venerdì 28 maggio 2021

Attenti a quei due

Il tizio davanti a me era vestito di tutto punto, col blazer scuro e i pantaloni perfettamente stirati. Sembrava uscito da una seduta in Borsa o dal consiglio di amministrazione di un'azienda. 

"Strano", pensai. 

Era l'estate del 2003, e sebbene il caldo di Mosca non fosse paragonabile alla canicola che stava soffocando l'Europa meridionale, anche in Russia le temperature erano superiori alla media. Le punte massime si registravano prima del tramonto, come se in quel momento e a quelle latitudini il sole si trovasse nel punto piu' vicino alla Terra e da li' si facesse sentire in tutta la sua incandescenza. Era tardo pomeriggio e circolavano tutti in maglietta. Tutti tranne quel giovane che camminava un metro davanti a me lungo Ulitsa Ilinka, una delle strade piu' antiche della capitale russa. Un'arteria che aveva ereditato il nome dalla chiesa dedicata a S.Elia, distrutta dopo la rivoluzione. Ulitsa Ilinka brulicava di gente perche' il Paese stava vivendo uno periodo delicatissimo dal punto di vista della lotta al terrorismo.

Nove mesi prima, un gruppo di militanti ceceni aveva tenuto sotto scacco il Cremlino sequestrando 850 persone nel teatro Dubrovka. Dopo tre giorni di assedio, l'intervento delle teste di cuoio avesa rotto lo stallo ma a costi umani altissimi. L'azione si era conclusa con una carneficina, e almeno 200 persone avevano perso la vita tra pubblico e sequestratori. Un anno dopo, i separatisti ceceni si sarebbero ripetuti in modo ancora piu' velenoso e disumano in occasione del massacro di Beslan. Tra i due drammatici episodi, i ceceni non erano rimasti con le mani in mano. Piu' di una bomba era esplosa nella metro di Mosca e solo pochi giorni prima, il 5 luglio 2003, due shahidka, due cosiddette vedove nere, si erano fatte saltare in aria ad un concerto, provocando la morte di 15 russi. In quel clima, le autorita' del Cremlino avevano innalzato il livello di allerta e avevano chiuso una parte della Piazza Rossa, dove si poteva accedere solo al mausoleo di Lenin. Il simbolo meno adatto a rappresentare la Russia contemporanea, eppure ancora anacronisticamente li', nel cuore del Paese, in attesa che qualcuno si rendesse conto della contraddizione insita e trovasse il modo di censurare quell'ipocrisia. Un po' come i cinesi stavano facendo sottobanco con la figura di Mao.

L'unica via di accesso alla Piazza Rossa era proprio Ulitsa Ilinka, ed era quindi li' che si concentrava il traffico pedonale. Per uscire dalla calca mi ero incamminato lungo la sede stradale e mi ero ritrovato subito davanti quello yuppie. Di strano, quel giovane non aveva solo il vestito elegante in un torrido pomeriggio di luglio. La vera anomalia era che sotto il braccio destro portava una cartellina sottile di plastica trasparente e che al suo interno c'erano decine e decine di banconote. Dollari statunitensi.

Ero in Russia da una decina di giorni, abbastanza da cogliere la singolarita' di quel comportamento. La riflessione era ancora in fase di gestazione quando la cartellina trasparente con migliaia di dollari gli scivolo' da sotto il braccio e cadde a un passo da me. 
Ignaro di tutto, il giovane prosegui', mentre io mi fermai a pochi centrimetri dal malloppo. 
La storia puzzava.
Quando mi piegai verso la cartellina, fui raggiunto da un altro ragazzo. 
Indossava una polo azzurra e aveva i capelli chiari rasati. Si accovaccio' accanto a me, mise una mano sulla cartellina, indico' con l'altra un androne sulla nostra sinistra e in inglese disse: 
"Vieni con me, andiamo li' a spartirceli". 
La storia puzzava un altro po'.
I moscoviti erano gente scaltra. Erano abituati a vivere in un ambiente cinico e famelico, che non perdonava chi abbassava la guardia, ed erano per questo costantemente sul chi vive. Perche' mai un giovane vestito da broker esibisse senza remore e precauzioni un mucchio di contanti esponendosi al pericolo di attirare malintenzionati costituiva gia' da se' una sceneggiatura senza senso. 
Chiunque si fosse poi scientemente messo in quella posizione di rischio, tanto piu' in quella giungla piena di bucce di banana, avrebbe dovuto ancora piu' del solito drizzare le antenne. E invece quel ragazzo aveva staccato la spina, aveva lasciato andare la cartellina e poi non se n'era neanche accorto. Ne' immediatamente, ne' subito dopo.
 Il copione faceva acqua da tutte le parti. 
La figura del giovane rasato, poi, era ancora piu' inverosimile. 
Se sei un mariuolo e ti ritrovi con la possibilita' di intascare un bottino del genere, prendi i soldi e scappi, senza coinvolgere lo straniero di passaggio.  
Il quale non avrebbe neanche i mezzi per impedirtelo.
"No, io voglio restituirglieli", dissi a bruciapelo.
Il ragazzo rasato mi guardo' allibito.
"Non voglio dividerli con te, voglio ridarli al proprietario", specificai.
"Non parlo bene l'inglese", replico' lui.   
Si', certo.
Con un balzo felino, il tipetto rasato aveva raggiunto la cartellina e aveva avuto la prontezza di invitarmi a dividere i soldi dopo esserci nascosti e la lucidita' di farlo in una lingua straniera. 
Un secondo dopo pero', il suo inglese non lo assisteva nel momento in cui gli dicevo che volevo restituirli al proprietario.
Prese altro tempo e ci riprovo'.
"Vieni con me e li dividiamo" ribadi' lui, anche se era chiaro che io non avevo nessuna intenzione di imboscarmi con lui e con quel pacco di dollari.
Quella storia non lasciava presagire niente di buono.
Insistei un'ultima volta, poi lasciai perdere e proseguii, abbandonandolo nel punto in cui si era accovacciato per mettere le mani sulla cartellina.
Mi allontanai di alcune decine di metri, avvicinandomi al punto in cui la strada sbucava su Staraya Ploschad, la piazza vecchia di Mosca. A pattugliare l'incrocio c'era una volante della polizia. Per un attimo pensai di denunciare l'accaduto, ma pescando nel mio magro dizionario di russo non trovai nessun vocabolo utile per raccontare agli agenti quel teatrino. 
Un attimo prima di arrivare all'altezza della civetta, mi voltai.
Lo yuppie e il rasato erano l'uno accanto all'altro e scrutavano i miei movimenti. 
Accelerai il passo e cambiai aria.  
Chissa' cosa sarebbe successo se avessi seguito il biondo. Sicuramente niente di buono, ovviamente. Ma cosa e come? Mi avrebbe assalito approfittando del buio dell'androne? Ed eventualmente in che modo? Con una pistola, con uno spray o con un punteruolo? Avrei forse fatto la fine di Remigio? E poi mi avrebbero aggredito oppure minacciato? Magari la farsa sarebbe continuata, e il tizio vestito di tutto punto sarebbe riapparso con un poliziotto, dopo aver denunciato il furto e i tre avrebbero paventato conseguenze ben peggiori. Ma poi si sarebbero accontentati dei miei averi? Dopotutto non avevo un telefono e i contanti erano pochi. Certamente la macchina fotografica che avevo a tracolla non sarebbe salita sulla Transiberiana con me, poco ma sicuro, ma il bottino di caccia sarebbe stato magro. E allora perche' io? Cosa faceva di me una preda appetibile? Il fatto che fossi solo, ovviamente, mi rendeva piu' indifeso. Ma forse c'entrava anche il fatto che un pacco di soldi facili potevano fare da esca per un giovane squattrinato.
Mi domandai quale lezione mi avrebbe dovuto insegnare quel mancato raggiro. La risposta venne a cercarmi il giorno seguente. In mattinata mi concessi un ultimo giro in citta', dopodiche', nel pomeriggio, scesi nel ventre della stazione Lubyanka e nel piano sotterraneo entrai in un chiosco, dove acquistai gli ultimi biglietti della metro. Il soffitto era basso, ma l'illuminazione era discreta e dalle scale filtrava un po' di luce naturale. Appena misi il piede fuori dall'edicola, un ragazzo mi taglio' la strada a tutta velocita'. Veniva di corsa dalla mia sinistra e stava sprintando verso l'uscita della stazione. Scapicollandosi al punto che da sotto il braccio gli volo' una busta di plastica trasparente piena di banconote. Dollari statunitensi, per la precisione.
Poverino, vedi i casi della vita.
Il giorno prima, il beneficio del dubbio era durato tre secondi. Stavolta neanche quelli. Uscendo dal chiosco, e senza perdere il passo, diedi un calcio di mezzo esterno destro alla busta di plastica. Io piegai a sinistra mentre quella - roteando su se stessa come un verruzzo - scivolo' sul pavimento dirigendosi verso una macchinetta per le fototessere sulla destra. Il complice stavolta non ebbe il tempo di recitare la battuta. Seguendo il copione comincio' la frase "dovremmo andare a...", ma visto che tra me e i soldi c'erano gia' alcuni metri, il tizio resto' per un attimo a meta' del guado, incerto se seguire lo straniero o il denaro. Opto' saggiamente per la busta di plastica, prima che qualcuno meno prudente di me la recuperasse. Non so che faccia avesse, perche' non mi voltai neanche. Ma immaginai la sua espressione.
  
