La ferrovia piu' lunga del mondo fu costruita grazie all'opera incessante di 90mila uomini, che a partire dal 31 maggio 1891 sistemarono binari e milioni di traversine nella taiga al ritmo di 70km al mese. Tra di loro soldati esiliati, contadini siberiani e coscritti stranieri - italiani, tedeschi, coreani, soprattutto cinesi e giapponesi - pagati un rublo e 76 copechi al giorno. Fondamentale fu anche l'apporto di migliaia di prigionieri, che lavorarono in condizioni climatiche probitive ma riuscirono terminare l'opera all'inizio del XX secolo. La Grande Magistrale Siberiana fu presentata all'esposizione Universale del 1900 assieme alla torre Eiffel, al cinematografo dei fratelli Lumiere, alle Olimpiadi di de Coubertin e alla metro di Parigi e aprii i battenti il 14 luglio 1903. Cento anni dopo, dopo aver recuperato lo zaino sulla banchina della stazione di Mosca, presi possesso di uno degli scompartimenti di seconda classe assieme ad una coppia di viaggiatori fiamminghi e a Cristiana, un'amica veneta.
Con i suoi 9288km, meno del 20% dei quali ad ovest degli Urali e il restante nella Russia asiatica, la Transiberiana era servita nei prmi anni della sua storia soprattutto per ridurre i tempi del trasporto merci tra San Pietroburgo e Tokyo, per popolare la sterminata steppa siberiana (dove lo zar Nicola aveva invitato cinque milioni di contadini a trasferirsi con l'incentivo di terre assegnate loro gratuitamente) e per il trasporto rapido delle truppe sul fronte occidentale durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma quelle rimasero le eccezioni. La strada ferrata non divenne mai la prima scelta, ne' per il trasporto delle merci - meno del 10% dei container che vengono dall'Oriente e meno di un terzo delle esportazioni russe transitano per quei binari - ne' per quello delle persone.
Eppure, a bordo di quel treno c'era un'umanita' incredibilmente varia.
Intanto dal punto di vista dei popoli: la Federazione russa conta circa 200 razze. Il che, se sul piano della gestione delle diversita' significa opporre il pugno di ferro per placare le derive separatiste, le rivendicazioni di autonomia e le velleita' di indipendenza, sul piano etnografico equivale ad una manna dal cielo. Oltre ai piu' noti - gli Armeni, i Georgiani, i Kazaki, i Bielorussi, gli Ucraini, i Tagiki, gli Uzbeki, i Turkmeni, i Kirghisi, i Ceceni e i Tatari - in quel territorio vasto come tutto il SudAmerica s'erano sviluppate lingue e culture diversissime tra di loro. Popolazioni prima radicate nei deserti o tra i ghiacci, tra le steppe o tra le montagne, nel corso dei secoli erano state rimescolate dalle migrazioni spontanee e da quelle forzate, dai conflitti, dalle invasioni e dalle calamita', dagli zar, dai soviet e dalle guerre. Gli Osseti, gli Abkhazi, i Daghestani, i Ciuvaschi, i Cumucchi, gli Ingusci, i Cabardino-Balcari, i Baschiri, gli Jakuti, i Mordvini, i Tarati, i Nogai, i Buriati, i Karakalpaki e decine di altri popoli, i cui nomi danno da soli l'idea del mosaico di razze che convive sotto la bandiera russa.
Quel treno ne offriva un campione, per ammirare il quale bisognava pero' scendere nella pancia della terza classe, dove non esistevano scompartimenti, dove tutto succedeva alla luce del sole, dove i letti diventavano bivacchi, i tavolini si perdevano sotto montagne di scatole e bicchieri di vodka, dove i samovar con l'acqua calda si trasformavano in luoghi di ritrovo e dove - con lo scorrere dei chilometri e il passare delle ore - tutto assumeva i contorni di una vivacissima piazzetta di paese, nella quale l'odore stomachevole di maionese e cetrioli si mescolava allegramente al puzzo di piedi.
Che aumentava, pure quello, col passare dei chilometri.
Mosca e Irkutsk sono separate da 5000 chilometri e da 5 fusi orari. Ogni mattina e ogni sera l'orologio andava spostato avanti di una o di due ore e le giornate finivano per accorciarsi sempre di piu'.
