lunedì 10 aprile 2017

A che ora è la fine del mondo?

Me li immagino seduti davanti a uno schermo, quelli di Canberra. 
Tazzona in una mano, dossier nell'altra, a cercare di capire quale problema nasconda 'sto tizio che va ad Aleppo e Sana'a, Tripoli e Teheran, si imbuca a Pyongyang, googla visa on arrival a Riyadh e poi, quando atterra a Melbourne viene beccato con tre chili di salami imboscati nelle scarpe invece che col manuale del giovane jihadista. 
"Ma che razza di foreign fighter è?", si chiederanno quelli dell'Asio. 
"E adesso che c'azzecca il Corno d'Africa?"
Me li immagino così, dicevo. 
In realtà battono talmente la fiacca che per indagare sul sottoscritto e capire quale minaccia rappresenti per l'Occidente, l'intelligence australiana ha mandato avanti la mia banca. La quale mi ha bloccato il conto, e per conto dell'anticoso mi chiesto conto dei perché, dei per come e dei per quando avevo deciso di andare in Gibuti e Etiopia passando per la Somalia.

Con un pippotto di 853 parole e 4000 caratteri gli ho spiegato le mie intenzioni per filo e per segno. 
Gli ho detto che mi attirano il paesaggio marziano del lac d'Abbe' e la scoperta delle grotte di Las Geel, che mi affascinano le iene a spasso di notte per le stradine di Harar, gli uomini col piattello della valle dell'Omo, le cascate del Nilo azzurro, le chiese di Lalibela, l'architettura di Gondar e soprattutto l'obelisco di Axum, che tredici anni fa Berlusconi mi ha tolto da sotto al naso e che da romanticone vorrei andare a salutare a casa sua. Anche a costo di ciucciarmi due giorni di bus da Addis Abeba. 
Dato che hanno voluto visionare anche il piano dei voli - e solo quelli facevano 5 allegati - mi sono sentito in dovere di specificare che se tutto va bene proseguo per Roma, dove però i motivi di interesse sono soprattutto le gricie. Tutt'al più le tenniste. Ma che i 75 dollari trasferiti a un gibutino non c'entravano con la guerra santa. Che sono strano ma mica scemo - tant'è che al Corto Maltese di Tadjoura non ci vado - non gliel'ho scritto. 
Ma secondo me lo hanno capito da soli. 
E non c'è stato neanche bisogno di aggiungere che all'inizio volevo andare in Afghanistan.

Djibouti 10/4

Anche la polizia del Gibuti ha messo subito in chiaro che il mio itinerario non è di suo gradimento. Poi ha aggiunto che qui vigono le leggi dell'Ottocento. 
"No, certo che non basta il visto d'ingresso. Non è che uno può passeggiare per una città straniera e fare foto senza autorizzazione. Sei da solo? Conosci qualcuno qui?" mi sono sentito dire da un agente con lo sguardo allucinato e il guanciotto gonfio di khat che mi ha bloccato in una viuzza buia. 
"Sì, il tipo al quale ho girato 75 dollari" ho risposto. 
Così quanto a cetrioli siamo pari, Jean Daniel.

Somaliland 15/4

Proprio quando pensavo di aver superato indenne la frontiera gibutino-somalilandese di Loyada, un omuncolo in ciabatte, con gli angoli della bocca verdi di khat, la canotta beige e un visetto rotondo nascosto dietro ad un paio di occhialoni da sole, mi ha battuto 20 dollari. Il motivo l'ho scoperto uscendo da un gabbiotto presidiato da un cammellone, quando in cambio mi sono ritrovato Ayanleh. Un Mon Cicci' sudatissimo, con una mimetica scolorita e pixelata stretta da un giubottino antiproiettile extra small dal quale penzolava una cartuccia. Un ascaro. Secondo l'omuncolo, Ayanleh, col suo asciugamanino salmone al collo e il suo AK47 del '69 in spalla, mi avrebbe dovuto scortare fino alla capitale. O almeno fino al paese fantasma di Zeila. Dopo 3km di sobbalzi, quando l'unica auto di passaggio già affondava nella sabbia con noi due a bordo, proprio mentre pensavo che ad Ayanleh non avrei affidato neanche la cura del gatto, il soldato delle forze speciali ha smesso improvvisamente di scattarmi foto col suo Samsung e ha cacciato un urlo - "Cuffiett!" - che stava ad indicare tre cose. Che il gergo militare italiano ha lasciato un'impronta nella lingua somala, che le vocali finali sono un vezzo tutto nostro (qui dicono pure 'farabutt') e che 10 minuti dopo aver messo piede in Somaliland m'ero già ritrovato appiedato nel deserto al tramonto. Bello, per carità, e che come tutte le cose belle era destinato a lasciare una traccia profonda e a finire. Presto, per fortuna. Ayanleh se n'è tornato di corsa al posto di confine dove aveva lasciato il suo basco, poi mi è venuto a riprendere con la jeep - sempre più sudato e trafelato - un attimo prima che facesse buio e io, nel dubbio, mi fingessi morto.