Nonostante la mafia degli scippatori si fosse coalizzata contro di me e nonostante il clima del terrore, Mosca mi era piaciuta. Non tanto per la sua architettura, anzi. Se fosse nato prima l'uovo del comunismo o la gallina del brutalismo, il risultato era comunque il medesimo. Le Sette Sorelle, poi, i palazzoni costruiti tra il '47 e il '57 in un incrocio tra stile gotico e barocco elisabettiano, erano inquietanti anche in pieno giorno e in piena estate. Nonostante questo, o forse proprio per il suo essere piu' verace che bella, m'era piaciuta piu' di San Pietroburgo, che avevo trovato monumentale ma fredda. Mosca era invece stata ruvida, anche un po' cruda, e mi aveva tenuto sulle spine persino nella sua meravigliosa metropolitana, sulla quale pendeva una spada di Damocle. Nei sei mesi successivi sara' teatro di tre attentati che provocheranno la morte di 50 persone. 
Fu anche per quello che tirai un sospiro di sollievo quando quella sera uscii dalla fermata Komsomol'skaja, la piu' splendida tra le stazioni della metro moscovita, lasciandomi alle spalle le colonne corinzie e le volte barocche dipinte di giallo con mosaici e motivi floreali. 
Prima di salire sul treno che dopo 157 fermate, 7 fusi orari e 7 giorni di marcia sarebbe arrivato a Vladivostok, dalla parte opposta del Paese, del continente e del mondo, c'erano da superare i controlli di sicurezza.  
Tutti i passeggeri furono costretti a lasciare i bagagli sulla banchina in attesa dell'ispezione, ma proprio quando mi ero separato dal fido Invicta viola, scatto' un allarme-bomba e la polizia fece evacuare la stazione Yaroslavsky. Sedetti su una panchina del piazzale antistante, senza sapere se sarei riuscito a prendere il treno e o se sarei riuscito a rientrare in possesso del mio zaino. In caso contario, mi sarei ritrovato a indossare lo stesso pantalone e la stessa maglietta per i successivi quattro giorni, fino a quando il convoglio mi avrebbe scaricato a Irkutsk.


