono più rigidi del previsto, ma lo spettro del terrorismo non c’entra niente. In Oman l’abbigliamento tradizionale prevede la dishdasha – una tunica bianca –la kuma - un berretto ricamato - e il khanjar, un coltello ricurvo agganciato alla cintura. In pratica le perquisizioni servono soprattutto ad evitare che i match si trasformino in duelli rusticani. Ma una volta messe le mani nel mio zaino, i poliziotti ne approfittano per requisire quanto di più prezioso ci sia al Tropico del Capricorno, quando il pomeriggio è giovane, l’estate alle porte e in giro non c’è l’ombra di un bibitaro: l’acqua.
Lo stadio costruito nel distretto di Boshar, periferia nord della capitale Muscat, è battezzato Bin said Qaboos, come il Sultano patito di musica classica che da 40 anni governa l’Oman con piglio illuminato, e a colpi di infrastrutture e di welfare ha trasformato uno dei pochi lembi di Penisola Arabica senza massicce riserve di petrolio (da qui sgorga meno dell’1% della produzione mondiale di greggio) in uno Stato moderno, stabile e relativamente benestante, che dialoga con i vicini senza strizzare l’occhio al fondamentalismo islamico e con l’Occidente senza scimmiottare il gigantismo di Dubai. Una nazione entro certi limiti persino laica, nella quale tre-quarti della popolazione segue una confessione che non ha legami né con lo sciismo né con il sunnismo, ma nella quale le partite di calcio iniziano alle 17. Tanto per evitare di intralciare la preghiera delle 19 e urtare la sensibilità di qualcuno.
Oman-Iraq è valida per le qualificazioni ai Mondiali. In un gruppo dominato dal Giappone di Zaccheroni, le due squadre sono ancora in corsa per una storica promozione alla fase finale: i padroni di casa – guidati dal francese Paul Le Guen, ex manico del Lione e  del Camerun - hanno battuto la Giordania e pareggiato entrambe le partite con l’Australia. Due mesi fa, a Sydney, ad inizio ripresa conducevano addirittura 2-0, prima che i Socceroos  rimontassero lo svantaggio limitando i danni. L’Iraq è lontana parente della formazione che nel 2007 ha vinto la Coppa d’Asia, ma è arrivato a metter paura ai nipponici a Saitama e non ha mai perso con più di un gol di scarto. Insomma, i 3 punti contano eccome, ma per chi è abituato al rombo dell’Olimpico, il clima sembra quello da amichevole estiva. Anche, o forse soprattutto, per i 40 gradi.
Superato lo schieramento di soldati, e rimasto senza liquidi a 2 ore dal fischio d’inizio, mi accodo al primo gruppo di tifosi di casa. Rimasti senza daga, gli ultrà sono armati di megafoni e stendardi, e portano al collo sciarpe –di lana per giunta - con l’effige di Qaboos. La sistemazione obbligata è nella tribuna centrale, dove alcuni volontari distribuiscono delle pettorine di plastica rosse da indossare a scopi scenografici. Un impianto da 40mila posti intitolato al monarca assoluto ha il compito di rappresentare il sentimento di attaccamento alle vicende nazionali, sia pure calcistiche, anche a costo di prendersi un’insolazione. La letteratura sull’argomento insegna che il rischio di trasmettere un’immagine desolante si può prevenire in due modi: vendendo i biglietti a 2 dollari e accalcando i presenti proprio a beneficio delle telecamere. La federcalcio locale prova entrambe le soluzioni con risultati apprezzabili: inquadrato alla TV, il Sultan Qaboos Sport Complex sembra tutto esaurito, e nella tribuna centrale ogni spettatore contribuisce a formare una macchia monocroma. Rossa, come le maglie degli idoli di casa.
In realtà l’afflusso sugli spalti è lento, e oltre allo spicchio che condivido con altre 3 mila persone il colpo d’occhio è deprimente. I minuti scorrono lenti e l’afa è un potente silenziatore. La miccia che accende l’entusiasmo – poco prima del riscaldamento – è l’ingresso in campo di  un uomo col braccio legato al collo. E’ Ali Abdullah Al-Habsi, il portiere della nazionale, l’unico giocatore omanita con un pedegree internazionale. Dieci anni fa è diventato il primo calciatore del suo Paese ingaggiato da un club europeo; dopo un paio di campionati in Norvegia, ha compiuto il grande salto nella Premier League inglese, vestendo le maglie del Bolton prima e del Wigan poi. Nella stagione di debutto coi Latics è stato pure eletto miglior giocatore della rosa, grazie ad una statistica formidabile per chiunque, tanto più per un portiere nato a queste latitudini: nelle varie competizioni Al Habsi ha parato la metà dei calci di rigori, neutralizzando gente del calibro di Tevez, Van Persie e  Chicharito Hernandez. Ad ogni prodezza, la popolarità sua e del calcio, in Oman, ha subìto un’impennata.
