domenica 12 luglio 2020

Arresto sull'Orient Express

La mia è stata un'adolescenza felice, itinerante e movimentata. Scandita da girotondi, giochi di ruolo e team building activities. Ho trascorso estati e capodanni all'estero, primavere e autunni in giro per l'Italia, sempre in compagnia di sbarbatelli come me. Al massimo coordinati da ventenni appena meno sbarbatelli di noi. Grazie a quella benemerita costola dell'Unesco che è il CISV ho visto un sacco di posti e ho incrociato un mucchio di bella gente, ho saltato le tombolate natalizie e ho imparato a memoria le canzoni di John Denver e di James Taylor. E ho scoperto che un decennio di studio dell'inglese non era servito a niente


L'organizzazione promuoveva la pace e la fratellanza attraverso lo sviluppo della coscienza di sé, la comprensione e il rispetto delle differenze e il dialogo interculturale. In pratica dispensava dosi omeopatiche di relativismo culturale e si proponeva di formare cittadini globali senza le cornici ideologiche dello scoutismo o della gioventù comunista. Bello, eh. Tanto più che - oltre alla politica e alla religione - il manifesto del CISV bandiva anche l'alcol e le droghe. Quindi insegnava che ci si può divertire tranquillamente senza. E siccome tra le regole non scritte c'era pure una certa morigeratezza, stimolava dialoghi serali sui massimi sistemi e contribuiva a far instaurare rapporti intimi e platonici. Talmente puritani che ho imparato a tenere a bada gli ormoni e a sublimare le pulsioni, a fare massaggi da pro e a convivere con la castità con grande dignità. Insomma, è colpa del CISV se sono arrivato a 20 anni pieno di ideali e di amici sparsi per il globo, ma incapace di accendere un fuoco. 
E - soprattutto - vergine.


Il tutto con la regia occulta dei miei. 
Mamma e papà spiccicavano giusto l'italiano, ma mi avevano fatto studiare una lingua straniera a 4 anni e un'altra a 10. Erano sempre andati in vacanza a Ischia, eppure avevano pensato di marchiarmi alla nascita con l'antivaiolosa (narra la leggenda che si guardarono e dissero: "metti che da grande fa l'esploratore?"). 
Erano stati al massimo a Vienna, ma avevano avuto l'intuizione di lasciarmi a piede libero per il mondo quando non avevo neanche i peli sotto le ascelle. Non pienamente consapevoli dei pro e dei contro, va detto.


Come quando a 13 anni mi avevano fatto passare una febbre a 40 con i metodi della nonna, seppellendomi sotto quattro coperte di lana per farmi sudare anche le ossa, poi spedendomi sotto la doccia fredda e da lì direttamente su un aereo per il Belgio, dove mi ero ritrovato solo soletto in un Paese con una reputazione ambigua in merito al trattamento dei miei coetanei. Per di più con in mano un indirizzo sbagliato. Ne ero tornato dopo aver dato il mio primo bacio, ma poteva andare peggio.
Due anni prima, era il 1987, i miei avevano messo lo zampino sulla mia prima uscita dai confini nazionali. Una gita traumatica, cominciata con una bufala raccontata da mio padre al doganiere di Villa Opicina per non denunciare la busta piena di dinari jugoslavi nascosta sotto il sedile della Renault 18. E proseguita in un casermone di Fiume che spacciavano per hotel a quattro stelle ma puzzava ancora di cortina di ferro. Mi sentii a disagio durante tutto il percorso tra Postumia e Portorose, dopodiché di grotte non ne volli più vedere.



Quella vacanzina famigliare in Jugoslavia aveva plasmato un potenziale pantofolaio con la comfort zone di un nazista dell'Illinois. Negli anni a venire, invece, la terapia d'urto del CISV mi trasformò in un habitué di campeggi e mulini abbandonati, scuole chiuse e divani altrui. 
Tra i 12 e i 18 anni ne frequentai un mucchio, da Bruxelles a Roskilde, da Chattanooga a Dallas, da Villa del Prado a Loon Op Zand. Da Ottawa a Nazzano Romano. In 6 anni massaggiai un sacco di schiene e versai una quantità di lacrime che neanche la Madonnina di Civitavecchia. 
Ma viaggiare era un'altra cosa.


Dopo la maturità, disegnai perciò un inter-rail come si deve - un mese zaino in spalla assieme a cinque compagni di scuola. Tra beghe interne alla classe e personalita' disturbate, organizzarlo non fu una passeggiata. Come se non bastasse, a poche ore della partenza ricevetti anche una raccomandata con la convocazione militare. Mi si chiedeva di presentarmi per un'ulteriore visita medica da lì a due settimane, nel bel mezzo del giro dell'Europa dell'Est. 
Aggirai la chiamata della Patria nell'unico modo possibile: telefonando al comando centrale e dichiarando il falso, cioe' che ero stato esonerato dall'obbligo di leva. 
"Ma e' proprio sicuro? A noi non risulta" 
"Come no... la comunicazione ce l'ho qui con me!"
Per fortuna l'esonero si materializzò davvero per allergia (ce credo...mi lasci dieci minuti da solo in una stanzetta della Cecchignola dopo avermi fatto le prove allergometriche... come minimo mi aro gli avambracci con le unghie e quando rientri sembrano dei Calippi alla Coca Cola ndr) e io non finii i miei giorni nel carcere militare di Gaeta. 


Poche ore dopo ero finalmente a Termini, ma quello fu l'antipasto di un mese di guai cercati e schivati. Perché quello sì che fu un viaggio e quello sì che mi fece scoprire la passione per quella dimensione caotica, creativa e costruttiva, cambiando per sempre gusti, prospettive e priorità. 
Il caso volle che anche lì fossero determinanti un poliziotto di dogana e dei dinari jugoslavi. 
Perché nell'estate del 1995 la Jugoslavia non era il posto più tranquillo del mondo.


Le prime tre settimane di quell'inter-rail furono di corsa e di stenti, splendide e stancanti, con più notti sui treni che in ostelli, più pasti saltati che birre. Eravamo stati a Vienna e Praga, Berlino e Budapest, poi in Polonia e Romania, quindi di nuovo in Ungheria, da dove avremmo puntato verso Istanbul prima di rientrare in Italia via Grecia. A fine luglio arrivammo a Siofok e ci sistemammo in un residence sul lago Balaton, dove per sette giorni riempimmo finalmente la pancia con chili di spaghetti al sugo. 
Fu lì che scoprimmo che il Budapest-Istanbul non sarebbe passato per la Romania, ma avrebbe tagliato da nord a sud quella regione della Jugoslavia che persino noi - figli degli anni Settanta - avevamo imparato a chiamare Serbia. Ci interrogammo e decidemmo. "Cosa vuoi mai che ci succeda?". 
Solo Manù rifiutò e andò avanti, prese la palla al balzo e tornò in Italia senza salire su quel treno con a bordo pochi autoctoni, un paio di coppie francesi e spagnole e i cinque freschi diplomati del liceo ginnasio statale Ennio Quirino Visconti: Nesco, Mefi, Millo, Neni ed io.  
Fu Manù ad immortalare noi cinque alla partenza sull'erede sfigato dell'Orient Express, che lasciò Budapest alle 2 di pomeriggio di sabato 5 agosto 1995 e che 30 ore dopo sarebbe arrivato sul Bosforo.


Dopo un'oretta nella pianura magiara arrivammo al confine serbo-ungherese tra Szeged e Subotica, dove la polizia di frontiera fece scendere i pochi stranieri sul convoglio. 
Tutti, tranne noi.
Noi cinque potevamo restare sul treno perché, a detta delle guardie, "Serbia e Italia erano in buoni rapporti". Il che suonava un po' come dire che si era pappa e ciccia con Gheddafi all'indomani di Lockerbie o che si era amici di Osama bin Laden e famiglia dopo l'11 settembre. 
Non ne andammo fieri. 
La minoranza serba si era costruita nell'ultimo lustro una nomea pessima, accompagnata da personaggi - Milosevic, Karadzic, Mladic - che evocavano immagini di milizie paramilitari e pulizie etniche, il bombardamento di Dubrovnik e l'assedio di Sarajevo. Non si sapeva ancora nulla del massacro di Srebrenica, ma era proprio in quei giorni che si consumava il peggior genocidio visto sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale.


La comunità internazionale sapeva bene che la direzione delle operazioni era in mano alla Serbia di Milosevic (come anni dopo sarà Mosca ad armare la resistenza del Donbass contro l'Ucraina), ma a sporcarsi le mani contro i bosgnacchi erano le milizie serbo-bosniache di stanza a Pale prima e a Banja Luka poi, cioè in quella porzione del territorio bosniaco abitato in maggioranza dai serbo-ortodossi. Ufficialmente Belgrado non era in guerra, per cui l'ONU, la NATO e l'Unione Europea erano impossibilitati ad interferire nelle questioni interne della Bosnia. La disgregazione del blocco sovietico era fresca, e impelagarsi di nuovo nella melma dell'autodeterminazione dei popoli significava ficcare il naso nella tana dell'orso russo. Col quale tra l'altro la Serbia aveva sempre avuto un rapporto speciale.


L'unica carta buona nel mazzo occidentale era quella economica. Bisognava toccare Belgrado nel portafoglio, mettere la Repubblica Serba sotto embargo, escludendola dai traffici commerciali e dai trattati di libera circolazione, cercando così di prosciugare i rifornimenti e di fiaccare il popolo fino a minare le basi del consenso di cui godevano i guerrafondai che lo guidavano. 
In attesa che scarseggiassero le munizioni, però, la guerra in Bosnia andava avanti. E nell'immediato le conseguenze di quell'embargo ci riguardavano piu' da vicino di quanto credessimo. L'Inter Rail non prevedeva la copertura della rete ferroviaria dell'ex Jugoslavia, il dinaro jugoslavo non era né quotato né scambiato sui mercati internazionali e noi cinque stavamo andando dritti contro una montagna di merda
Restare su quel treno significava sì liberarsi del problema di raggiungere Istanbul, ma anche crearsi una mezza dozzina di altri problemi. Tipo come raggiungere Istanbul senza infrangere leggi di un Paese col grilletto facile e nel quale vigeva una sorta di legge marziale.


Un Paese nel quale, prima ancora di entrare, il nostro scompartimento era stato preso d'assalto da tre famiglie, che senza essere state invitate avevano incastrato le loro bustone di tela sotto i sedili e sopra le cappelliere. Contrabbandavano in Serbia prodotti ungheresi che non avevano intenzione di denunciare, e sapevano che nel nostro scompartimento i controlli dei bagagli sarebbero stati più blandi. 
"Biglietti, prego". Appena il treno, ripartito da Subotica, si era lanciato nella campagna della Vojvodina, un controllore bussò alla nostra porta. La zazzera grigia, il volto ampio e bonario, gli occhi giovani, invitavano a stabilire un dialogo. 
Noi cinque, ultimi e unici stranieri a bordo, gli passammo i nostri Inter-Rail, sperando che potesse bastare darsi di gomito citando Boban e Savicevic per uscirne indenni. 
Lui li prese e sparì, per poi tornare una seconda volta, buttando nella mischia un altro Boban alternato ad un altro Savicevic in mezzo a qualche frase smozzicata di inglese. 
Quando si affacciò per la terza volta, accompagnato da un collega, il controllore bonario aveva cambiato espressione. 
"Ticket no good" disse. 
Fu lì che capimmo che Boban e Savicevic non ci avrebbero salvati dalla montagna di merda. 