venerdì 21 maggio 2021

I lupi della steppa

La ferrovia piu' lunga del mondo fu costruita grazie all'opera incessante di 90mila uomini, che a partire dal 31 maggio 1891 sistemarono binari e milioni di traversine nella taiga al ritmo di 70km al mese. Tra di loro soldati esiliati, contadini siberiani e coscritti stranieri - italiani, tedeschi, coreani, soprattutto cinesi e giapponesi - pagati un rublo e 76 copechi al giorno. Fondamentale fu anche l'apporto di migliaia di prigionieri, che lavorarono in condizioni climatiche probitive ma riuscirono terminare l'opera all'inizio del XX secolo. La Grande Magistrale Siberiana fu presentata all'esposizione Universale del 1900 assieme alla torre Eiffel, al cinematografo dei fratelli Lumiere, alle Olimpiadi di de Coubertin e alla metro di Parigi e aprii i battenti il 14 luglio 1903. Cento anni dopo, dopo aver recuperato lo zaino sulla banchina della stazione di Mosca, presi possesso di uno degli scompartimenti di seconda classe assieme ad una coppia di viaggiatori fiamminghi e a Cristiana, un'amica veneta. 
Con i suoi 9288km, meno del 20% dei quali ad ovest degli Urali e il restante nella Russia asiatica, la Transiberiana era servita nei prmi anni della sua storia soprattutto per ridurre i tempi del trasporto merci tra San Pietroburgo e Tokyo, per popolare la sterminata steppa siberiana (dove lo zar Nicola aveva invitato cinque milioni di contadini a trasferirsi con l'incentivo di terre assegnate loro gratuitamente) e per il trasporto rapido delle truppe sul fronte occidentale durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma quelle rimasero le eccezioni. La strada ferrata non divenne mai la prima scelta, ne' per il trasporto delle merci - meno del 10% dei container che vengono dall'Oriente e meno di un terzo delle esportazioni russe transitano per quei binari - ne' per quello delle persone. 
Eppure, a bordo di quel treno c'era un'umanita' incredibilmente varia.
Intanto dal punto di vista dei popoli: la Federazione russa conta circa 200 razze. Il che, se sul piano della gestione delle diversita' significa opporre il pugno di ferro per placare le derive separatiste, le rivendicazioni di autonomia e le velleita' di indipendenza, sul piano etnografico equivale ad una manna dal cielo. Oltre ai piu' noti - gli Armeni, i Georgiani, i Kazaki, i Bielorussi, gli Ucraini, i Tagiki, gli Uzbeki, i Turkmeni, i Kirghisi, i Ceceni e i Tatari - in quel territorio vasto come tutto il SudAmerica s'erano sviluppate lingue e culture diversissime tra di loro. Popolazioni prima radicate nei deserti o tra i ghiacci, tra le steppe o tra le montagne, 
nel corso dei secoli erano state rimescolate dalle migrazioni spontanee e da quelle forzate, dai conflitti, dalle invasioni e dalle calamita', dagli zar, dai soviet e dalle guerre. Gli Osseti, gli Abkhazi, i Daghestani, i Ciuvaschi, i Cumucchi, gli Ingusci, i Cabardino-Balcari, i Baschiri, gli Jakuti, i Mordvini, i Tarati, i Nogai, i Buriati, i Karakalpaki e decine di altri popoli, i cui nomi danno da soli l'idea del mosaico di razze che convive sotto la bandiera russa. 
Quel treno ne offriva un campione, per ammirare il quale bisognava pero' scendere nella pancia della terza classe, dove non esistevano scompartimenti, dove tutto succedeva alla luce del sole, dove i letti diventavano bivacchi, i tavolini si perdevano sotto montagne di scatole e bicchieri di vodka, dove i samovar con l'acqua calda si trasformavano in luoghi di ritrovo e dove - con lo scorrere dei chilometri e il passare delle ore - tutto assumeva i contorni di una vivacissima piazzetta di paese, nella quale l'odore stomachevole di maionese e cetrioli si mescolava allegramente al puzzo di piedi. 
Che aumentava, pure quello, col passare dei chilometri.
Mosca e Irkutsk sono separate da 5000 chilometri e da 5 fusi orari. Ogni mattina e ogni sera l'orologio andava spostato avanti di una o di due ore e le giornate finivano per accorciarsi sempre di piu'. 
O forse era il fascino di quel convoglio, popolato da decine di studenti fuori sede, pendolari, semplici cittadini in ferie o che andavano a far visita a parenti distanti migliaia di chilometri. Tutti portatori di storie da romanzo, come la ragazza tatara che rientrava da Sochi, sul mar Nero, e che alla fine delle vacanze avrebbe passato piu' tempo sul treno che al mare. O come quella giovane mongola portata dagli arabeschi del destino a frequentare la facolta' di medicina all'universita' di Budapest e che tornava a casa una volta all'anno. Di ognuno cercavo di carpire la vicenda e i suoi risvolti, da ognuno cercavo di carpire parole e sorrisi, da ognuno cercavo di imparare qualcosa.
Attraversare quella gigantesca fetta di Asia costellata di luoghi dannatamente affascinanti come Ekaterinburg e Krasnojarsk o solo di recente strappati dall'uomo alla natura come Omsk e Novosibirsk, sapeva di occasione persa. Ma quel che mi premeva era sperimentare la vita a bordo del treno, intavolare conversazioni con le mille anime della Russia interna, regalarmi l'esperienza del tempo in movimento attraverso i panorami desolati della Siberia. Dopodiche', nel pomeriggio del quarto giorno, i belgi, Cristiana ed io scendemmo a Irkutsk. Prima di separarci, trascorremmo l'ultima notte nel
la citta' di Michele Strogoff sul lago Bajkal. Piu' ancora di San Pietroburgo, Mosca e Pechino, infatti, avevo studiato quel percorso con l'obiettivo di raggiungere la Mongolia. 
Una complicazione nella complicazione.
Se per il visto russo e per quello cinese era servito un plico di documenti e tanta mira per calibrare la richiesta dell'uno nei tempi giusti per poter recuperare il passaporto e consegnarlo all'ambasciata dell'altro, il lasciapassare per la Mongolia era stato il piu' difficile che avessi dovuto rimediare fino a quel momento. Non solo dovetti spedire a Trieste il mio documento valido per l'espatrio, ma dovetti allegare anche l'invito di un'autorita' di Ulaanbataar. Un pezzo di carta che ottenni dopo varie ricerche che mi fu spedito da un ragazzo di nome Bataar. Fu lui che mi venne a prendere in stazione.
Date le dimensioni del territorio, la carenza di infrastrutture adeguate, le strade in condizioni pessime, la barriera linguistica e tutto sommato anche la tipologia e la natura delle sue attrazioni, la Mongolia mi sembrava una nazione che avrei fatto fatica a vedere, figuriamoci a capire. Per immergermi il piu' possibile nella realta' locale, dovevo cambiare paradigma: smettere i panni del globetrotter ipercinetico e per provare a vivere e conoscere il Paese dal basso, come non facevo da anni, dalle esperienze in Bosnia, in Olanda e in Albania. Cioe' da volontario.