Al Habsi anche contribuito allo storico successo nell’FA Cup del Wigan, che meno di un mese fa a Wembley ha conquistato il suo primo trofeo nazionale superando 1-0 il City. Insomma, oltre ad essere capitano per l’anagrafe, Al Habsi ha tutti i requisiti del mito vivente. In patria ha anche fondato ‘Safety first’, un’associazione no profit che intende sensibilizzare gli omaniti a guidare con prudenza, visto che in un Paese tanto vasto quando scarsamente popolato la gente inebriata dalle strade ampie, nuove e vuote tende a premere scriteriatamente sul l’acceleratore, e il tasso degli incidenti mortali in rapporto ai veicoli che circolano è undici volte maggiore all’Australia.
Il boato che accompagna l’ingresso in campo di Al Habsi è però soprattutto carico di commozione:  un infortunio alla spalla obbligherà il portierone a sottoporsi ad una delicata operazione che a 31 anni potrebbe anticipare la fine della carriera, e intanto costringe l’Oman a fare a meno del suo numero 1 sulla strada verso il Brasile. Il posto del capitano tra i pali viene preso da Faiz Al-Rushaidi, uno spilungone che ha debuttato in nazionale 3 anni fa ma che da allora ha collezionato appena un paio di presenze; un po’ per le garanzie offerte dal titolare, un po’ perché Rushaidi, di garanzie, ne offre poche. Il pubblico lo sa, e durante il riscaldamento sostiene il ragazzo con cori che partono proprio dallo spicchio in cui sono confinato io e che si mescolano a quelli dedicati alla grandezza della squadra, della nazione, di Qaboos e di Allah.Non necessariamente in quest’ordine.

Quando i giocatori scendono finalmente in campo, un segnale indica che le telecamere si sono accese, così i miei vicini di seggiola sfidano la calura indossando la pettorina rossa, sopra la dishdasha o al posto delle magliette ufficiali con le quali i giovani si sono presentati allo stadio. In giro c’è di tutto, da simpatizzanti di Barcellona e Real a quelli di Juventus e Napoli; sono rappresentate le due sponde di Milano, le due di Manchester e le tre o quattro di Londra, ma per qualche minuto il pubblico di casa cede alla ragion di Stato e la tribuna dello stadio Qaboos diventa tutta rossa. Poi, ad un primo boato, segue qualche timido fischio.
Sono cominciate infatti a risuonare le note del Mawtini,  la marcia patriottica palestinese composta 70 anni fa e adottata come inno nazionale iracheno dopo la caduta di Saddam Hussein. Il disappunto che si leva dal settore del tifo organizzato omanita si ripiega presto su se stesso, traformandosi rapidamente in un mugugno che viene altrettanto in fretta fagocitato dal coro del migliaio di iracheni sistemati accanto alla tribuna autorità. I rapporti tra le anime del mondo arabo non sono appesantiti da secoli di violenze e rancori come nel Vecchio Continente, ma le rivalità posso essere altrettanto aspre. L’Iraq, però, fa eccezione: negli ultimi 30 anni il popolo ne ha passate di tutti i colori, e anche i vicini meno amichevoli non possono fare a meno di provare un moto di empatia, anche quando in ballo c’è il pallone.
Mesi fa fa l’Iraq ha celebrato il primo decennale della fine del Regime, e secondo l’ONU il numero dei profughi fuggiti durante il conflitto con l’Iran, la guerra del Golfo, la dittatura di Saddam e l’invasione Alleata che adesso rientra nel Paese è in continuo aumento, e ha toccato l’anno scorso quota 80mila. Tre decenni di sangue hanno devastato la terra tra il Tigri e l’Eufrate, provocando la più grande e continua diaspora dei tempi recenti. Il 15% della popolazione irachena ha lasciato le proprie case e di questi – in gran parte giovani e professionisti - quasi due milioni di rifugiatii sono stati accolti tra Giordania e Siria, da dove hanno poi preso il volo per il resto del mondo, dal Canada alla Gran Bretegna, dagli Stati Uniti all’Australia. Oltre centomila hanno trovato asilo in Egitto, almeno diecimila in Turchia, ma neanche un iracheno è stato accolto in Oman.