 

"You must pay" furono le parole che i due controllori misero insieme a fatica. 
Ci guardammo. 
"Quant'è?" biascicammo, sperando che trapelasse la nostra voglia di mediare. 
I due ci lasciarono da soli, per poi tornare con i rinforzi, sedersi nel nostro scompartimento con carta, penna e calamaio e cominciare a fare i conti. 
Durò tanto. 
Alla fine, uno dei tre esclamò "810 dinari". Che era un po' come dire "Mille patacones". 
Il dinaro non aveva nessuno codice ISO, non era reperibile in nessuna banca estera ed era valido solo entro i confini serbi. Ma anche lì l'iperinflazione lo aveva reso carta straccia: quel che il primo gennaio del '93 valeva 1 dinaro, il primo gennaio del '94 costava un miliardo di dinari. 
Qualsiasi valuta estera, in confronto, era oro.
"Il dinaro vale come il marco tedesco - sibilò un controllore, togliendoci ogni dubbio circa le sue intenzioni - quindi sono 810 marchi". 

Non avevamo neanche marchi tedeschi, ma sapevamo che ci sarebbero serviti quasi 600 dollari americani. Che diviso 5 faceva una botta fuori dalla nostra portata. 
Per sovvenzionare quel viaggio avevo raschiato il fondo del mio salvadanaio, sborsato 300 mila lire per il rail pass e attinto a tutto quello che avevo per girare un mese con un budget giornaliero di una trentina di dollari e senza scialuppe di salvataggio - carte, travel cheques o altro. 
I pochi dollari che mi restavano in tasca mi servivano per sopravvivere tre notti ad Istanbul e ad altre 3 di viaggio per raggiungere la Sicilia, dove mi avrebbero raccattato i miei. 
Alla cifra richiesta arrivavo a malapena. Idem gli altri. Svuotando le tasche di tutti e cinque arrivavamo a stento a pagare quella somma. 
La frustrazione per il raggiro e la sensazione di impotenza per la situazione erano in parte mitigate, in parte esacerbate, dalla rabbia per il sopruso. Oltre al pensiero di quel che avremmo potuto fare nell'ultima settimana di viaggio senza un soldo in tasca.

Chiedemmo tempo per fare i conti e per recuperare il denaro, ma anche per capire quali fossero le alternative. Speravamo che i controllori si mettessero una mano sul cuore, rendendosi conto che stavano cercando di approfittarsi di cinque adolescenti. E che si mettessero l'anima in pace perché noi quei soldi non ce li avevamo davvero. Il tempo, speravamo, giocava a nostro vantaggio. 
Nei fatti, invece, più passavano i minuti più diventavamo vulnerabili. Più il treno si infilava nella notte dei Balcani più l'atmosfera a bordo si faceva densa. 
Da densa a cupa e da cupa a drammatica fu un attimo. 
Bastò che uno dei controllori perdesse la pazienza e facesse fermare il treno nella pianura a nord di Novi Sad. "O pagate, o scendete" ci intimò.

Dal momento in cui i controllori ci avevano lasciati soli, infatti, il nostro scompartimento era diventato un suq. Mentre noi scandagliavamo gli zaini alla ricerca di spicci e il cervello a caccia di idee, gli altri passeggeri avevano annusato il problema e subodorato l'affare. Con la scusa di venire a controllare le buste di tela nascoste sotto le nostre chiappe, alcuni ragazzi serbi erano stati messi al corrente della situazione. E sapendo che 800 dinari non valevano né 800 marchi né 80 marchi, avevano preso a volteggiare su di noi come stormi di uccelli neri. 
Noi avevamo qualcosa che faceva loro gola, e loro avevano qualcosa che a noi poteva servire parecchio. I dinari. 
I controllori forse non avevano capito che per noi lo sconto non era uno sfizio ma una necessità, ma certamente avevano intuito che l'affare poteva sfuggir loro di mano. Il poliziotto cattivo, pertanto, s'era preso la briga di fermare la corsa del treno, intimandoci il pagamento immediato. Poi, non contento, ci aveva obbligato a seguirlo in un'altra carrozza. Lontano dai potenziali avvoltoi.

"In qualche modo dobbiamo pagare" ci dicemmo. 
Avevamo trasferito armi e bagagli in un'altra carrozza e avevamo racimolato tutto il malloppo a nostra disposizione. Mentre aspettavamo che si presentassero per riscuotere, Nesco - che aveva i soldi in custodia - si rese conto che nel primo scompartimento aveva lasciato un libro. Per cui, in attesa del redde rationem coi controllori, si incamminò sui suoi passi. Rientrato nella cabina e ripreso possesso del suo Stephen King, finì però in pasto agli avvoltoi. 
Due ragazzi serbi lo trascinarono in bagno, dove - con le buone ma non troppo - lo convinsero a cambiare i soldi alla metà del tasso proposto dai controllori. 
810 dinari al prezzo di 400 marchi, ovvero 280 dollari. 
In nero, of course
E se dei ragazzi serbi erano pronti a sfruttare un'occasione capitata loro per puro caso ed erano disposti a correre il rischio per un tasso di cambio del genere, significava che l'affare che i controllori si erano apparecchiati era molto, ma molto, ma molto, favorevole. 


"Datemi i soldi" disse quello cattivo, quando finalmente venne da noi a riscuotere, senza ulteriori indugi, accompagnato dagli altri due controllori. Con lo sguardo duro e dritto su di noi, l'uomo allungò e allargò la mano, aspettando di vedersela riempita di biglietti verdi. 
Quando abbassò gli occhi, invece, vide 810 dinari. 
"E questi?" chiese. 
Cincischiammo qualcosa. 
"Sono i dinari che ci avete chiesto" dissi "810". 

Delle decine di migliaia di conversazioni di una vita, la maggior parte sparisce, inghiottita dal Nulla. Di altre si conservano memorie fumose. Di altre ancora ricordi sufficientemente nitidi. 
Ma raramente si ricorda davvero tutto - espressione, tono e ogni singola parola utilizzata. 
Di quel momento invece ho scolpita ogni vibrazione. Perché ormai attorno al treno era buio. Perché le parole usate furono solo tre. Perché presero la rincorsa. Perché furono pronunciate in linguamadre, ma non richiesero la traduzione. 
Guardandoci con il fuoco nelle vene degli occhi, il controllore le scandì una ad una.
"полиција, милиција, београд"

Politsia. Militsia. Beograd

'Non siamo stati abbastanza bravi a farvi cacare sotto? Vediamo se  ci riescono degli energumeni in tenuta mimetica, armati fino ai denti, che pasteggiano a spiedini di bosniaci. Vediamo se fate i paraculetti anche con con loro. Vediamo se oltre a farvi pagare il passaggio sul treno alle nostre condizioni non ci prendiamo anche la soddisfazione di spillarvi il supplemento per il raggiro, per aver osato cambiare denaro in nero a casa nostra e sotto il nostro naso. Mocciosi del cazzo'. 
Alle nostre orecchie, quelle tre parole suonarono cosi'. E la reazione fu inconsulta. 
Neni si scagliò contro Nesco, Mefi invocò la luna - mugugnando che Leopardi aveva ragione quando accusava quella vecchia bagascia di restare imperturbabile di fronte alle miserie umane - Millo disse che in lontananza vedeva le deflagrazioni, le esplosioni, i segni della guerra. E pianse. Io no. 
Me la facevo sotto, ma mi appoggiai a quel momento. Così come avevo fatto a Praga alla ricerca di un veterinario, così come da lì in poi avrei fatto leva sugli imprevisti per trarne linfa. Ci guardai da fuori, dall'alto, e vidi un libro game, un action movie, una partita a scacchi. Con la differenza che a scacchi non ho mai imparato a giocare.

Politsia. Militsia. Beograd

Quelle tre parole hanno cambiato un sacco di destini, non solo il mio. Ognuno dei componenti del gruppo reagi' in maniera diversa: c'e' chi chiuse lo zaino solo pe viaggi soft, chi si converti' alle gite fuori porta, chi si consacrò a forme di volontariato organizzato e chi divenne olimpionico di vestaglie felpate. Su di me, quell'Inter Rail ebbe invece l'effetto della fionda gravitazionale. E tutto maturò su quel treno tra Budapest e Istanbul, mentre cominciavo a prendere coscienza di quella sensazione nuova, nella quale si mescolavano preoccupazione e paura, impotenza e isteria, angoscia e adrenalina. 
Salendo su quel treno avevamo commesso un'imprudenza, per rimediare alla quale avevamo proprio fatto una cazzata, ma avevamo anche l'occasione di entrare nel ventre d'Europa, scontrandoci con le condizioni oggettive e soggettive della Storia.
Come avrebbe detto il nostro professore di filosofia. 

Non che non vedessi le possibili conseguenze, anzi. Ma - almeno finché non ci avessero puntato un fucile alla tempia - quella situazione ci offriva in fondo l'opportunità di respirare lo zeitgeist, lo spirito dei nostri tempi, sedendo in prima fila con vista sul mondo. Era come avere la possibilità di metter piede in Albania mentre la Vlora attraccava a Bari con ventimila persone a bordo. Era un'occasione unica di osservare le dinamiche che si generavano dall'altra parte del racconto, dove la Storia stava avvenendo. Bisognava solo trovare il modo di godersi l'esperienza, magari cogliendone gli aspetti tragicomici senza farsi sopraffare da quelli drammatici. Fino a scoprirsi a proprio agio anche nel pantano.

Politsia. Militsia. Beograd


Il fucile spuntò davvero. 
Sferragliando pigramente sui ponti che tagliavano il Danubio e la Sava, il treno cominciò la discesa agli inferi e si fermò nella vetusta stazione di Belgrado. Erano le 22.30, e dalla partenza da Budapest Keleti, 350km più a nord, erano passate otto ore e mezza. 
Ad attenderci sulla banchina c'erano gli uomini della Militsia serba. 
Prendemmo gli zaini e scendemmo. E mentre scendevamo pensai. 
Cosa sarebbe potuto accadere? 
"La Serbia e l'Italia sono in buoni rapporti" ci avevano detto alla frontiera. Più di Boban - che poi è croato - e Savicevic, c'entravano gli equilibri geopolitici, magari la compravendita di armi. Ma se c'era un briciolo di verità in quelle parole, allora non conveniva a nessuno ammanettarci, torturarci e darci in pasto a qualche tigrotto stile Arkan. Eravamo dei diciannovenni squattrinati e inermi, appena usciti dal liceo classico più antico di Roma. Se ci avessero torto un capello, tempo un grado di separazione e la storia sarebbe finita sulla RAI e poi a Montecitorio con sufficiente fragore e indignazione da rovinarlo, quel rapporto tra Italia e Serbia. 
Ammesso che fosse davvero buono. 

Politsia. Militsia. Beograd

Quella era la prima discriminante. 
La seconda componente che giocava a nostro favore - e che in futuro, quando nei guai ci sarei finito puntualmente da solo, mi sarebbe mancata - è che eravamo cinque. Non ne sapevo nulla di diplomazia, ma avevo l'impressione che l'arresto e l'incriminazione di cinque giovani scavallava oltre il confine della punizione esemplare per una ragazzata e sconfinava nel campo del caso diplomatico
Anche lì, impossibile sapere quanto ne fossero consapevoli i poliziotti, i militari e i controllori. Ne' quanto eventualmente gliene fregasse.