L'orfanatrofio della capitale disponeva di fondi limitati in rapporto ai bambini che ospitava. D'estate, gli adolescenti tra i 10 e i 13 anni venivano per questo trasferiti in una casetta nella steppa, non lontano dal fiume Buhug, dove era stato allestito un accampamento e dove i ragazzini lavoravano nei campi, coltivando patate, carote, rape e cipolle. Quei prodotti sarebbero serviti per dar da mangiare a loro e sarebbero stati venduti al mercato di Ulaan Bataar, contribuendo cosi' a rimpinguare le magre casse dell'orfanatrofio. A loro, nell'estate del 2003, mi unii anch'io. 
Prima, pero', trascorsi un paio di giorni ad Ulaanbaatar. 
Anziani giocano a domino a Ulanbataar
Cresciuta a partire dal nucleo originario rappresentato da un monastero del 1639, la citta' era stata chiamata Urga fino al 1924, quando era stata poi ribattezzata in onore di Damdiny Such, l'Eroe - Bataar - Rosso - Ulan, il condottiero militare e politico che aveva guidato il popolo mongolo alla rivoluzione e all'indipendenza da Pechino e che forse era morto avvelenato. In una terra vasta e disabitata, senza sbocco sul mare e stretta tra la Russia e la Cina, cioe' tra il Paese piu' grande e quello piu' popoloso del pianeta, la Mongolia era destinata a vendersi al miglior offerente. Strappata l'autonomia all'una aveva l'obbligo di cercare protezione nell'altra grande superpotenza regionale. Cosi' negli anni Quaranta del XX secolo, Ulaanbataar era entrata nell'orbita dell'URSS non solo politicamente e ideologicamente, ma anche linguisticamente: l'idioma locale - buono giusto per il khoomei, il canto armonico gutturale in falsetto - sarebbe da allora stato trascritto con l'alfabeto cirillico, arricchito da un paio di caratteri creati ad hoc, col risultato di allargare ulteriormente la forbice tra le parole scritte e il loro suono. Con inevitabili ripercussioni sulla comunicazione. 
TuvshinJargaghan, il monaco incontinente
Il monaco che mi si avvicino' mentre ingurgitavo un piattone di tuivan, i tipici tagliolini mongoli, per esempio provo' a spiegarmi le sue intenzioni. Si chiama TuvshinJargaghan. Con la J da aspirare. Il nome me lo feci ripetere tre volte, mentre uscii assieme a lui dalla bettola di Ulaanbataar nella quale mi aveva intercettato e dove mi aveva invitato a seguirlo. Lui non parlava altra lingua al di fuori del mongolo, io facevo quel che potevo, cioe' poco. Ma il modo in cui aveva attirato la mia attenzione e quello con cui mi aveva invitato ad accompagnarlo, indicava che come minimo mi avrebbe mostrato un passaggio segreto per esplorare i sotterranei del Choijin Lama, il principale tempio buddista della citta'. Quando girammo l'angolo, pero', TuvshinJargaghan spari' in un bagno chimico, facendomi cenno di aiutarlo a tenere chiusa la porta di plastica. E poi si offri' di fare lo stesso con me. Di incontri come quello, ne feci decine ad Ulaanbataar, senza mai arrivare neanche a capire il nome del mio interlocutore. 
Otto secoli prima, Gengis Khan s'era lanciato alla conquista degli orizzonti conosciuti, e nel giro di pochi decenni i cavalieri mongoli erano arrivati ad assoggettare tutte le regioni che andavano dalla Corea alla Polonia, da Vladivostok alla Turchia. Nel suo apogeo, alla fine del XIII secolo, l'impero mongolo era esteso 24 milioni di chilometri quadrati e contava cento milioni di abitanti. Solo quello Britannico dopo il 1870 avrebbe dominato su un territorio piu' vasto. Oggi di quella grandezza sono rimasti solo alcuni resti nella vecchia capitale Karakoram, per raggiungere la quale mi imbarcai in un viaggio della speranza a bordo di un fuoristrada tenuto insieme per miracolo e il cui abitacolo era pieno zeppo di mosche, che di notte si schiacciavano contro i vetri per ridurre la superficie corporea esposta e poi in pieno giorno volavano dappertutto. 
Su Ulanbaataar circolava una grossa fesseria - e cioe' che fosse l'unica capitale mondiale senza McDonald's - e una mezza verita', e cioe' che fosse la piu' fredda del pianeta. Quel che non si diceva era quanti miliardi di mosche riempissero l'aria d'estate. Talmente smaniose da saltarti addosso, cosi' disperatamente voraci, da tuffarsi a corpo morto nella tua bocca pur di rimediare qualcosa da mangiare. Dopo i primi giorni di lotta, alzai bandiera bianca e lasciai che il destino si compisse. 
Il mio, come il loro.
Ne mangiai a pacchi, di mosche, durante il mio periodo di volontariato nella steppa mongola.
Il cibo, d'altra parte, non fu l'aspetto piu' memorabile della vicenda. Gli orfani e i volontari, da quei campi ricavavano quattro ortaggi e quei quattro ortaggi - in quantita' e proporzioni diverse - ci ritrovavamo nel piatto a colazione, pranzo e cena. Senza mai un filo d'olio, una zolletta di zucchero, un granello di sale o un grano di pepe. Nulla di nulla. Patate con un po' di cipolle, rape e carote a colazione, carote e rape con un po' di patate e cipolle a pranzo, cipolle e patate con contorno di carote e rape a cena. Quel che variava era solo la quantita' di mosche che si infilavano in bocca. Il pranzo vinceva quasi sempre, anche perche' ci arrivavo dopo aver lavorato quattro ore nei campi e dopo essermi caricato in spalla sacchi di patate e cipolle trasportandoli tra acquitrini e mandrie di yak.   
Il 'bagno' per le ragazze che scavammo appena oltre il recinto dell'accampamento
Nel primo pomeriggio si concludeva il lavoro nei campi, dopodiche' fino a sera si intrattenevano i  ragazzini con giochi di gruppo, si preparava la cena e si lavorava alla miglioria della struttura. Dopo aver scavato una fossa profonda 5 metri, costruimmo tutt'attorno al buco una casupola di legno che sarebbe diventata il bagno delle bambine. Noi maschietti, invece, per fare pipi' e pupu' dovevamo incamminarci verso l'infinito e oltre, stando ben attenti ad uscire dalla visuale del nostro accampamento senza pero' finire per fare i bisogni nei pressi delle tende dei nomadi che abitavano la zona del ruscello. Al fiume Buhug si attingeva - come tutti gli altri animali della zona - anche per l'acqua. Che era tanto cristallina e potabile quanto fredda da crepare. La raccoglievamo in grossi secchi di metallo e poi la consumavamo per bere, cucinare e lavarci. Spesso di sera, spesso al buio, e sempre quando la temperatura era scesa sotto i 10 gradi e le secchiate gelide ti facevano passare la voglia di vivere. Nonostante cercassi di leggere alla luce della lampada frontale, quando a tarda sera mi stendevo sul materassino poggiato per terra nella yurta, crollavo sfinito dopo mezza pagina. 