L’inizio del match è al piccolo trotto: tolto Habsi e quattro giocatori ingaggiati da società della Penisola, infatti, tutti i componenti dei Red Warriors giocano nel campionato nazionale, finito esattamente da due settimane. Dall’altra parte Vlado Petrovic, alla dodicesima panchina diversa negli ultimi 17 anni (meglio, o peggio, di lui ha fatto la federazione omanita, che con Le Guen ha ingaggiato il trentesimo commissario tecnico in 29 stagioni), ha gli stessi problemi del collega francese, ma l’Iraq è talmente a corto di uomini di talento da mandare in campo un minorenne, Humam Tariq, classe 1996.
Il mix di caldo, inesperienza e gambe pesanti rende il primo tempo uno sterile, prolungato possesso palla dei padroni di casa, ma la rete in qualche modo arriva, allo scadere della frazione, grazie ad un’indecisione del portiere iracheno Sabri (90 presenze e un esordio in nazionale nel lontano 2002) della quale approfitta Ismail Al Ajmi, che gioca in Kuwait e perciò in Oman ha solo estimatori. L’esultanza per il vantaggio dura tutto l’intervallo.

Durante la pausa esco dalla fossa rossa per esplorare gli altri settori del complesso e visto che ci sono per cercare magari dell’acqua potabile. Passo attraverso la curva, che negli stadi occidentali è sinonimo di tifo esagitato mentre qui sembra il buen retiro di uomini di mezza età, poi mi accomodo nella tribuna per famiglie, frequentata in gran parte da ragazzini e donne con l’omaniya, ma con una  rappresentanza di 900 mila expats che abitano nel Sultanato. Per la maggior parte sono lavoratori del subcontinente indiano, ma ci sono anche professionisti nel settore dell’estrazione e delle inftrastrutture e non mancano medici, insegnanti, broker finanziari e archeologi europei.
La destinazione finale, alla quale arrivo dopo essere stato invitato dai militari a fare un salto simbolico in tribuna stampa e uno molto più pratico oltre un muro di cinta, è però la curva degli ospiti. Quando entro, assieme al sole stanno tramontando le ultime speranze dei Leoni della Mesopotamia di qualificarsi a Brasile 2014. Nello spicchio risuonano cori rabbiosi e tamburi, ma nonostante il chiasso e le occasioni dell’Oman – che almeno tre volte potrebbe chiudere il match in contropiede - riesco a scambiare alcune parole con i tifosi. C’è Ahmed, che vive in Nuova Zelanda ma quando può vola in Medio Oriente per seguire la nazionale irachena, c’è Mohammed, che è scappato da Basra quand’era bambino e da allora non ha più rimesso piede nel suo Paese ma ora gestisce un’azienda negli Emirati, e c’è Samir, che insegna ingegneria civile all’Università di Muscat. Nessuno si spiega perché un Paese abitato da gente tanto cordiale come l’Oman non abbia aperto le frontiere ai profughi iracheni quando ce n’era bisogno. Ma nessuno si spiega soprattutto perché diamine, a tempo scaduto, il pallone scagliato da un attaccante di Petrovic passi in mezzo ad una dozzina di gambe ma finisca in pieno tra le braccia tremebonde di Al Rushaidi.
Il risultato non cambia e così, al fischio finale della terna coreana, il settore ospite ammutolisce e gli occhi di mille iracheni arrivati dai quattro angoli del pianeta si riempono di lacrime. Se per una notte di inizio estate l’Oman scende in strada sognando i Mondiali di calcio, la diaspora irachena riunita per un pomeriggio grazie al calcio si risveglia ancora una volta a mani vuote. E ancora una volta deve aggrapparsi ad un orgoglio nazionale che non ha nulla di nazionalistico. Gli iracheni sono felici di essere qui, ma più probabilmente sono ancora più felici di essere. “Siamo giovani, resistenti e abituati alle botte – dice Samir - Tranquilli, fra quattro anni tocca a noi”.



(tratto da 'The Thin White Line' - issue n.1)