E poi c'era la componente umana. Quel gigantesco schifo che i Balcani stavano vivendo da 3 anni aveva ispessito la pellaccia di quelle persone? Le aveva desensibilizzate? Oppure ne aveva alimentato il rigetto per le ingiustizie? 
L'impunità garantita dalla divisa, l'assuefazione al veleno e la sindrome di accerchiamento li avevano deresponsabilizzati fino a trasformarli in aguzzini anonimi? Volevano sfogare la fame di brutalita' gratuita seviziando un canarino o si accontentavano di giocare al gatto con il topo? 
Non riuscivo a staccare gli occhi dai volti di quegli uomini. 
Cosa gli passava per la testa? 
Avidità, certo. Onore ferito, anche. Ma poi?
C'era rabbia, cattiveria, orgoglio patrio, fedeltà ai principi, voglia di vendetta o cosa? 


Della stazione di Belgrado non vidi altro che l'insegna al neon e quelle facce in divisa. 
Tanto che 13 anni dopo, alla fine del giro del mondo, volli tornarci per ricostruire la scena, della quale avevo osservato i particolari ma non avevo presente la scenografia.
Guardavo gli occhi e le labbra. Mi persi tutto, ma colsi il momento in cui tra i falchi e le colombe furono quest'ultime a prendere il sopravvento. Fu un minuto prima che il treno ripartisse verso sud. 
Non saprò mai cosa si siano detti. 
Probabilmente soppesarono i costi e i benefici di quella situazione e alla fine decisero che c'erano modi migliori per intascare il bottino senza rischiare di sporcarsi le mani e di rovinare ulteriormente l'immagine e i rapporti internazionali della Serbia. 

Il resto della storia è quasi altrettanto lungo. Tornati a bordo ci spedirono nel primo scompartimento, quello dal quale il tutto era partito. 
E per tutta la notte ci interrogarono. 
Tre controllori e due militari armati. Eravamo in dieci, senza contare i fucili, e in dieci passammo la notte a giocare. Loro a raddoppiare la posta, noi a fare gli gnorri. 
"Dove avete preso i dinari? Chi vi ha dato i soldi?". Il loro obiettivo era diventato non solo prendersi i dollari mancanti, ma anche incastrare chi aveva commesso il reato assieme a noi, per poter estorcere anche a loro i dollari e chissà cos'altro.  
"810 dinari ci avete chiesto e 810 ve ne abbiamo dati". 
Stettimo al gioco e non arretrammo. Quando la palla passava nel nostro campo, anzi, approfttai di un inglese che a loro mancava. Scoprii il potere della dialettica e avvertii il sottile piacere della sfida. 


Da Belgrado in poi la strada era in discesa, ma dovevamo comunque andarci con i piedi di piombo. E non solo perché i fucili erano sempre lì, il freno di emergenza era sempre lì, la guerra era sempre lì e i soldi erano sempre quelli lì. Ma anche perché sul corridoio c'era un viavai di uccellacci e uccellini.
Attraverso le tendine chiuse vedevamo sagome su sagome, e ogni tanto qualcuno cercava di ficcare il naso nello scompartimento. Tra gli occhi che spuntavano al di la' del plexiglass, distinguevamo quelli dei ragazzi che avevano chiuso Nesco nel bagno, imponendogli il cambio in nero. 
Gli avvoltoi ci marcavano a uomo. 
Denunciarli non ci avrebbe risolto un problema, al contrario. Ce ne avrebbe procurati una serie di altri. 
Intanto non avrebbe garantito a noi il perdono delle teste di cuoio - che a quel punto avrebbero avuto la confessione servita sul piatto - ma soprattutto l'eventuale spifferata ci avrebbe esposto alle ritorsioni della gang del cambio in nero, mettendoci tra l'incudine e il martello e rendendo la notte su quel treno ancora più frizzante.
 
Tenni botta, scoprendomi capace di gestire ansie, emozioni e parole con una sicumera che sarebbe tornata utile il mese prima, quando alla maturità la commissione esterna mi aveva chiesto l'unico capitolo del Risorgimento che non avevo neanche sfogliato. 

La storiaccia finì poco dopo l'alba. A Dimitrovgrad, sponda jugoslava della frontiera con la Bulgaria, i nostri carcerieri trattennero i passaporti abbastanza a lungo da farci capire che le avrebbero provate tutte per lavare l'onta subita e per spillarci i dollari che avevano pregustato. Solo quando i colleghi bulgari di confine salirono a bordo, i serbi dovettero ammettere che erano stati beffati, che avevano perso la partita contro cinque scolaretti della media borghesia romana. 
Uno di loro - ovviamente Nesco - dentro al passaporto trovò una multa, la cui notifica però non raggiunse mai il suo indirizzo di Monteverde Vecchio. 
Nei mesi successivi, le autorità di Belgrado ebbero oggettivamente altro a cui pensare. 

Affamati e stracotti, arrivammo a Istanbul alle 8 di sera del 6 agosto 1995 e ce ne innamorammo immediatamente. Quello scherzetto ci era costato talmente tanto - in termini economici - che oltre alla torre di Galata, al Topkapi e a qualche döner ci potemmo permettere solo due stanze in un alberghetto nel quale mancava l'acqua corrente. 
Tre giorni dopo, eravamo ancora innamorati di Istanbul, ma eravamo vestiti come all'arrivo in Turchia e puzzavamo come carogne. 
Dopo altri tre giorni ininterrotti di viaggio via Salonicco, Atene, Patrasso e Brindisi, e dopo un'ultima notte da incubo sull'espresso per Villa San Giovanni (il mio biglietto Inter Rail in teoria non era valido per quella tratta, ma io lo sapevo - il controllore italiano, per fortuna mia, no), venni raccattato a mezzogiorno davanti all'imbarco di Caronte dalla Renault Espace dei miei. 
Dopo un mese di silenzio stampa, nelle tre ore di strada fino a Kamarina non feci in tempo a raccontare un decimo di quelle avventure, ma riuscii ad appestare tutta la famiglia.


P.s. Salvate le penne, passai il mese seguente a divorare tutto quello che rastrellai sulla cronaca dei Balcani. Quello che era successo in quel mese, mentre i poliziotti ci dichiaravano in arresto alla stazione di Belgrado, era il massacro di Srebrenica. Quel viaggio non era stato solo il momento in cui avevo scoperto il gusto per l'adrenalina naturale, nel quale i casermoni che puzzavano di blocco sovietico e i doganieri slavi erano diventati il minimo sindacale per sentire di vivere nel mondo senza limitarmi a guardarlo o a passarci attraverso. Quel viaggio aveva segnato il punto in cui il secolo breve aveva intersecato la mia quotidianità. 
Fu più di un battesimo del fuoco, fu l'inizio di una serie di storie d'amore. 
Col viaggio e con la fotografia, con la lettura e con la scrittura, con la storia e con la geografia, con l'ignoto e con l'imprevisto. Con la vita.


L'anno seguente mi immersi talmente tanto nella storia dell'ex Jugoslavia che in Storia Contemporanea rimediai il primo e unico 30 e lode del mio percorso accademico. Non contento, visto che in Slavonia si sparava ancora, nel marzo del '96 mi aggregai ad un gruppo di volontari diretti in Bosnia, dove la guerra non si era ancora del tutto spenta. Quando partii per il giro del mondo, nel 2007, infine, decisi di chiudere il cerchio tornando proprio nella ex Jugoslavia. 
Per rivedere la Croazia e la Bosnia, ma ancor di piu' per rimettere piede in quel luogo mistico, mitico e mostruoso, la stazione centrale dei treni di Belgrado. 


P.p.s. Nel 1995, il marco tedesco era utilizzato come valuta de facto in Serbia. Non era cambiato alla pari, ma valeva tra i 10 e i 13 milioni di dinari jugoslavi. 800 marchi sarebbero potuti essere cambiati a quasi 10miliardi di dinari. 


lunedì 25 maggio 2020

Più bella cosa


Il foglietto era affisso sulla bacheca dell'Università, tra gli appelli d'esame e i numeri di chi cercava di sbolognare alle matricole gli appunti di Teologia I. C'era scritto Wanted for Bosnia, era firmato dai Legionari di Cristo ed e aveva attirato l'attenzione di Marco e Stefano, due tra gli iscritti al corso di giornalismo della Libera Universita' Maria SS Assunta. Eravamo una ventina, finiti li' per le ragioni piu' disparate. La mia era semplice: al test per Scienze della Comunicazione della Sapienza avevo toppato l'eroe dell'indipendenza kenyana. Yomo Kenyatta m'era sembrato un nomignolo da pupazzo immaginario, corpo da lactobacillus e testone da cartone animato giapponese. Una risposta buttata lì per far numero, un maldestro tentativo di trabocchetto. Avevo messo la spunta su un'altra casella ed ero rimasto fregato. Eravamo 15mila, i posti a disposizione erano 300 e io ero arrivato 414mo, ad una crocetta di distanza dall'ammissione alla Sapienza. Maledetti Kenyatta e il voto della maturità. Come se non bastasse, quel giorno Antonio s'era dimenticato di avvisarmi che la partenza per l'Oktoberfest era stata anticipata al mattino seguente. Quando se n'era ricordato, erano ormai le 23, non aveva voluto telefonare a casa per non svegliare i miei e l'indomani era partito, mentre io avevo trascorso ore e ore davanti all'apparecchio SIP, in attesa di una convocazione che non sarebbe mai arrivata. 


Sul futuro universitario avevo rimuginato per giorni, giungendo alle seguenti conclusioni: Lettere era un tappabuchi, Psicologia mi stuzzicava, ma piu' che corrispondenza di amorosi sensi era uno sfizio, Sociologia era la migliore amica di quella che mi piaceva, Giurisprudenza manco morto. Quanto all'Oktoberfest, Antonio m'aveva fatto male, ma lui era così e io ero colà. Ero arrivato illibato alle soglie dei 20 anni perché col cuore non scendevo a compromessi, ma in amicizia ero l'opposto. E a lui le perdonavo tutte. Una volta mi aveva fatto aspettare un'ora e trequarti a San Giovanni senza un motivo preciso. Un paio di cuori solitari mi si erano persino avvicinati per chiedermi se stessi aspettando qualcuno. Sì, Antonio, in teoria. Insomma, dovevo decidere di che morte morire,  sia con lui sia con l'università: nel primo caso la risposta era scontata, nel secondo no. I vicoli che mi si paravano davanti erano tre, ma nessuno assicurava un grado minimo di desiderabilità.  


La quarta opzione era sbucata per caso, quando mi ero lanciato di pancia sul test di ammissione al Corso Universitario in Giornalismo della LUMSA. I posti erano 20, i candidati un centinaio, ma pur essendomi tuffato senza pretese ero finito nono. Volendo, rientravo tra i prescelti. Il punto è che non volevo. Quella era un'altra alternativa annacquata, incapace di sbaragliare la concorrenza, e soprattutto non mi andava di chiedere ai miei di sborsare una retta milionaria per una corso che di accademico aveva solo il nome. Mi arrovellai per settimane e alla fine tirai i dadi. La spunto' l'ultima svolta, quella del costosissimo corso. Mi feci persuadere un po' dalle rassicurazioni e dalle sollecitazioni altrui e tanto dal fatto che avrei potuto sostenere alcuni esami per poi infagottarli e portarli in dote alla Sapienza, rientrando dalla finestra quando qualcuno dei 300 eletti avrebbe mollato il colpo. Oppure quando il corso di Scienze della Comunicazione non sarebbe piu' stato a numero chiuso. La decisione era giunta in extremis, talmente in ritardo che avevo consegnato le carte in segreteria solo nel tardo pomeriggio dell'ultimo giorno disponibile, solo a pochi minuti dalla chiusura dello sportello della Lumsa e solo grazie al motorino di Giancarlo. "Quando diventerai giornalista mi ripagherai", sbuffò a fine giornata. Inconsapevole del fatto che le persone che si erano arricchiti col giornalismo erano ormai una specie in via di estinzione, e che la generazione che si stava affacciando a que mestiere sarebbe finita schiacciata sotto il peso della crisi dell'editoria e delle nuove tecnologie, del cambiamento del mercato e delle abitudini di consumo della gente, del dumping contrattuale e della delegittimazione in corso verso quella figura professionale un tempo venerata e riverita.  