Una sera fui esonerato dalla cena a base di cipolle e patate con rape e carote e fui invitato da una famiglia nomade che da poco aveva fatto ritorno nella valle. Il messaggero che mi recapito' la proposta fu un ragazzo che parlicchiava inglese e che era stato uno dei pochissimi abitanti della steppa attorno al fiume Buhug ad essere uscito dai confini nazionali ed essersi spinto fino al Giappone. Milioni di persone cresciute di quella terra verdissima sapevano fin dalla nascita che non avrebbero mai visto il mare, come la stragrande maggioranza dei mongoli. 'Chissa' come vivranno quella sorte, chissa' se sentono il peso dell'impossibilita' di vedere l'elemento piu' presente sulla Terra e chissa' se questo li faccia eventualmente sentire figli un fato minore. E poi chissa' come lo immaginano, l'oceano', mi domandavo. A quel ragazzo, nato nomade in una landa di nomadi, ebbi finalmente l'opportunita' di rivolgere quel quesito. 'Ci hai pensato? Ti sei sentito fortunato? Se e quanto ti ha emozionato quella visione? E che impressione ti ha fatto il mare?', gli chiesi. 
Lui ci penso' qualche istante, volse gli occhi prima al cielo e poi verso l'orizzonte, cercando forse di scavare nella memoria alla ricerca del momento del suo primo incontro con l'oceano. Un evento epocale, pressocche' unico tra i mongoli della sua generazione. Poi mi guardo', accertandosi di aver capito bene la domanda. Infine rispose. 
"Sporco", mi disse. "Il mare era sporco".   
Dopo una cena a base di brodo, pallette di carne e tagliolini annaffiati da latte di yak fermentato, la famiglia mi mostro' l'interno della grande tenda nella quale campeggiava - unico in tutta la valle - un piccolo televisore. Un aggeggio sfrigolante poggiato su una madia vermiglia che ogni sera richiamava a loro i vicini e i vicini dei vicini. Una ventina di persone che si incamminavano nella notte, e dalle yurte che costellavano la steppa si presentavano nella dimora della famiglia che mi stava ospitando. Mentre l'uomo accoglieva gli avventori e sistemava le poche sedie a disposizione davanti al televisorino, la donna mi mostro' il punto in cui avrei trascorso la notte. 
Nella yurta non c'erano ne' letti ne' materassi, ma solo un puzzle di tappeti. L'area a me destinata era quella proprio sotto all'apparecchio. Esausto dopo una giornata passata a zappare nei campi e a riempire sacchi di juta con le patate, avvertivo un impellente bisogno di stendermi. Srotolai il sacco a pelo sul tappeto e mi allungai nella penombra della mobilia. Nonostante la voglia di assecondare la spossatezza, pero', non riuscii a prendere sonno. Quando aprii gli occhi, capii perche'. La luce proiettata dallo schermo, illuminava in bianco e nero i volti dei nomadi mongoli assiepati nella yurta. Invece di guardare l'apparecchio, pero', uomini, donne e bambini erano attratti e rapiti da un altro spettacolo, ancora piu' eccezionale. Lo straniero. Quaranta paia di occhi erano puntati su di me, sdraiato per terra tutto vestito. Risi di gusto. Poi pero' per poter prendere sonno dovetti girarmi verso la madia e ignorarli. Probabilmente passarono la serata a guardarmi il sedere. 
Och, Schauga' e Bahirun
Il giorno dopo tornai nell'accampamento. I ragazzini mi accolsero come se mi fossi allontanato per settimane, come se avessero accusato il distacco e come se non volessero piu' lasciarmi andare. Mi si strinse il cuore. Una ventina di bambini che - oltre alla sfortuna di essere orfani - erano costretti a lavorare nei campi perche' avevano avuto anche la sfortuna di nascere orfani in Mongolia. Quel sistema mi sembrava un accanimento del destino nei confronti di quegli esserini, ma in realta' alternative a quello stato di cose non ce n'erano, e loro certamente non facevano drammi, essendo stato allenati dalla vita a prendere tutto con fatalismo e leggerezza. Del loro futuro sapevo solo che una volta compiuti i 15 anni avrebbero dovuto lasciare l'orfanatrofio e che sarebbero stati catapultati in un mondo al quale non erano stati preparati. Alcuni avrebbero potuto trovare alloggio, almeno temporaneamente, presso i parenti. Ma al pensiero che molti di quei bambini sarebbero finiti per strada mi veniva un nodo alla gola. 
Delle loro storie conoscevo solo la cornice. Alcuni avevano perso entrambi i genitori, altri erano stati abbandonati, altri ancora erano stati strappati alla violenza domestica o erano stati affidati ai servizi sociali dopo che uno dei genitori era finito in carcere. Alcuni - come Sembe' - portavano sul volto i segni dei traumi vissuti. Altri, come Och, li seppellivano sotto un sorriso solare sempre stampato sul volto. Solo il piccolo Bahirun si esprimeva decentemente in inglese. Per tutti gli altri la comunicazione era soprattutto una questione non verbale fatta di sguardi, di gesti, di buffetti, di risate, di parole smozzicate. 
Tonga, Otoh, Orna', Bahirun - in alto - e Sembe'
Il mio compito non era tanto quello di aprire una finestrella sul mondo, ma di rendere per qualche tempo piu' colorate le loro giornate, magari riempiendole con quel calore umano del quale erano stati privati. Di farli ridere di pancia. Gli orfanelli di Ulaanbataar non avevano idea di quel che fosse la mia vita, e men che meno di come e perche' fossi arrivato fin li', ma coglievano l'assurdita' della situazone quando restavo impantanato con 15 chili di patate sul groppone e chiedevo aiuto circondato da una mandria di yak. O di quando mi trascinavano in partite di pallavolo al tramonto e poi col buio dovevo togliermi il fango di dosso a secchiate di acqua gelida. In quei frangenti, gli orfanelli percepivano chiaramente che ero li' per loro. Una sensazione che avevano vissuto raramente nella loro breve esistenza. E che decisero di assecondare a modo loro. 
L'ultima sera un paio di bambini mi distrassero con una scusa, mentre Schauga' entro' nella yurta e rovisto' nello zaino che avevo appoggiato tra il materasso e la tenda per bloccare gli spifferi. Dentro l'Invicta viola trovo' quattro libri, un walkman e una mezza dozzina di musicassette, quelle con le compilation che scandivano gli anni accompagnando i viaggi. Schauga' prese il registratore, inseri' il best of '98-'99 e porto' il bottino nella casupola nella quale dormivano gli orfani piu' piccoli. Me ne accorsi il giorno dopo, mentre il treno attraversava la Mongolia interna. Vedevo scorrere il deserto del Gobi al ritmo dei Red Hot Chilli Peppers col naso attaccato al finestrino, quando la voce di Anthony Kiedis venne interrotta da quella di Bahirun seguita da quelle di Tonga e Orna'. Otoh farfuglio' qualcosa prima che Schauga' gli sottraesse il walkman sullo sfondo delle risatine di Och. E persino Sembe' volle dire la sua.
I bambini - nessuno escluso - avevano trascorso l'ultima notte registrando dei messaggi sulla mia cassetta. Alcuni lo avevano fatto individualmente, altri in gruppo, alcuni suonavano impacciati, altri spassosi, altri ancora timidi, tristi o seriosi. Solo quello di Bahirun era in inglese, gli altri erano un misto di mongolo e di parole a casaccio. Comunque sia, erano messaggi di ringraziamento e di addio. 
E io non riuscii a trattenere le lacrime. 