O forse era il fascino di quel convoglio, popolato da decine di studenti fuori sede, pendolari, semplici cittadini in ferie o che andavano a far visita a parenti distanti migliaia di chilometri. Tutti portatori di storie da romanzo, come la ragazza tatara che rientrava da Sochi, sul mar Nero, e che alla fine delle vacanze avrebbe passato piu' tempo sul treno che al mare. O come quella giovane mongola portata dagli arabeschi del destino a frequentare la facolta' di medicina all'universita' di Budapest e che tornava a casa una volta all'anno. Di ognuno cercavo di carpire la vicenda e i suoi risvolti, da ognuno cercavo di carpire parole e sorrisi, da ognuno cercavo di imparare qualcosa.
Attraversare quella gigantesca fetta di Asia costellata di luoghi dannatamente affascinanti come Ekaterinburg e Krasnojarsk o solo di recente strappati dall'uomo alla natura come Omsk e Novosibirsk, sapeva di occasione persa. Ma quel che mi premeva era sperimentare la vita a bordo del treno, intavolare conversazioni con le mille anime della Russia interna, regalarmi l'esperienza del tempo in movimento attraverso i panorami desolati della Siberia. Dopodiche', nel pomeriggio del quarto giorno, i belgi, Cristiana ed io scendemmo a Irkutsk. Prima di separarci, trascorremmo l'ultima notte nella citta' di Michele Strogoff sul lago Bajkal. Piu' ancora di San Pietroburgo, Mosca e Pechino, infatti, avevo studiato quel percorso con l'obiettivo di raggiungere la Mongolia.
Se per il visto russo e per quello cinese era servito un plico di documenti e tanta mira per calibrare la richiesta dell'uno nei tempi giusti per poter recuperare il passaporto e consegnarlo all'ambasciata dell'altro, il lasciapassare per la Mongolia era stato il piu' difficile che avessi dovuto rimediare fino a quel momento. Non solo dovetti spedire a Trieste il mio documento valido per l'espatrio, ma dovetti allegare anche l'invito di un'autorita' di Ulaanbataar. Un pezzo di carta che ottenni dopo varie ricerche che mi fu spedito da un ragazzo di nome Bataar. Fu lui che mi venne a prendere in stazione.
Date le dimensioni del territorio, la carenza di infrastrutture adeguate, le strade in condizioni pessime, la barriera linguistica e tutto sommato anche la tipologia e la natura delle sue attrazioni, la Mongolia mi sembrava una nazione che avrei fatto fatica a vedere, figuriamoci a capire. Per immergermi il piu' possibile nella realta' locale, dovevo cambiare paradigma: smettere i panni del globetrotter ipercinetico e per provare a vivere e conoscere il Paese dal basso, come non facevo da anni, dalle esperienze in Bosnia, in Olanda e in Albania. Cioe' da volontario.
L'orfanatrofio della capitale disponeva di fondi limitati in rapporto ai bambini che ospitava. D'estate, gli adolescenti tra i 10 e i 13 anni venivano per questo trasferiti in una casetta nella steppa, non lontano dal fiume Buhug, dove era stato allestito un accampamento e dove i ragazzini lavoravano nei campi, coltivando patate, carote, rape e cipolle. Quei prodotti sarebbero serviti per dar da mangiare a loro e sarebbero stati venduti al mercato di Ulaan Bataar, contribuendo cosi' a rimpinguare le magre casse dell'orfanatrofio. A loro, nell'estate del 2003, mi unii anch'io.
Prima, pero', trascorsi un paio di giorni ad Ulaanbaatar.
Anziani giocano a domino a Ulanbataar |
Cresciuta a partire dal nucleo originario rappresentato da un monastero del 1639, la citta' era stata chiamata Urga fino al 1924, quando era stata poi ribattezzata in onore di Damdiny Such, l'Eroe - Bataar - Rosso - Ulan, il condottiero militare e politico che aveva guidato il popolo mongolo alla rivoluzione e all'indipendenza da Pechino e che forse era morto avvelenato. In una terra vasta e disabitata, senza sbocco sul mare e stretta tra la Russia e la Cina, cioe' tra il Paese piu' grande e quello piu' popoloso del pianeta, la Mongolia era destinata a vendersi al miglior offerente. Strappata l'autonomia all'una aveva l'obbligo di cercare protezione nell'altra grande superpotenza regionale. Cosi' negli anni Quaranta del XX secolo, Ulaanbataar era entrata nell'orbita dell'URSS non solo politicamente e ideologicamente, ma anche linguisticamente: l'idioma locale - buono giusto per il khoomei, il canto armonico gutturale in falsetto - sarebbe da allora stato trascritto con l'alfabeto cirillico, arricchito da un paio di caratteri creati ad hoc, col risultato di allargare ulteriormente la forbice tra le parole scritte e il loro suono. Con inevitabili ripercussioni sulla comunicazione.