Tra gli ultimi dinosauri del mestiere c'era Angelo Paoluzi, ex direttore del quotidiano Avvenire nonché coordinatore del corso della LUMSA, il quale una sera di ottobre ci accompagno' nella vecchia biblioteca dell'Ateneo, dove tenne a battesimo quel gruppetto eterogeneo di scialacquatori fatto di milanesi e calabresi, abruzzesi, pugliesi e romani, di freelance trentenni alla caccia di un pezzo di carta da esibire e di qualche neodiplomato perso nei meandri dell'esistenza. 
"Questo e' un mestiere duro - ci disse Paoluzi. - Per fare il quale servono studio e applicazione, tempo e fatica, esperienza e passione". 
"E il talento?", chiesi a fine lezione. "Non serve anche il talento?". 
Quella domanda mi valse uno sguardo paternalisticamente benevolente e una carezza virtuale di Paoluzi e le occhiate curiose degli altri diciannove. Tra loro c'erano Luca Fallica e David Rossi, che con i loro 27 anni - per quanto portati bene - mi parevano scesi da un altro pianeta. Il gatto e la volpe mi presero sotto la loro ala protettrice, mi accolsero nel loro gruppo di amici (nel quale - a differenza del mio - tutti avevano un soprannome e una ragazza) e mi trascinarono in serate fatte di fantacalcio, calcetti, picchetti, schedine e cene dar Poeta. Finche', un giorno, mi aprirono anche le porte della Rotopress, lanciandomi la volata verso il lavoro di redazione, verso la radiofonia locale, verso il precariato.  


Oltre a studiare, avevo cominciato a lavoricchiare anche come steward alle fiere, anzi alla Fiera di Roma. Ogni tanto la postazione alla quale venivo assegnato si prestava ad un'infinita' di incontri col pubblico. Fu così che la mia strada aveva incrociato quella della signora Mungo, un'attempata, elegantissima e truccatissima donna dell'alta societa' romana che mi invito' ad un paio di cene di gala nella sua magione ai Parioli, convinta - chissà perché - che quel 19enne che aveva accarezzato il suo barboncino davanti al cancello della Fiera avesse qualcosa da spartire con suo figlio chirurgo e con la sua cerchia di amici, che sfiorava lo Scia' di Persia. Più spesso, però, il lavoro era spaventosamente monotono e le giornate non passavano mai. Un giorno, davanti all'ingresso di via dei Georgofili, vidi parcheggiata una Dacia. Fu un tuffo al cuore. Quel catorcio inguardabile, realizzato con gli stampi reietti in Francia della Renault 12, era diventata l'auto di Stato in Romania. Perche' in Romania, e solo in Romania, si era trovato qualcuno disposto a produrla e qualcuno disposto ad acquistarla. E in Romania, solo in Romania, circolavano solo ed esclusivamente le Dacia. Quell'auto, emblema del brutalismo su quattro ruote, era diventata uno dei simboli dell'inter-rail dell'estate precedente ed era entrata prepotentemente nell'immaginario mio e di chiunque mi capitasse a tiro. Fu piu' forte di me. Mi avvicinai al mezzo, staccai la targhetta di metallo con lo stemma e il modello della vetturra e la nascosi nella taschino della giacca. Nello stesso pomeriggio attaccai bottone con un giovane uomo affabile e dolce, che parlava un buonissimo italiano con un vago accento dell'est. Mentre la conversazione proseguiva e il simpatico interlocutore mi raccontava la sua vita, sentivo crescere in me il timore di aver fatto una cappella sesquipedale. 
Un timore che divenne certezza quando gli chiesi da dove venisse e come fosse arrivato li'. 
"Dalla Romania - rispose -. Sono arrivato qui in auto". 
"Con una Dacia?". 
"Si', con una Dacia. Come fai a saperlo?".


A parte casi isolati come quello della signora Mungo e del carpentiere rumeno, il lavoro di steward consisteva nel pattugliare un vicolo cieco anche per 13 ore di fila. Per la favolosa cifra di 6 mila lire l'ora, al lordo dell'abito di rappresentanza, il cui costo sarebbe stato decurtato dalla prima busta paga. Senza il conforto della tecnologia, era una tortura. Appoggiato ad una transenna, avevo letto la bibliogafia di Pennac e avevo preparato l'esame di Teorie e Tecniche della Comunicazione di Massa. Quando lo venne a sapere, David mi chiese di aiutarlo a passarlo insieme. Se Luca era durato pochissimo, infatti, David aveva deciso di provarci qualche mese in piu'. 
L'apice della sua parabola accademica lo raggiunse preparando quell'esame in una notte. Con me.  
La sua preparazione consistette nell'ascoltarmi ripercorrere per sommi capi il contenuto dei libri per poi ripeterli assieme. Trascorremmo la notte prima dell'esame ricostruendo a modo nostro le analisi di Marshall McLuhan e di Karl Popper, chiusi a chiave nel bar-ristorante all'imbocco di viale Trastevere gestito dalla madre. Poi, senza aver chiuso occhio, andammo in motorino a via della Traspontina, dove scoprimmo che saremmo stati gli ultimi esaminati della sessione. 


Alle 16 tocco' a me: me la cavai dignitosamente, e la professoressa Donatella Pacelli mi diede 28. Scesi in segreteria, presi la tessera del telefono e da una cabina chiamai i miei genitori, che non sentivo da 24 ore. Ero tanto cotto e moderatamente soddisfatto. Quando risalii in aula per recuperare lo zaino, David e la Pacelli mi accolsero con un sorriso. 
"Dimmi la verita'", mi apostrofo' lei, che secondo la leggenda che circolava tra le stanze della Lumsa era imparentata con Papa Pio XII. "Avete studiato insieme?". 
Guardai lei e guardai lui. Impiegando un po' a capire che non rischiavo la noce del capocollo. 
David mi offri' una sponda con quel savoir-faire grazie al quale gli avevo visto scardinare tutte le porte, soprattutto quelle sorvegliate da esponenti dell'altro sesso. 
"La professoressa - disse lui davanti a lei - voleva darmi 27. Ma siccome ha capito che abbiamo studiato insieme, le ho detto 'Professore', ma le pare che a Dario da' 28 e a me 27?'. 
La Pacelli sorrise ancora, riprese in mano il mio statino, lo sfoglio', traccio' una riga sul 28 e vergo' il mio primo 30 universitario. Per il quale dovetti dire grazie a David Rossi da Trastevere. 
Il primo di una serie di grazie durata un decennio.


La sua esperienza alla Lumsa, iniziata rimorchiando la biondissima Carlotta, fini' in gloria con quel 30 rimediato per me. Nel corso, cominciarono a fioccare le defezioni: da 20 scendemmo presto a 18, poi a 16, quindi a 14. Molti neanche frequentavano. Cosi', tra i banchi dell'universita', mi ritrovai a condividere sempre piu' spazio e tempo con Stefano Maria Sandrucci da Roma nord e con Marco Grassi da Maglie. "C'e' il quarto museo paleontologico d'Europa", mi aveva risposto, quando gli avevo chiesto per cosa fosse celebre. In quel rapporto misi tanti - forse troppi - racconti di viaggio. Oltre al fermo di polizia a Belgrado, la scuderia di storielle comprendeva una gita di famiglia in Marocco via terra e il capodanno '94 in Scandinavia, dove ero andato attirato dalle amicizie fatte durante campo CISV di Dallas. In particolare con Marcus Hakanson da Goteborg.


Marcus aveva organizzato un weekend lungo in montagna. Non contento di quelle svedesi, aveva scelto come destinazione Hemsedal, la seconda localita' sciistica norvegese dopo quella Lillehammer che aveva da poco ospitato i Giochi Olimpici. Solo un po' piu' lontana. Tra Hemsedal e Goteborg ci sono 500km, una distanza che durante la bella stagionesi percorre in 4 ore e mezza. D'inverno no, di notte no e con uno strato di ghiaccio sul manto stradale neanche. Arrivammo a destinazione alle 3 antimeridiane, scoprendo che l'efficienza scandinava era solo una leggenda metropolitana. L'omone che ci aveva affittato il bungalow nel quale avremmo trascorso quei giorni non aveva lasciato le chiavi sotto lo zerbino come prannunciato. Non sapendo come contattarlo, visto che a fine '94 i cellulari erano un gadget per i broker di Wall Street, mentre fuori imperversava la bufera. ci rintanammo nella Saab. 


Nell'abitacolo eravamo cinque: oltre a Marcus c'erano suo fratello Fredrik e gli altri due svedesi del campo, Frida e Phil. Piu' io. Il termometro accanto alla porta della casetta indicava 30 gradi sotto zero e la temperatura scese presto anche dentro l'abitacolo della macchina, nonostante su quei sedili ci fosse il tutto esaurito. Accendere il motore e il riscaldamento non era un'ipotesi, soprattutto perche' l'alba sarebbe arrivata chissa' quando, la colonnina di mercurio sarebbe rimasta ben al di sotto dello zero e il tizio chissa' quando si sarebbe svegliato. Nonostante il sonno e la fatica ci mettemmo alla ricerca di una struttura aperta, dove avremmo potuto garantirci un ambiente piu' temperato. Trovammo un albergo che non aveva niente da invidiare a quello di Shining. Ci rimanemmo il tempo di ascoltare un po' di volte Zombie dei Cranberries che passava in loop sulla TV accesa nella hall, finche' Fredrik non riusci' a buttare giu' dal letto l'uomo del bungalow e a farci aprire la porta. Il termometro era ancora fisso sui trenta sottozero.  Dormimmo un paio d'ore, poi ci lanciammo sulle piste. 


Ad Hemseldal faceva un freddo indicibile. Il vento sferzava il volto con arroganza e - nonostante i guanti - mi sembrava di tenere le mani a mollo nel ghiaccio. A mezzogiorno, il display digitale a valle indicava -18 gradi. Solo che non sembrava affatto mezzogiorno. Le maggior parte dei 44km di piste, sulle quali Ingemar Stenmark aveva pure vinto una gara di Coppa del Mondo, guardavano verso nord e verso ovest. Il sole norvegese di dicembre, oltre il sessantesimo parallelo nord, sbucava appena sopra la linea dell'orizzonte, da dove riusciva a illuminare a stento un lato della montagna, quello sud-orientale. In pratica si sciava nella penombra e indossare gli occhiali da sci in quelle condizioni significava brancolare nel buio. Dovevo farne a meno. Tanto il freddo sul volto era l'ultimo dei miei problemi. Lo divenne nel momento in cui ebbi la sventura di passare sotto un cannone che sparava neve artificiale. 