martedì 11 maggio 2021

Mamma, ho perso l'aereo

All'aeroporto di Pechino c'era tutto. Tutto a parte il volo - anzi l'aereo, anzi proprio tutta la compagnia aerea - che doveva riportarmi a casa dopo quel mese e mezzo di viaggio. In tasca avevo una carta di credito che non funzionava e giusti giusti gli spicci per chiamare i miei da un telefono pubblico. Li svegliai alle prime luci dell'alba. "Non mi aspettate, perche' domani non arrivo", dissi a mio padre, ancora semi incosciente. Poi la cornetta emise un plop e la comunicazione cadde.
Quel viaggio era partito male. Il primo volo - Roma-Zurigo - aveva ritardato di un'ora, e se ero riuscito a salire sul successivo Zurigo-Mosca lo dovevo solo ad una corsa da quattrocentrista. Ero schizzato fuori dal velivolo al momento dell'apertura del portellone e ed ero arrivato appena in tempo sull'aereo diretto verso la capitale russa, per cui non mi capacitai di come fu possibile che in Russia arrivo' anche il mio bagaglio imbarcato nella stiva. Il volo Swiss atterrava a Shemeretyevo, il principale scalo moscovita, da cui avrei dovuto raggiungere Domodedovo, un altro degli altri 4 aeroporti della citta'. Quello distante 80km. 
Le acrobatiche operazioni di pulizia del treno
Considerando che da Domodedovo mi sarei dovuto imbarcare a bordo di un volo della Pulkovo airline e che esattamente un anno prima, il 28 luglio 2002, lo stesso volo Mosca-San Pietroburgo della Pulkovo in partenza da Domodedovo si era schiantato al suolo provocando la morte di tutte le persone a bordo tranne due, che nel 2006 le vittime dello schianto di un altro volo Pulkovo saranno 170 e che anche quell'aeromobile sul quale salii nel luglio 2003 era decrepito, con i sedili ridotti a brandelli e gente che a bordo fumava impunemente, m'ero gia' sentito fortunato di aver portato la pellaccia a San Pietroburgo.
Dopodiche' ci sarebbero stati i marpioni di Mosca, la Transiberiana, l'accampamento con i bambini nella steppa mongola e l'ultima settimana piena a Pechino e dintorni, con una gita nel tratto piu' autentico e pericolante della Grande Muraglia, a Simatai. La capitale cinese non era ancora diventata una meta del turismo di massa e tanto i locali quanto i visitatori provenienti dal resto della Cina non nascondevano la sorpresa e l'emozione di fronte al primo muso di etnia non Han che incrociavano. nella loro esistenza 
Il Paese era ancora alle prese con i postumi della SARS, ma Pechino mi offri' edifici splendidi e gente entusiasta, saccapelisti in gamba e cibo buonissimo a buon prezzo. Tutto quello che potevo desiderare alla fine di un viaggio cosi' lungo e intenso che giunse al suo epilogo la mattina di Ferragosto del 2003.  
Con le ultime banconote avevo saldato il conto dell'ostello e mi ero diretto in pullman verso l'aeroporto, da dove sarei rientrato a Roma via Zurigo. 
Il tabellone all'ingresso del Terminal indicava che il check-in del volo Swiss Air era previsto al banco 19. Mancavano due ore e mezza alla partenza, ma al counter non c'era nessuno. Pensai dipendesse dal fatto che gli assistenti di terra non erano ancora pronti e che quindi i passeggeri in partenza si fossero accomodati altrove. Ma quando al decollo mancavano due ore e al bancone non c'era ancora l'ombra dello staff e dei passeggeri, scatto' il primo campanello d'allarme.      
"Sa mica se questa informazione e' corretta?", chiesi ad un dipendente dello scalo indicando il monitor sopra il bancone del check-in.
"Si'", rispose.
Dopo 8 giorni a Pechino avevo capito che non significava nulla. Se gli asiatici non amano dire di no, ne' come diniego ne' come ammissione di ignoranza, i cinesi sono asiatici al cubo. 
Capaci di rispondere si' a qualsiasi domanda, a prescindere.
Anche al banco informazioni mi rassicurarono, confermando che il volo era in partenza e che il check-in era previsto al counter 19, come riportato sopra di noi dal tabellone delle partenze. Inutile provare a spiegare loro che al 19 non c'era nessuno, e che al volo mancava ormai un'ora e mezza e che nella migliore delle ipotesi il check-in era stato spostato altrove. Ne controllai un bel po', senza trovare quel che cercavo. 
"E' impossibile che abbiano spostato il check-in senza avvisare tutti", mi dissi.
"E' impossibile anche che abbiano cancellato un volo senza avvisare tutti", aggiunsi.
"Pero' quel che e' possibile, e' che abbiano cancellato un volo senza avvisare ME".
Mi misi alla ricerca dell'ufficio della Swiss Air che trovai, grazie all'indicazione di un uomo delle pulizie, in fondo ad un corridoio stretto pieno di scatoloni. Era chiuso, e sulla porta a vetri oscurata dall'interno, c'erano appesi annunci che risalivano ad alcuni mesi prima. 
Tutta colpa della SARS. L'epidemia di polmonite era stata scoperta a Guangdong da un medico italiano nel novembre 2002 e aveva ucciso 770 persone in 17 Paesi, contagiando migliaia di persone soprattutto in Cina. Il terrore di quel coronavirus aveva ridotto dell'80% il numero di passeggeri su quella tratta, pertanto la Swiss Air a fine maggio aveva deciso di sospendere i collegamenti con Pechino almeno fino a meta' agosto e poi era passata alla fase successiva, chiudendo l'ufficio cinese. Per quale motivo nessuno mi avesse informato era un mistero. 
Come ne sarei uscito, invece, un grosso punto interrogativo.
In quel momento, dal tabellone elettronico scomparve il riferimento al mio volo. E in attesa di decidere cosa fare, utilizzai le ultime monetine per telefonare a mio padre.