La frontiera di Wajale - tra Somaliland ed Etiopia - più che un avamposto nel deserto sembra la discarica di Malagrotta. La gente in questo caso c'è pure, un metro di plastica a riempire il letto di un fiume in secca parla chiaro - ma mi sa che tra gli accampati del posto gli stranieri sono merce rara. Preso dall'euforia, il funzionario mi ha invitato a sedere e a raccontargli la mia vita. Poi ha organizzato una tavola rotonda col signore che mi aveva preceduto, un anziano etiope con passaporto irlandese rimediato chissà come e che da piccolo ha studiato dalle suore a Dire Dawa. Come Violante.
Le procedure burocratiche in questo caso sono state una passeggiata, ma le magagne sono cominciate dopo e sono state di tre ordini:
1. I tog wajalesi etiopi sono strafatti di khat e fondamentalmente annoiati. Ogni pretesto diventa buono per prendersi a sberle, e quella mattina io rappresento un bel pretesto, visto che bazzico l'avamposto un paio d'ore prima di riuscire a salire su un bus per Jijigga. Quando da un vicolo spunta un fucile, capisco che è arrivato il momento di fare pressioni sull'autista.
2. Forse perché la frontiera è particolarmente soft, forse perché fino a non molto tempo fa qui c'era gente che si lanciava razzi, forse perché il governo teme l'esplosione del contrabbando (sui due lati l'etnia prevalente è quella somala, ma i prezzi ad Hargeisa sono un terzo rispetto ad Addis Abeba) fatto sta che i mezzi che percorrono la strada per Jijigga vengono fermati e svuotati. In tutto il loro contenuto. Letteralmente. Sull'alfalto. Vedi foto. 
Non una, non due, non tre. Quattro volte. Con lo spazzolino lanciato sempre sul manto lato setole. Con ogni calzino esaminato a mo' di guanto. Con ogni dispositivo elettronico analizzato nella sua quintessenza ("Questo è un computer?" "No, si chiama kindle. Libri" "Questo è un computer?" "No, è un ipod. Musica"). Ogni pezzo del beauty vivisezionato. "Questo cos'è?" "È un rimedio contro la cacarella". "E questo?" "C'è scritto soap, secondo te che po' esse?".
Il tutto sotto lo sguardo di altre cento persone, che sarebbero potute essere nelle tue stesse condizioni, ma visto che ci sono già passate e non sono fesse, tra Wajale e Jijigga ci vanno al massimo con la 24 ore.
3. Tra uno svuotamento e l'altro, noto che l'orologio del minibus indica le 5.46. Sarà rotto - penso - visto che sono partito da Hargeisa alle 6 di mattina e il sole è a picco. Chiedo al compagno di sedile, cui nel frattempo ho affidato la Nikon per farlo trastullare con le foto ugandesi, così almeno la smette di allungarmi la mano sulla coscia. "Che ora è?". "Hmmm...le 5.46". Manco il Bagaglino. "Dai, sul serio, che ora è?". "Le 5.47". "..." ("Minchia, ma ci fai o ci sei?") "...". "*#@!" (tipo "mo' ve ammucchio a te e al soldato del sapone"). "Voi direste le 11.47". 
Non credevo fosse umanamente possibile fare peggio dei portoghesi, ma mi sbagliavo. In Etiopia il giorno comincia alle 6 del mattino. L'una sono le 7, le due le 8 e via dicendo. Il tutto sarebbe operazione culturalmente nobile e neanche del tutto peregrina, se non fosse che un orologio su due indica l'ora del resto del mondo, che nessuno ha chiaro in cosa consista il concetto di AM e PM (morning e afternoon poi diventano massimi sistemi) e che ogni informazione richiede tre verifiche. Stamane ho comprato il biglietto del bus da Harar ad Addis Abeba. Il tipo che me l'ha venduto mi ha detto che partiva alle 7. Solo più tardi, un neo amico yemenita mi ha messo la pulce nell'orecchio. "Ma non è che alle vostre 13?" Chiarito il dubbio con una telefonata ("Sì, proprio le 7 di mattina - le VOSTRE"), sono tornato nell'albergo a ore nel quale ho preso posto, dove il giovanotto alla reception mi ha avvisato che la compagnia del bus mi aveva cercato. Il bus parte alle 11 - mi fa - per cui devi essere pronto alle 10.30. Solo dopo venti minuti e dopo aver riempito due fogli di grafici e complicatissimi calcoli e solo dopo aver sfiorato la rissa verbiale, ci siam capiti. Pronto alle 4.30am, il bus parte alle 5am. Se non altro non arrivo ad Addis col buio.
Postilla. Il minivan è partito alle 4. Sono riuscito a prenderlo solo perché l'aiuto-autista ha bussato alla mia porta alle 3.44am. Nostre.
4. Sulla complanare di Jijigga due ragazzotti hanno cercato di fregarmi, spacciandosi per gli autisti della camionetta per Harar. A noi di mezza età capita, però stavolta non ci sono cascato. Poteva finire così, con una risata. Invece due autotrasportatori l'hanno presa sul personale, l'hanno buttata in caciara e sono volati schiaffoni. Uno dei due giovanotti non ne è uscito bene.
(to be continued)