A quelle temperature - mi spiegarono - non nevicava perche' non poteva nevicare. Perche' faceva troppo freddo. Sulle piste c'era pertanto bisogno di quella artificiale. Quando passai sotto il cannone lo feci a tutta velocita', a tutta la mia velocita', per cui chiusi gli occhi per una frazione di secondo, tra i 200 e i 250 millisecondi. Trecentomillisecondi dopo, superato il getto di neve artificiale, non riuscii ad aprire l'occhio destro. A quella velocita', su quella pendenza, su quella superficie appena illuminata da una luce bluastra, l'occhio sinistro mi offri' una prospettiva schiacciata. Persi il controllo e caddi di faccia sul ghiaccio. Mentre dal labbro spaccato uscivano ettolitri di sangue, tolsi il guanto destro, e con la mano al limite dell'assiderazione cercai di capire perche' l'occhio destro non si fosse riaperto. Quei 300 millisecondi nei quali avevo chiuso le palpebre, erano stati sufficienti per solidificare qualche cristallo di neve artificiale, che aveva stretto come in una tenaglia le ciglia superiori con quelle inferiori. Ci misi un po' a sciogliere quella microsfera di ghiaccio con le dita e a riaprire l'occhio destro. Da allora non ho mai piu' indossato gli scarponi da sci. E il labbro non hai mai ripreso del tutto la forma originaria. 


C'erano poi gli aneddoti freschi dell'inter-rail, quello iniziato con una dichiarazione falsa al Ministero della Difesa e proseguito con la notte della Policija, della Militsia e di Beograd. Tra i tanti racconti, spiccava la storiella della coreana. A Praga avevo vissuto un paio di giorni kafkiani: una sera, mentre scimmiottavamo una coreografia simil Take That su un marciapiede vuoto, dal nulla era sbucato un cagnolone isterico che mi aveva piantato denti e unghie appena sopra il ginocchio. Niente di che, ma quella sera eravamo stati invitati a cena da un'amica di famiglia di Manu che lavorava all'ambasciata italiana. La signora, visti quei graffietti, era andata nel panico, aveva chiamato una sua collega, su un blocchetto aveva appuntato un indirizzo e poi mi aveva intimato di correre a fare un'antitetanica, sostenendo che i canidi praghesi come minimo avessero la rabbia. Non ne capii il nesso. 


Visto che a Vienna avevamo avuto giusto gli scellini per confezionarci panini freddi con gli insaccati di Billa e che dalla signora avevamo risparmiato i soldi della cena, quella notte decisi che era il caso di uscire e magari di andare pure a ballare. Gli altri avevano preferito rintanarsi sotto le coperte, cosi' mi ero dimenato per ore da solo sulla pista di un enorme locale semideserto che si affacciava su piazza Venceslao. Una splendida ragazza dai capelli rossi aveva attirato la mia attenzione, anche perche' la sala era vuota, e mi aveva invitato a raggiungerla all'esterno del locale. Era molto attraente, ma visto che non masticava lingue straniere, il tentativo di dialogo era finito prima ancora di cominciare. La scena non era sfuggita a due asiatici, che mi avevano offerto un drink per chiedermi di presentargliela. Cosa che non feci. Quando rientrai in ostello, avevo accumulato tanti di quei punti esperienza che presi penna, diario, walkman e cassetta di Phil Collins e trascorsi il resto della notte a scrivere appunti con ...But Seriously nelle orecchie.


 Quando gli altri si svegliarono ero ancora nell'anticamera con il diario in mano. Pensarono che non fossi uscito e che mi fossi inventato tutti. Al mattino ci separammo nuovamente: Millo, Manu e Neni andarono in avanscoperta verso la collina, io salii su un tram diretto verso i quartieri orientali, scesi lungo il viale Francouzka e con la mappa in mano mi misi alla ricerca dell'indirizzo del veterinario vergato dalla dipendente dell'ambasciata italiana. Recitava Kozacka 45, dove pero' non c'era nulla che somigliasse ad una clinica. Un signore mi spiego' che cercavo un veterinarnimu e suggeri' che forse l'indirizzo era stato scritto male. "Controlla Kosicka", mi disse. Anche li' non c'era nulla che facesse al caso mio. Per appurarlo spulciai il citofono, sul quale non sembrava esserci indicato nessun ambulatorio. Tornai su Kozacka e ripetei la procedura: niente. Un'anziana affacciata mi suggeri' di provare Na Kraiovce, dove effettivamente al numero 45 corrispondeva un portone aperto. Superandolo, si accedeva ad un androne, sul quale si affacciava una porta socchiusa. La spinsi ed entrai: dava l'impressione di essere uno studio medico e per un attimo pensai di aver terminato la caccia al tesoro. Mi sbagliai. Nella sala d'attesa non c'era nessuno. Nella sala operatoria neanche. Ero entrato dalla strada fino al sancta sanctorum di quell'ambulatorio. che a giudicare dalle strumentazioni datate poteva essere appartenuto a un dentista, ma che chiaramente non era quello di cui avevo bisogno. Provai anche Na Kozacce, con risultati analoghi.  


Ormai era diventata una sfida personale: non credevo che il cane mi avesse inferto ferite letali, non credevo che il suggerimento della signora dell'ambasciata fosse razionale e illuminato, soprattutto non credevo che un'antitetanica fatta a Praga 2 mi avrebbe salvato la vita, qualora fosse stata in pericolo, ma a quel punto era diventata una questione di principio. Tagliai la testa al toro, chiesi agli abitanti del quartiere dove fosse un veterirarnimu e mi ritrovai in un ospedale sull'altra sponda della Moldava, dove un medico mi inietto' in corpo un liquido verdastro. Cosi' denso che fatico' ad entrarmi nelle vene. 
Al tramonto scesi a valle appena in temo per l'incontro con i due ritardatari del gruppo: Antonio era stato trattenuto a Roma da beghe sentimentali, Mefi aveva cercato ogni pretesto possibile per non partire, ma alla fine era stato prelevato di peso e aveva ceduto. Avevamo fissato un appuntamento sul lato ovest di ponte Carlo e li' ci trovammo: Neni, Millo e Manu' reduci da una giornata di turismo, Antonio e Mefi reduci da 16 ore di treno e io reduce da una notte in discoteca seguita dalla ricerca di un veterinarnimu. Recuperammo gli zaini e continuammo a vagare per la splendida Stare Mesto; alle 2 di notte ci aspettava il treno espresso per Berlino, sul quale non vedevo l'ora di stramazzare. 


Nella stazione di Holesovice non c'era nessuno, sul convoglio idem. Quando salimmo a bordo, decidemmo percio' di dividerci in coppie, per poter occupare tre scompartimenti e stenderci sui sedili. Millo, Manu, Neni e Antonio si sistemarono subito, Mefi ed io scavallammo oltre il vagone successivo. 
A bloccarci la via, in mezzo al corridoio, la sagoma di una ragazza asiatica. Impalata. 
In spalla portavo uno zainone di tela leggera simil mimetica agganciato ad un esoscheletro di ferro, una delle tante sole rimediate a via Sannio. Se mi fossi diretto verso di lei, ci saremmo incastrati nel corridoio. Le feci cenno di camminare verso di noi, o di cercare riparo in qualche scompartimento. Niente. Lei rimase li', immobile sul corridoio, e continuo' a fissarci. Guardai la maglietta che effettivamente portava i segni della giornata, poi mi voltai verso Mefi. Ne sapeva meno di me. 


Lei fece due passi e finalmente apri' bocca. 
"Sono sola e ho paura - disse in inglese -. Vi dispiace condividere lo scompartimento con me?". Tradussi per Mefi, che fece spallucce. 
Era una disgrazia. Non dormivo da 48 ore e avevo assaporato la possibilità di staccare la spina, ma su quei sedili statici era impossibile stendersi. Per di piu', ovviamente, la ragazza aveva intenzione di fare conversazione. Legittimo e comprensibile nella misura in cui sarebbe stato sorprendente il contrario, cioè che invitasse due estranei a condividere lo scompartimento adducendo la paura dell'uomo nero e poi se ne fosse stata in silenzio. Mefi, però, non aveva nessunissima intenzione di assecondare lei e il suo bisogno di rompere il ghiaccio, mentre a me calava tremendamente la palpebra. Lui e lei si sistemarono sullo stesso sedile, lui verso la porta, lei verso la finestra. Io mi accomodai sul sedile opposto, in posizione centrale. Ressi per un po', dopodiché con le buone le feci capire che dopo due giornate particolarmente dispendiose avevo le pile scariche. Erano passate le 3 di notte e Mefi ci aveva mollato da un pezzo, addormentandosi con la testa appoggiata al vetro. Allungai le gambe sul sedile di fronte, tirai fuori il sacco a pelo, lo stesi a mo' di copertina e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, mi resi conto che la ragazza aveva intenzione di invadere il mio spazio fisico con un carrarmatino. 
Per la precisione, con la mano destra.    
Il fatto che io non avessi mai avuto una ragazza, che non fossi andato oltre qualche bacio e che non mi fossi neanche mai messo nella condizione di avere un rapporto completo, non faceva di me ne' un soggetto asessuato ne' uno disinteressato alla materia. 
Ne' tantomeno uno insensibile.
Anzi.


A forza di pane, principii saldi e cartoni animati giapponesi buonisti ero diventato un giovanotto tetragono negli ideali nobili, nelle ambizioni elevate e nei sogni irraggiungibili. Un povero illuso. 
Non aveva aiutato neanche il frequentare un liceo elitario, nel quale entravi nel radar di quelle in cima alla piramide estetica solo se avevi due anni di piu', se giravi con Burberry e Ralph Lauren, se ti eri fatto crescere le basette e se guidavi l'SH 50. 
Meglio ancora se tuo zio aveva vinto la palma d'oro a Cannes. 
Al Visconti, anche le tizie da Coppa Uefa erano inavvicinabili per un comune mortale.
Sfruttando uno scambio a Chattanooga e il dollaro a 1100 lire, a 15 anni mia sorella mi aveva convinto a comprare tre Polo e un paio di mocassini da barca della Timberland. 
Io che l'unica barca che frequentavo era il traghetto per Messina. 
Ma la metamorfosi non era avvenuta, anche perché avevo sviluppato precocemente un'idiosincrasia per quelle dinamiche. 
Nei cinque anni di superiori, l'unica volta in cui la mia appendice si era letteralmente infiammata per una compagna di classe recentemente immigrata da un altro liceo romano, mi ero sentito dire: "Lo so che con te sarei piu' felice, ma...". 
Quel ma significava che lei aveva scelto di stare con la maggioranza burberizzata, di saltellare tra un ragazzo col bavero alzato a uno con le basette, mentre io appartenevo ad un'altra genia, non ero il fenotipo giusto. 
Neanche la fascia di capitano della squadra di pallavolo della scuola per tre anni mi aveva fatto scalare posizioni nella catena alimentare. 


Non era un caso che il mio primo bacio fosse stato in un mulino del Brabante, il secondo a Kamarina, il terzo in una masseria della Navarra.
Il quarto sarebbe potuto essere a Parigi.
In quinto ginnasio, la professoressa di francese aveva organizzato uno scambio con il prestigioso Henri IV di Parigi. L'insegnante abitava un palazzo medievale costruito dove nel secondo secolo avanti Cristo sorgeva il tempio di Giunone Regina, ma il pezzo forte del suo portafoglio immobiliare era un mega appartamento senese a tre cifre di metri quadrati al piano nobile - diceva cosi' - su Piazza del Campo. Volammo con Air France, ca va sans dire, e ci ritrovammo in un edificio di epoca carolingia che sembrava il cugino transalpino di quello che frequentavamo a piazza del Collegio Romano. Prima di accoppiarci e di sparire a casa dello studente chi ci avrebbe ospitato, trascorremmo qualche minuto con i ragazzi francesi che all'Henri IV studiavano italiano, dopodiché Cecilia sparse la voce: la sua francese, Julie, aveva detto che le piacevo. Julie non solo era bella, ma in quel liceo di bravi figli di papà spiccava per carisma, sembrava più matura dei suoi 17 anni. Il perché avesse eletto me, restava un mistero. Tra la classe si diffuse l'hashtag fussechefusse, ma dal momento in cui mi assegnarono al mio francese, Julie non la vidi più. 