L'ultima volta risaliva al viaggio in Libano, quando avevo chiamato i miei genitori per avvisarli che le bombe israeliane cadute sulla mia testa avevano fatto la barba al palo. L'anno seguente, avevo evitato di contattarli quando ero finito nell'occhio del ciclone della sommossa popolare in Nepal, ma il TG5 mi aveva preceduto e aveva spiattellato la notizia in prima pagina. Come mi muovevo sbagliavo, ma a quel punto intui' che l'unica certezza e' che non sarei atterrato a Roma quando avevo previsto e che certamente non li avrei raggiunti in Sicilia nei tempi concordati. Mio padre era ancora nel dormiveglia, la conversazione duro' 20 secondi, dopodiche' mi ritrovai a valutare le prossime mosse.
Non m'ero mai trovato in quella situazione e non avevo mai sentito nessuno raccontare circostanze analoghe, ma mi sembrava pressocche' scontato che la Swiss si sarebbe dovuta assumere le sue responsabilita' e che mi avrebbe per lo meno rimborsato il ritorno a casa. Andai pertanto alla biglietteria e puntai un volo KLM in partenza dopo qualche ora. Mi chiesero 800 euro one-way, in pratica il budget di tutto il viaggio. Tirai fuori la carta di credito e il lettore me la rifiuto'. Tre volte. 
"Non posso farci niente, mi disse l'operatore".
L'affare s'ingrossava.
Bloccato all'aeroporto di Pechino senza un volo per casa e senza un'autorita' che si facesse carico delle sue responsabilita', mi ritrovavo anche senza un euro in tasca e impossibilitato ad attingere ai miei fondi.
"Annamo bene", dissi. 
Qualunque fosse il problema della carta, non avrei potuto risolverlo in aeroporto. Non mi restava che tornare in citta' e rifugiarmi nell'ostello. Per farlo, avendo terminato tutti i contanti e non potendo usare la VISA, dovetti anche fare autostop, pratica altamente illegale in Cina.
Prima pero' mi assicurai che l'indomani sarei potuto uscire dal Paese, cioe' bloccai un volo in partenza il giorno seguente. In cambio mi impegnai con il bigliettaio a presentarmi l'indomani con i contanti, una garanzia per lui che la transazione sarebbe andata in porto e per me una speranza che la carta avrebbe ripreso a funzionare.
Marco, Erik ed io nella camerata del backpackers di Pechino
Nel backpackers trovai uno dei ragazzi con i quali avevo stretto maggiormente quella settimana. Marco Fumian era un essere squisito e una volta laureato in lingue e letterature orientali, con il suo mandarino fluente aveva deciso di stabilirsi nel Regno di Mezzo. Si era appena alzato quando, con sua somma sorpresa, mi vide rispuntare dalla porta di servizio. Gli spiegai per sommi capi la vicenda, poi tramite il suo telefono riuscimmo a parlare con un operatore italiano della VISA, il quale all'alba del 15 agosto non impiego' neanche tanto per rendersi conto che la carta non aveva funzionato in aeroporto perche' non era stata sbloccata correttamente. Ci penso' lui, e Marco mi accompagno' all'ATM piu' vicino, dal quale ritirai l'equivalente di 800 euro: 80 banconote da 100 yuan/reminbi che nel portafoglio ci stavano appena.
'Tutto e' bene quel che finisce bene", si lascio' scappare quando tornammo in ostello.
Oltre a Marco, avevo fatto la conoscenza di una ragazza israeliana, Ayelet, ma soprattutto avevo stretto profondamente con una coppia di belgi con i quali avevo condiviso per 4 giorni lo scompartimento tra Mosca e Irkutsk, e che poi - dopo il periodo di volontariato in Mongolia - mi erano venuti persino a prendere alla fine della Transiberiana al mio arrivo a Pechino. Erik e Nele (alias Merete) erano diventati praticamente compagni di viaggio e - nonostante fossero una coppia - mi avevano persino invitato a dividere con loro la camera privata dell'ostello. Le affinita', pero', finivano li'. In quel momento emersero tutte le nostre profonde differenze culturali.
"Ma che sei matto??? Non esi-ste!". Quando raccontai loro come avevo risolto il problema, sbottarono.
Se io, da cittadino 27enne italiano avevo interiorizzato e fatto mio il concetto di disservizio, se ero stato talmente abituato alle storture del sistema che non avevo ne' lo stimolo, ne' la voglia ne' la determinazione di oppormi al fato e di far valere i miei diritti, loro venivano invece da un Paese agli antipodi.
"Domattina ci svegliamo all'alba e andiamo nell'ufficio Air China", mi dissero dopo aver spulciato internet alla ricerca di informazioni sulla consorella della Swiss.
"Loro ti DEVONO portare a casa", dissero.
L'indomani alle 8 in punto eravamo negli uffici della compagnia aerea di bandiera cinese, ricevuti da una giovane donna distinta. Piu' io le chiedevo umilmente di risolvere il problema, piu' Erik e Nele alzavano la voce e la posta. Alla lunga ottennero quel che secondo loro mi spettava, ma tirarono la corda oltre misura. 
"In base alla norma dell'aviazione civile e dei contratti sottoscritti al momento dell'acquisto dei biglietti, non siamo tenuti a portarla a casa ma a offrirle un'alternativa - disse la donna -. Quel che posso proporti e' un volo Air France in partenza fra 3 ore e mezza. Prendere o lasciare". Ovviamente presi e uscimmo dall'ufficio. Prima di andare in aeroporto, pero', avevo un'ultima incombenza: dovevo cambiare in euro tutte quelle banconote cinesi, con le quali non avrei fatto nulla e che in Europa venivano viste ancora come carta straccia. Mi misi in fila in una banca, per poi sentirmi dire alla fine di una lunga attesa che "l'istituto poteva vendere yuan, ma non acquistarli".  
Calcetto a piazza Tienanmen con la gioventu' locale
Mi restava un malloppo da 800 euro in valuta cinese col quale avrei potuto fare tanta birra.
 "Te li prendiamo noi". A togliere ancora le castagne dal fuoco fu l'amico belga. Lui e la compagna avrebbero viaggiato per l'Asia per un anno intero e avrebbero trascorso almeno un mese in Cina. Quei contanti gli potevano tornar comodi. Ovviamente non avevano euro a portata e di mano, altrettanto ovviamente io avevo fretta, per cui non mi restava che fidarmi dell'amicizia che avevamo stabilito nell'ultimo mese, allungare loro tutti i soldi, salutarli calorosamente e scappare in aeroporto. Come all'andata, arrivai trafelato a bordo dell'aeromobile diretto a Parigi. Mi sistemai nella fila di destra, accanto a mamma e figlia di origine kazaka, e appena l'aereo decollo', sospirai. 
Nel farlo, mi tolsi anche le scarpe.
In quell'istante, dai tre bocchettoni sopra le nostre teste, comincio' a fuoriuscire un'aria fetida, una via di mezzo tra il marcetto teramano e il bruss del piemonte. Mentre mi impegnavo ad interrompere almeno il getto diretto verso di me, notai che madre e figlia sbirciavano i miei piedi mugugnando. Poco a poco quel bofonchio divento' un brontolio e si allargo' a macchia d'olio nella pancia dell'aereo. Pochi minuti e decine di persone alzarono la voce, additandomi come il responsabile di quell'olezzo e intimandomi in mandarino di rimettermi le scarpe. Fu inutile provare a spiegare che non era umanamente possibile produrre quel puzzo di casu marzu e caciocavallo. Feci prima a rimettere le scarpe provando dopo qualche minuto a dimostrare che le mie scarpe erano si' sprofondate nella merda di yak, ma intanto erano passate due settimane e poi l'eventuale fetore non sarebbe certamente stato sparato in faccia da un getto d'aria. 
Ero appena stato vittima di un episodio di razzismo.
A Parigi rimasi 3 ore, che poi divennero 5. L'aereo accumulo' un enorme ritardo in partenza e nonostante questo riuscirono a perdere il mio bagaglio, - una specie di contrappasso dopo il miracolo dello zaino arrivato a Shemeretyevo. Sulla scaletta, un'hostess esperta mi diede il benvenuto a bordo del volo Alitalia.
"Anche tu sei stato a Disneyland?", mi chiese. Feci per rispondere, ma non seppi da dove cominciare. 
Atterrato a Roma dopo le 10 di sera, aspettai invano il mio Invicta, poi dovetti sporgere denuncia di smarrimento. "Quando arriva, dove lo spediamo?", mi chiese l'addetto al lost&found.
Era una bella domanda. Ero esausto, ma nonostante tutto l'indomani avrei cercato in ogni modo di raggiungere i miei a Kamarina. Se fossi partito, l'indirizzo di casa sarebbe stato inutile, mentre quello del villaggio in provincia di Ragusa suonava piu' o meno 'Contrada Randello, provinciale 85'. Quello zaino aveva bazzicato mezzo mondo, ma non sarebbe mai arrivato tutto intero in quel vicolo cieco perpendicolare alla strada tra Scoglitti e Punta Braccetto. Optai allora per il pied-a-terre di mio zio. Il quale aveva i suoi impicci, tant'e' che l'Invicta finira' per fare su e giu' quattro volte tra l'aeroporto e via Cerveteri senza essere mai consegnato. Quando finalmente lo recuperai, due settimane dopo, dalle sue viscere emerse qualcosa di simile all'aria del bocchettone del volo Air China. Ma stavolta c'entrava davvero lo yak.  
L'Invicta viola all'arrivo a Pechino
Scopriro' solo uscendo dall'aeroporto che proprio quella sera l'amica Chiara Zucchina aveva deciso di pianificare il futuro con l'amico Giancarlo il Biondo e che poi - presa dal panico - non se l'era sentita di guidare fino a Fiumicino. Scopriro' solo dopo che i collegamenti con la citta' terminavano a mezzanotte, per cui mi tocchera' trovare un passaggio gratis per il centro e poi da li' incamminarmi fino a casa. Dove arrivero' alle 2 di notte e mi trovero' - nell'ordine - a bacchettare Chiara, ad aggiornare i miei genitori per piu' di 20 secondi, a inviare una mail ai belgi con i dettagli del mio conto e un'altra alla Swiss Air chiedendo lumi sul misfatto, a cercare la sponda di mia sorella e soprattutto un volo per Catania che comportera' il rimettersi in marcia gia' l'indomani all'alba. 
No, non ero stato a Disneyland. Ma a modo mio mi ero divertito un mondo.
Kamarina 2003 - Lupin ed io, reduce dalla Transiberiana 

P.s. Mentre mi trovavo da qualche parte tra Pietroburgo e Pechino, il direttore artistico di una radio aveva cercato di raggiungermi telefonicamente. Non avevo risposto per il banale motivo che solo 10 anni dopo mi sarei deciso a viaggiare con un cellulare. Lo avevo richiamato solo a fine agosto, dopo essere rientrato dalla coda estiva a Kamarina. Essendo ormai in dirittura d'arrivo il mio percorso universiario, avevo accettato la proposta dell'emittente ad una condizione: che mi venisse concesso tempo per svolgere ricerche per la mia tesi di laurea. Essendo il tema molto fresco e mancando un'adeguata bibliografia al riguardo, avrei dovuto svolgere le ricerche sul campo. E trattandosi di una tesi di laurea dal titolo Le conseguenze sociali della crisi in Argentina, il 12 novembre 2003 sarei partito partito per Buenos Aires assentandomi dal lavoro per un mese e mezzo. Swiss Air mi inviera' una lettera di scuse molto poco sentite e accompagnate da un buono da 150 franchi da spendere su uno dei loro voli entro 100 giorni. Non lo utilizzero' mai.