La famiglia Lespinas

Aurélien Lespinas abitava in una viuzza dietro Rue du Mouffetard, nel cuore del quartiere latino, a tre minuti dal Pantheon e a 500 passi dalla scuola. Solo che da casa sua non si usciva col buio. Sarà che io ero il secondogenito, che grazie a Kamarina e al Cisv avevo abituato i miei a sparire dal loro campo visivo e a ricomparire solo dopo giorni di silenzio, ma io avevo goduto di una certa libertà sin da quando mi era spuntato il primo pelo sotto l'ascella, e non ne avevo mai abusato. Aurélien, al contrario, viveva sotto una campana di vetro assieme alla sorellina, Capucine. E io con loro.
      
   
L'unica serata fuori dalle quattro mura la passammo su una pista di atletica, dove corricchiai scoglionato mentre Aurélien si allenava serissimamente nella sua specialità, la perche, il salto con l'asta. Aurélien era un altro che a forza di risparmiare sulle eiaculazioni aveva il silos pieno di energie. Le altre sere le passammo a casa, con papà che al termine di ogni cena mi sottoponeva ad un'interrogazione sui formaggi francesi. Sistemati nove tipi diversi su un tagliere, mi invitava prima a ripetere i nomi, poi a riconoscerli. Sul Bleu d'Auvergne e sul Roquefort c'erano pochi dubbi, Brie e Camembert ci misi un po' più a distinguerli. Alla terza serata avevo imparato anche Comté e Reblochon. Il Trou di Crou lo azzeccai per esclusione, il Pont l'Évêque non lo presi mai. Più passavano i giorni, più cercavo solidarietà umana. Sempre più disteso, monsieur Lespinas si apriva in un sorriso orgoglioso: quel suo giovane ospite italiano era ricettivo e collaborativo. Io schiumavo, ma spremevo le sinapsi nella speranza che, ammorbidendosi, avrebbe approvato un'uscita serale. Julie era là a 300 metri, che diamine. Invece niente. Col padre di Aurélien la ricerca dell' empatia non funzionò. Alla fine imparai un sacco di formaggi ma il bacio se lo beccò Michele.

Millo, Antonio, io, Ilario, Ciccio e Eugenio nel cortile dell'Henri IV

Nella vita di tutti i giorni mi ero autocondannato a infatuarmi per le creature più angelicate, meglio se assolutamente inarrivabili, a vibrare per sentimenti romantici, a patto che fossero senza speranza. Ad avvertire farfalle nello stomaco, a condizione che me lo divorassero.   
Se quello era il mio stratagemma adolescenziale per giocare col cuore e per esplorare i contorni dell'io, se non altro mi rifiutavo di giocare col cuore altrui. 
Se non provavo nulla, non stuzzicavo, non gettavo ami, non tastavo il terreno. Non mi avvicinavo neanche. Piuttosto, mi crogiolavo nella mia singletudine marmorea.
Mia madre, che nei giorni di luna piena mi chiamava don Dario, in quelli di luna storta mi dava dello zitello. Antonio mi aveva regalato una spilletta che diceva 'Not for sale'. 
Con la saracinesca perennemente abbassata, si sarebbe potuto porre il problema dello smaltimento del testosterone, ma in realtà quella libido compressa sfociava, semplicemente, in altri mari. 
In tutto quello che facevo concentravo una carica emotiva, un entusiasmo e un'energia che non passavano inosservati. E poi praticavo tanto, tantissimo, sport. 


"Si vede che non ti fai le seghe", mi aveva detto Millo nel mezzo di una partitella di calcetto, commentando la mia ennesima cavalcata su e giù per il campo.
Era vero. Ma l'imprinting religioso non c'entrava nulla. Casomai ero un no fap ante litteram.
Il che non impedì però alla coreana di pensarci in nome e per conto mio. 
Il mio trascuratissimo Feliciotto non aspettava altro.
Si era destato nel momento in cui la ragazza si era accomodata accanto a me, si era allertato quando lei aveva cominciato a sussurrarmi nell'orecchio, si era irrigidito quando lei aveva sfiorato la mia neonata treccina e quando il suo respiro caldo si era incuneato tra i miei capelli. 
Quando avevo chiuso gli occhi, i pantaloni non mi stavano piu'.  
Quell'improvvisa invasione dello spazio fisico fece esplodere di gioia Feliciotto.
"Porca Eva", mugugnai tra me e me. 
  Non sapevo cosa fare.  
Aprire gli occhi mi obbligava a prendere posizione. Delle due l'una: o avrei dovuto bacchettare la coreana oppure chiederle il bis, stavolta da co-protagonista della scena da soft porn. 
Di prendere in mano la vicenda, non solo metaforicamente. 
Preferii far finta di nulla. Quella situazione era imbarazzante ma era pure dannatamente sensuale. 
Non era quello che volevo, sicuramente non con chi lo volevo, ma forse era quello di cui non sapevo di avere bisogno.   
Di fronte al mio immobilismo, la coreana abbandonò la lotta, poggiò la tempia destra sulla mia spalla sinistra e poco dopo il suo respiro regolare mi avvertì che si era addormentata.
Scivolai gradualmente verso il basso, finché il suo collo si bloccò e lei rimase in equilibrio sul suo asse. Mi arrampicai sul sedile, rovistai nello zaino, ne estrassi delle mutande pulite e sgattaiolai nel bagno, dove mi spogliai e mi passai il sapone a meridione dell'ombelico.
Qualcuno bussò.
"Passaporto e biglietto, prego!"
"Un attimo!"
"Passaporto e biglietto!!"
"Un attimooo!"
"Apra!"
"Arrivo..."
Il controllore non mi diede il tempo di concludere l'operazione. 
Quando aprì la porta del bagno dell'espresso notturno Praga-Berlino, l'uomo vide un giovane con i capelli lunghi, i pantaloni calati e un paio di boxer in mano.
"Cosa succede?"
  "Posso spiegare"
In realta', da uomo di mondo qual era, c'era arrivato da solo. 
Il singolare odore che emanavo, poi, doveva aiutare a chiudere il cerchio. 
 Gli mostrai i documenti di viaggio, dopodiché lo precedetti nello scompartimento, mollai il boxer feliciottato e uscii di nuovo sul corridoio. Mentre lui entrava, io mi accovacciai.
Fossi rimasto dentro, si sarebbe riproposta la questione del bivio; o avrei presto la coreana di petto o avrei dovuto fischiare l'inizio del secondo tempo, dei supplementari e dei rigori. 
Peccato che io volevo solo, disperatamente, dormire.
Il controllore mi guardo' con la coda dell'occhio.
Mefi e la ragazza si destarono dal torpore e si interrogarono su dove fossi finito. Prima che uscissero a cercarmi, pero', mi ero gia' incamminato verso il vagone successivo, avevo recuperato un pannello di plastica rigida con i dettagli del treno, avevo trovato uno scompartimento vuoto e mi ero disteso, mentre il treno rallentava entrando a Dresda. 
Alle prime luci del giorno, arrivammo a Berlino.
La ragazza mi aspetto' al centro della banchina e non potei fare a meno di incrociarla.  
Con lo sguardo basso mi chiese scusa. Tanto mi basto'.
Era carina, ma il punto non era quello. Non era mai stato quello.
 Quando ci infilammo in un ufficio postale per chiamare gli ostelli della citta' alla ricerca di sei posti letto, collassai. La porta a scatto dell'edificio produceva una mitragliata insopportabile che nella mia testa echeggiava come un martello pneumatico. 
Non so se dipendeva dal drink offerto dagli asiatici, dallo stress da caccia al veterinarnimu, dal liquido verde che mi avevano iniettato, dal tete a tete con la coreana o dalle due ore di sonno nelle ultime due notti, ma crollai.   
 

Insomma, per i compagni d'universita' ero un piccolo Manuel Fantoni. Percio' quel cartello "Wanted for Bosnia" li aveva invitati a mettermi alla prova. "Andiamo! Certo che andiamo!", avevo risposto io. Ignaro del fatto che la loro non fosse una proposta, ma una provocazione. Il volontariato era un'inclinazione naturale, il viaggio un pensiero stupendo, quella guerra alle porte dell'Italia un chiodo fisso. Ruttai un si' ricco di entusiasmo che li spiazzo', facendo sorgere loro il dubbio che quell'idea non fosse del tutto balzana. 
Marco appoggio' l'ipotesi, Stefano anche, ma solo dopo aver ricevuto rassicurazioni dal padre, che aveva attivato i suoi canali tra le forze armate per capire cosa potesse rischiare il figlio in una zona di guerra. Un mese dopo, salimmo a bordo di un furgoncino diretto verso la Slavonia orientale, in quella regione della Bosnia incuneata tra Croazia e Serbia nella quale le armi avevano fatto fatica a tacere e e dove sporadicamente si sparava ancora. Nonostante gli accordi di Dayton e il dispiegamento di 80mila caschi blu. 


Il gruppo era capeggiato da due volontari che avevano portato viveri e beni di prima necessita' alle popolazioni bosniache assediate anche durante il periodo piu' rovente del conflitto, quando guidare un camioncino nei Balcani significava andare incontro a grosse peripezie. 'Per evitare di essere individuati dai cecchini, una volta dovemmo procedere di notte su una strada di montagna. Io avanzavo a piedi sfruttando il bagliore della luna. Dietro la schiena tenevo accesa una sigaretta e lui mi seguiva col camioncino a fari spenti e avendo come unico riferimento la fiammella del mozzicone. Passammo cosi' tutta la notte, superando un paio di passi, e all'indomani arrivammo sani e salvi a Sarajevo", mi racconto' uno dei due. Il nostro viaggio fu molto meno memorabile, a parte per quei due o tre ragazzi che non avevano mai visto la neve e che dopo Zagabria si videro circondati da un paesaggio immacolato.
 

Dei 1200km percorsi in giornata, solo gli ultimi 20 furono complicati. Superata Županja, infatti, comincio' una pista sterrata che l'inverno aveva trasformato in una striscia di fango, lungo la quale erano incolonnati decine di camion. In parte per via dei controlli doganali, ma soprattutto perche' 5 anni prima, i serbi avevano fatto saltare il ponte sulla Sava. Per attraversare il confine naturale tra Croazia e Bosnia, bisognava salire su una chiatta. Un camion alla volta.
A notte fonda arrivammo finalmente nel paesino di Vidovice, dove prendemmo posto nella palestra della scuola elementare intitolata al poeta croato Antun Gustav Matos - anche lui figlio della Slavonia - che da tempo aveva accantonato la sua funzione primaria ed era stata convertita in un rifugio per gli sfollati. 
Le pareti esterne erano ricoperte da tronchi d'albero, appoggiati alla struttura per renderla meno esposta ai colpi di artiglieria leggera e alle schegge delle granate. I vetri, pero', erano completamente saltati e l'aria nella palestra era fredda di giorno e polare di notte. L'acqua nei bagni, poi, era poca e gelida.
Restammo li' una settimana.


Ogni mattina, dopo aver maledetto il giorno in cui ci eravamo ritrovati a sciacquarci con quell'acqua ghiacciata dopo aver dormito per terra, partivamo alla volta delle case bombardate i cui proprietari non erano riusciti a rimuovere le macerie. Spesso perche' rimasti soli al mondo. Con i pochi mezzi a nostra disposizione, spalavamo i detriti, prestando attenzione a non ferirci con i brandelli di muri pericolanti o a non farci schiacciare dai pavimenti sventrati e rimasti penzoloni, quindi caricavamo sui trattori macigni e mattoni, assi di ferro e pezzi di vetro. I locali, spesso donne anziane che la guerra aveva lasciato senza mariti e figli, a meta' mattinata ci invitavano a prendere una pausa, durante la quale ci offrivano del caffe' e un pezzo di pane. Cui poi aggiungevano immancabilmente l'acquavite fatta in casa, la rakija. Buona, per carita', ma se commettevi l'errore di apprezzare non solo a parole, se calibravi male i tempi della pausa caffe' e il movimento del polso, buttandola giu' tutta, la babushka ti riempiva nuovamente il bicchiere. E allora l'etichetta imponeva che tu lo svuotassi di nuovo. Quando succedeva eri fregato: dopo due grappe, tornare ai lavori pesanti diventava davvero un'impresa.      


I miasmi di quella guerra mi avevano solleticato le nari sul treno serbo. Quel lezzo aveva acceso un'irrequietudine che chiedeva risposte. Avevo assecondato quel bisogno divorando libri e giornali, trascorrendo pomeriggi davanti alle mappe fisiche e politiche, sovrapponendole a quelle etniche, linguistiche e religiose. Spesso ero uscito di casa con il volume europeo dell'atlante De Agostini, perche' quella mia ossessione si sarebbe tradotta in voglia di osservare ancora una volta i confini e ad imbastire discorsi su Gavrilo Princip e Tito, Vukovar e Dubrovnik, gli Ustascia e i racconti di Bosnia di Ivo Andric. Non avevo i mezzi per capire fino in fondo le cause storiche ne' tantomeno le conseguenze del conflitto, la profondita' delle ferite che un trauma cosi' genera in chi lo subisce. Ma l'esperienza tra Vidovice e Kopanice, oltre a soddisfare in parte la sete di conoscenza, mi riempii di nuovi elementi. 
Fu come assaggiare per la prima volta la consistenza di un cibo che avevo visto solo in foto. 
Non placai la fame, ma cominciai a capirne meglio l'origine e gli effetti su me stesso. 


Il primo e il piu' lampante era l'entusiasmo. Oltre ai guanti da lavoro e agli stivali di gomma avevo messo nello zaino gli scarpini da calcio. Cosi', nonostante le notti sul pavimento della palestra della scuola, nonostante le giornate intense e nonostante le docce per modo di dire, organizzai un'amichevole in quel che restava del campo comunale: da una parte i volontari, dall'altra i locali. Delle reti non erano rimasti che pochi brandelli, pertanto ogni tiro - dentro o fuori che fosse - si trasformo' in una conta per decidere chi si sarebbe preso la briga di recuperare il pallone. 
La zona attorno al campo di calcio era piena di mine antiuomo.  


  Prima di ripartire, ci concedemmo anche una giornata a Tuzla, dove appena 10 mesi prima l'esercito della Repubblica Srpska aveva trucidato 71 persone, quasi tutti giovani della mia eta', ferendone altre 240. Tornai a casa solo dopo aver pregato sul luogo del massacro, l'unica attivita' da Legionario di Cristo di quella settimana bosniaca. Tornai a casa dopo aver parlato con civili e militari croati, civili e militari statunitensi, civili e militari italiani, dopo aver bevuto una birra Ozujsko con i pochi ragazzi di Vidovice sopravvissuti ad anni di atrocita' e dopo aver giocato anche a pallavolo con le poche ragazze rimaste in paese. 
  Rientrai a Roma una notte di fine marzo e dormii per terra. 
In mia assenza, forse pensando che non sarei mai riapparso, mamma e papa' avevano disposto dei lavoretti nella mia stanza da letto. Quando ci misi piede, dopo giorni faticosi e dopo un viaggio di 15 ore, la camera era diventata un guscio di bambu'. Sottosopra. 
Poco male, a quella dimensione cominciavo ad abituarmi.


Qualche settimana dopo, ricevetti una chiama.
"Ciao, sono Paola"
"Paola chi?"
Paola era una dei volontari dei Protomartiri, una parrocchia di Roma che aveva mandato un suo piccolo contingente umanitario a Vidovice. Ci eravamo conosciuti li', ma evidentemente non aveva fatto breccia. Non ancora.
"Per quest'estate stiamo organizzando una missione in Albania. Perche' non ti aggreghi?".
Mi aggregai. 
Prima, pero', tornai negli Stati Uniti, per la terza volta negli ultimi 5 anni.
Assieme ad alcuni ragazzi che avevano partecipato al seminar di Dallas, avevamo organizzato quello che nel gergo del CISV si chiama reunion. Avevamo deciso di farlo al di fuori dell'egida dell'organizzazione e a mezzo posta, fissando un rendez-vous in Canada da Julie. Ci saremmo visti a casa dei suoi a Ottawa, poi ci saremmo trasferiti in Quebec, nel cottage di famiglia sul lake Edja.
Attorno a quell'appuntamento, costruii il mio primo viaggio itinerante in solitaria.    


Sul volo Alitalia per Boston ricevetti in omaggio un upgrade in prima classe e mi ritrovai in prima fila accanto ad un professore di Harvard. Lo champagne che ci versarono a partire dalla fase di rullaggio concilio' il suo sonno e privo' me di una conversazione indimenticabile. All'arrivo scoprii con gioia che l'aeroporto Logan sorge su un isolotto di fronte al centro cittadino, dal quale dista una quindicina di minuti. Nonostante la mia guida Baedeker, maneggevole come un manubrio e affidabile come una Dacia, trovai un ostello in centro. Crollai sul traballante letto a castello prima di ingurgitare qualcosa, e alle 4 di mattina ero gia' pronto a far colazione nel vicino Dunkin' Donuts. Per andare da Boston ad Ottawa impiegai 24 ore, cambiando prima ad Albany e poi a Montreal. Il tragitto, il cambio notturno e l'ingombrante vicino di sedile sul bus furono letali per la mia macchinetta fotografica, ragion per cui di quel viaggio mi rimangono una manciata di foto sbiadite scattate con una Kodak usa e getta. Durante quel mese percorsi il continente nordamericano da est a ovest, da Boston a San Francisco passando per Chicago e Los Angeles, le cascate del Niagara e il Grand Canyon. Alternai la solitudine penosa a quella adrenalinica, il piacere di immergermi in un gruppo di persone care alla convivenza con mia sorella. Dopodiche' tornai a Boston, da solo.
   

Cominiciai a sviluppare alcune abitudini da viaggio: prendere appunti, leggere con voracita', mettere da parte le banconote, mangiare da solo, per di piu' street food che rientrasse nel mio budget, qualche volta sulle panchine dei parchi, parlare con decine di sconosciuti, fotografare, accompagnare i lunghi spostamenti con il walk-man. Consumai le suole delle scarpe e le cassette con il best of dell'ultimo anno che mi ero cucito da solo, mescolando Cher a Mark Knopfler, Alanis Morrisette a Eros Ramazzotti. Imparai a cercare bus, treni e ostelli partendo da una mappa, a fare la doccia nei bagni pubblici con tutti documenti appresso, e a mantenere la calma quando venivo sfidato da malintenzionati nei terminal di Cleveland o di Buffalo. A San Francisco, provai il brivido di essere scambiato per il marito di mia sorella e a Los Angeles quello di scambiare il primo bacio con un'altra avventora, una giunonica tedesca. Dopo quattro giorni di saluti timidamente accennati, il caso aveva voluto che nella mia ultima serata eravamo rientrati contemporaneamente nella camerata dell'ostello di Santa Monica. Per due ore avevamo parlato al buio, con la schiena appoggiata alla parete e le gambe distese sulla moquette. Finche', dopo esserci augurati la buonanotte, le nostre labbra si erano abbracciate con passione. 


A Los Angeles non ero andato ne' per gli Universal Studios ne' per Disneyland, ma per trovare mia sorella. Maila aveva lasciato Sociologia e non aveva ancora decollato con l'Isef, ma in attesa di impronosticabili epifanie si stava facendo le ossa lavorando in California. Mi porto' a Venice e a Redondo beach, dopodiche' volammo prima a San Francisco e poi a Las Vegas, dove dormimmo in una camerata senza aria condizionata e affittammo una Hyundai con la quale percorremmo le strade di Nevada, Arizona e Utah prima di rientrare a Sin City. 
Las Vegas mi sembro' un obbrobrio antistorico. Una citta' figlia del mondo contemporaneo, sulla cui nascita e crescita non avevano pesato in alcun modo le dinamiche tradizionali, quando i parametri che gli uomini prendevano in considerazione per decidere se stabilirsi in un luogo erano l'approvigionamento idrico e la presenza di corsi d'acqua, la fertilita' del terreno, l'abbondanza di cibo e il clima mite. 


Las Vegas non aveva nulla di tutto cio'. Era anzi, all'opposto, un quadrilatero di terra strappato al deserto e sul quale degli uomini avevano convinto altri uomini a trasferirsi, non gia' sulla base della vivibilita' di quella distesa di pietrisco, ma dell'appetibilita' del posto. Con la sua logica evoluzionistica, l'homo sapiens si sarebbe tenuto alla larga da quella valle infuocata, ma era bastato legalizzare il gioco d'azzardo per convincere centinaia di migliaia di persone a trasferirsi in mezzo a quel nulla inospitale. E se l'operazione era riuscita quando non c'era l'aria condizionata, figuriamoci dopo. La Vegas fu il primo posto che mi impressio' senza piacermi, anzi che mi impressiono' in senso negativo. Per rendere l'esperienza ancor piu' autentica e a 360gradi, pero', una sera mi accomodai sullo sgabello di una piccola sala da gioco lungo lo Strip e mi sedetti davanti ad una slot machine. Durai pochissimo: il tempo di realizzare un poker di 2, di vincere 17 volte la posta - 25 centesimi - e di cacciare un urletto piccolo piccolo. 
Uno yoo-hoo homersimpsoniano, piu' parodiato che convinto. 
"Favorisca i documenti", un addetto alla security mi piombo' addosso.
Con i miei 20 anni e 2 mesi non avevo diritto a giocare d'azzardo e dovetti uscire. 
La mia carriera di scommettitore fu fulminea e si chiuse in attivo.  
Con in tasca quattro dollari e mezzo in monete di piccolo taglio.



La penultima tappa fu New York, dove mi appoggiai a casa di Patrick Adams, uno dei team leader del seminar di Dallas. Pat mi presto' un divano sul quale dormii due notti, un televisore col quale seguii l'oro hollywooodiano di Kelly Strung alle Olimpiadi di Atlanta e la sua membership del Metropolitan museum. Dove entrai gratis spacciandomi per lui, presentandomi in biglietteria con la sua tessera. "Good afternoon, my name is Patrick Adams, can I please have a members' pass?" dissi, con una faccia di tolla e con un accento sufficientemente yankee da risultare credibile. Il fatto che due anni prima, a Dallas, avessi imitato Pat in tutto, dal cappellino alla smorfia, era servito. Da New York presi l'ennesimo bus Greyhound, tornai a Boston e da li' rientrai a Roma in tempo per vedere Michael Johnson ritoccare il record del mondo di Mennea sui 200 metri. Non avevo ancora neanche cominciato a smaltire il fuso orario, quando all'alba del 2 agosto raggiunsi la parrocchia dei Protomartiri, pronto ad aggregarmi al gruppo di volontari diretti in Albania


La seconda esperienza di volontariato nell'arco di 5 mesi fu meno drammatica, meno epica, meno intensa, faticosa e rischiosa. Nonostante questo mi segno', se possibile, di piu'.
Paola, che mi aveva preso di mira a Vidovice, svuoto' subito la cartuccera. Dopo la notte insonne, arrivai per primo all'appuntamento davanti alla parrocchia. Li' conobbi Mose', un ex rifugiato eritreo che viveva nella sagrestia, che entro un paio di anni sarebbe diventato uno dei miei piu' cari amici ed entro 20 sarebbe stato candidato al Nobel per la Pace per aver dedicato la sua vita ai migranti del corno d'Africa e per essere diventato un punto di riferimento prima, durante e dopo la traversata del Mediterraneo. Quando partimmo, recuperai una frazione del sonno perduto avvolgendomi nella felpa e spiaccicando il muso contro il finestrino del minivan: mi svegliai solo dopo Benevento, quando mi restavano poche ore di vita da single. Le trascorsi dimenandomi alla notte della taranta, poi chiusi bottega. Paola aveva sguainato la spada, il mio destino era segnato.


Ci baciammo il 3 agosto, sul tetto di una palazzina di Melpignano nella quale trascorremmo la notte prima di imbarcarci per Valona. Ci baciammo di nuovo il 4 agosto, dopo che avevo ingoiato il rospo della finale olimpica del volley persa 17-15 al quinto set contro l'Olanda, l'ultima chiamata per la mia adorata generazione di fenomeni. Fu una specie di passaggio di consegne: Paola non aveva il physique du role della ragazza che avevo cercato fino ad allora, eppure riusci' a vincere ogni mia reticenza. Fu un mezzo shock: dopo due decenni passati ad sbavare per creature eteree che nella mia testa assumevano forme perfette, dopo due decenni ad assecondare quell'esigenza interiore di assoluto, era complicato trovarsi a tu per tu con un essere in carne ed ossa. Paola compenso' le mancanze impostando dialoghi a base di analisi transazionali e citazioni di Erich Fromm. "Avere o essere l'ho letto tre volte - mi disse -. La prima mi ha cambiato la vita, la seconda ho capito perche' mi ha cambiato la vita". Aveva 19 anni. Anche meno.

 
A Valona lavorammo alle finiture di un orfanatrofio che l'anno seguente avrebbe fatto una pessima fine: nel '96 due-terzi delle famiglie albanesi avevano affidato i loro risparmi a delle finanziarie che promettevano tassi da capogiro. Uno schema piramidale che aveva spinto migliaia di persone fuori dal mercato del lavoro, perche' gli interessi promessi e inizialmente garantiti rendevano molto piu' di qualsiasi stipendio. 
"Ma com'e' sostenibile questo sistema?" avevo chiesto ad un paio di ragazzi di Valona che mi avevano raccontato come quello schema avesse cambiato le loro esistenze. Infatti sostenibile non era. 
L'anno seguente, nel Paese delle Aquile scoppiera' la bolla e con essa la rivoluzione dei kalashnikov, che portera' anche alla devastazione dell'orfanatrofio del quale avevo scartavetrato tutti gli angoli, guadagnandomi il soprannome di zoccoletto
Finita l'opera, raggiunsi i miei a Kamarina, attraversando per il secondo anno consecutivo l'Adriatico. Dopo aver consumato decine di schede telefoniche, a settembre rividi Paola e facemmo l'amore. Avevo 20 anni e 4 mesi quando persi la verginita' sul sedile della mia A112 parcheggiata accanto al Circo Massimo. 
Il rapporto sarebbe durato due anni, durante i quali sarei andato all'estero altre cinque volte.
Avevo lasciato la Fiera, la collaborazione con l'agenzia stampa decollava, il percorso universitario procedeva secondo la tabella di marcia e per la prima volta condividevo tempo e intimita' con una persona che ogni giorno mi regalava piccole grandi gioie. 
Ero pieno. Tridimensionale, per usare parole sue. 
Ma questo non mi impediva di voler viaggiare. 
Avevo eletto Mediterraneo a mio film preferito, ma quella dimensione per me non era una fuga dalla realta', ma anzi il mezzo migliore per arricchirla. Era la mia dopamina.  


A Capodanno andai a Praga con Antonio. Avevo metabolizzato la delusione dell'Oktoberfest, e per celebrare il ritorno del sereno avevamo deciso di tornare insieme li' dove io avevo perso una giornata appresso al veterinarnimu e dove lui era rimasto solo poche ore. La citta' era stata assieme ad Istanbul la piu' bella scoperta dell'inter rail di un anno e mezzo prima, quindi ci accordammo per rivederla insieme, con calma e in pieno inverno. Non eravamo da soli, pero'. Antonio aveva un codazzo di fangirl e a noi si aggrego' Valentina detta Tina, una collega universitaria con la quale ogni tanto si concedeva incontri ravvicinati. 
Partiti in tre la sera del 29 dicembre 1996, l'indomani perdemmo un pezzo perche' ad Antonio mancava un pezzo: la prova del rinvio militare. Le autorita' di frontiera austriache non gli consentirono di lasciare l'area Schengen, nella quale la Repubblica Ceca sarebbe entrata a far parte solo dal 2003.
Antonio fu costretto a scendere dal treno e - mentre riprendevo la scena con una telecamera - spari' in un paesaggio avvolto in un metro di neve.   

 
Tina, che non aveva dimestichezza con gli imprevisti e che era partita con la prospettiva di stringere i legami con e attorno ad Antonio, si ritrovo' con me e per poco non si mise a piangere.  
Quando arrivammo a Praga, ci andai vicino anch'io. L'ostello di Zitna a pochi minuti a piedi dall'orologio astronomico, quello nel quale avevo soggiornato durante l'inter rail, era pieno. 
Dal modo in cui l'inserviente della reception rise quando gli chiesi se conoscesse strutture libere in zona, capii che non era l'unico ostello senza letti disponibili. 
Le compagnie low cost non avevano ancora raggiunto le capitali dell'est, ma i treni e i bus si', e la fama della citta' dorata si stava gradualmente diffondendo tra i giovani occidentali. Era trascorso un anno e mezzo da quando avevamo girato il continente senza prenotare una sola brandina in anticipo, ma sembrava un decennio. La Polonia, l'Ungheria e la Boemia cominciavano a diventare le nuove frontiere del divertimento a basso costo.
"Il 31 notte a ponte Carlo si cammina sui cocci", si diceva, alludendo alla quantita' di persone che circolava e alla quantita' di alcol che veniva consumata.    


I marciapiedi della citta' erano ricoperti da uno strato di ghiaccio e rischiammo piu' volte di volare zampe all'aria tornando a piazza Venceslao, dove attendemmo il nostro turno davanti ad una cabina telefonica presa d'assalto. Dopo vari tentativi, trovammo due posti nel dormitorio dello studentato di Strahov, un caseggiato di epoca sovietica sulla collina Petrin convertito in ostello della gioventu'. Il problema vero, pero', fu riuscire a chiamare Roma per cercare notizie su Antonio. Lo zero della cabina era difettoso: forse per il freddo o forse per l'usura, il tasto tendeva ad incastrarsi. E quando si incastrava, bisognava ricominciare dall'inizio. Quando riuscivo a superare le colonne d'Ercole dello 0039 seguito da 06, finivo impantanato nel numero dei miei, che di 0 ne aveva altri 3, dei quali due consecutivi. Troppi. 0039... 06... 700... 910... Niente, ricominciamo. All'ennesimo blocco del tasto, dovetti cambiare strategia e telefonare a mia nonna Antonietta, per tutti Titina.
Una sola volta, in 80 anni di vita, nonna Titina aveva messo il naso fuori dall'Italia. A distanza di anni raccontava ancora come a lei quelle sagome nere che lungo le strade spagnole indicavano le citta' con una plaza de toros fossero sembrati tori veri.  
"Ciao Nonna, sono Dario"
"Chi?"
Provai a spiegarle chi ero, dove ero e perche' la chiamavo. 
"Allora... di' a mamma e papa' che se li chiama il mio amico Antonio, devono dirgli che ci vediamo domani su ponte Carlo, dove ci siamo visti un anno e mezzo fa. Tutto chiaro?'. 
Nonna Titina fu una spada.


Intanto Antonio, rientrato a Vienna col primo treno, si era catapultato all'ambasciata italiana, dove era emerso il catch 22 della vicenda: solo dopo il primo gennaio di ogni anno il Ministero spediva a casa l'attestato che confermava l'ottenimento del rinvio del servizio di leva. Allo stesso tempo, il governo non consentiva ai cittadini in eta' da militare di lasciare i Paesi dell'area Schengen nei giorni a ridosso del Capodanno, perche' sussisteva il rischio che disertassero. Il provvedimento riguardava anche quelli che avevano fatto domanda di rinvio del servizio militare e che se l'erano vista approvare. Antonio era al secondo anno di Fisica e aveva regolarmente chiesto la sospensione dell'obbligo di leva per motivi di studio: il documento gli sarebbe arrivato la settimana seguente, ma in quegli ultimi giorni del '96 ne era inevitabilmente sprovvisto. All'ambasciata di Vienna furono comprensivi: se avesse dimostrato di essere uno studente, gli avrebbero fornito un foglio di via per sconfinare in Repubblica Ceca. Facile a dirsi, meno a farsi. I suoi documenti della Sapienza erano impilati infatti in un cassetto della sua cameretta, i suoi genitori non erano in casa e quel cassetto era pure chiuso chiave. Mentre io lottavo col tasto zero dalla cabina telefonica di piazza Venceslao, Antonio riusciva a chiamare Giuliana, la donna delle pulizie, la implorava di correre a via Carini, di scassinare il cassetto con le cattive e di mandare il suo statino universitario via fax all'ambasciata italiana di Vienna entro l'orario di chiusura degli uffici. 
Anche Giuliana fu una spada.  
Correndo contro il tempo, Antonio era poi riuscito a salire sull'ultimo diretto per Praga, dove era arrivato in piena notte.  
Non trovando un posto-letto, aveva passato qualche ora per terra, sdraiato sotto il tavolo da ping pong della hall di un ostello. L'indomani mattina, quando avevo abbandonato ogni speranza, ci ritrovammo su ponte Carlo. Quasi per caso. 
Chissa' perche', Antonio aveva sbagliato sponda della Moldava.

 
Ci tornammo a mezzanotte, sullo spettacolare Karluv Most. Non era vero che si camminava sui cocci, ma il ponte era cosi' pieno di gente che potevi lasciarti andare senza correre il rischio di cadere per terra. Tornare in un luogo che avevo adorato suggeri' riflessioni su come cambino i posti, su come si modifichi la nostra percezione e su come evolviamo noi stessi. In quel senso, rimettere piede nei luoghi gia' accarezzati diventava un'esperienza capace di stimolare e arricchire tanto quanto la scoperta di un posto nuovo. 
Praga mi lascio' nuovamente in bocca un sapore delicatamente dolce, ma condividerla con una massa di gente aveva tolto qualcosa all'intimita' del nostro legame e alla purezza del fascino che aveva esercitato la prima volta. 
Mentre il treno ondeggiava tra gli scambi dello scalo di San Lorenzo, tirai le somme: avevo trascorso tre mesi lontano da casa, avevo visitato luoghi fiabeschi e zone di guerra, avevo acculumato esperienze inestimabili e me ne erano successe di tutti i colori. 
Ogni volta era stato impegnativo ma indimenticabile. 
Stupendo nella misura in cui era stato anche faticoso.
Un inno alla vita.
In cima ai buoni propositi per il '97 misi quello di vivere il piu' possibile cosi', conciliando lavoro e studio, vita sociale, sport e viaggio. Volevo allagare il cerchio, espandere i confini e alzare l'asticella.
Tina mi sgamo'. 
"E il prossimo? - disse -. Dove sara' il prossimo?".