TuvshinJargaghan, il monaco incontinente |
Il monaco che mi si avvicino' mentre ingurgitavo un piattone di tuivan, i tipici tagliolini mongoli, per esempio provo' a spiegarmi le sue intenzioni. Si chiama TuvshinJargaghan. Con la J da aspirare. Il nome me lo feci ripetere tre volte, mentre uscii assieme a lui dalla bettola di Ulaanbataar nella quale mi aveva intercettato e dove mi aveva invitato a seguirlo. Lui non parlava altra lingua al di fuori del mongolo, io facevo quel che potevo, cioe' poco. Ma il modo in cui aveva attirato la mia attenzione e quello con cui mi aveva invitato ad accompagnarlo, indicava che come minimo mi avrebbe mostrato un passaggio segreto per esplorare i sotterranei del Choijin Lama, il principale tempio buddista della citta'. Quando girammo l'angolo, pero', TuvshinJargaghan spari' in un bagno chimico, facendomi cenno di aiutarlo a tenere chiusa la porta di plastica. E poi si offri' di fare lo stesso con me. Di incontri come quello, ne feci decine ad Ulaanbataar, senza mai arrivare neanche a capire il nome del mio interlocutore.
Otto secoli prima, Gengis Khan s'era lanciato alla conquista degli orizzonti conosciuti, e nel giro di pochi decenni i cavalieri mongoli erano arrivati ad assoggettare tutte le regioni che andavano dalla Corea alla Polonia, da Vladivostok alla Turchia. Nel suo apogeo, alla fine del XIII secolo, l'impero mongolo era esteso 24 milioni di chilometri quadrati e contava cento milioni di abitanti. Solo quello Britannico dopo il 1870 avrebbe dominato su un territorio piu' vasto. Oggi di quella grandezza sono rimasti solo alcuni resti nella vecchia capitale Karakoram, per raggiungere la quale mi imbarcai in un viaggio della speranza a bordo di un fuoristrada tenuto insieme per miracolo e il cui abitacolo era pieno zeppo di mosche, che di notte si schiacciavano contro i vetri per ridurre la superficie corporea esposta e poi in pieno giorno volavano dappertutto.
Su Ulanbaataar circolava una grossa fesseria - e cioe' che fosse l'unica capitale mondiale senza McDonald's - e una mezza verita', e cioe' che fosse la piu' fredda del pianeta. Quel che non si diceva era quanti miliardi di mosche riempissero l'aria d'estate. Talmente smaniose da saltarti addosso, cosi' disperatamente voraci, da tuffarsi a corpo morto nella tua bocca pur di rimediare qualcosa da mangiare. Dopo i primi giorni di lotta, alzai bandiera bianca e lasciai che il destino si compisse.
Il mio, come il loro.
Ne mangiai a pacchi, di mosche, durante il mio periodo di volontariato nella steppa mongola.
Il cibo, d'altra parte, non fu l'aspetto piu' memorabile della vicenda. Gli orfani e i volontari, da quei campi ricavavano quattro ortaggi e quei quattro ortaggi - in quantita' e proporzioni diverse - ci ritrovavamo nel piatto a colazione, pranzo e cena. Senza mai un filo d'olio, una zolletta di zucchero, un granello di sale o un grano di pepe. Nulla di nulla. Patate con un po' di cipolle, rape e carote a colazione, carote e rape con un po' di patate e cipolle a pranzo, cipolle e patate con contorno di carote e rape a cena. Quel che variava era solo la quantita' di mosche che si infilavano in bocca. Il pranzo vinceva quasi sempre, anche perche' ci arrivavo dopo aver lavorato quattro ore nei campi e dopo essermi caricato in spalla sacchi di patate e cipolle trasportandoli tra acquitrini e mandrie di yak.
Il 'bagno' per le ragazze che scavammo appena oltre il recinto dell'accampamento |
Nel primo pomeriggio si concludeva il lavoro nei campi, dopodiche' fino a sera si intrattenevano i ragazzini con giochi di gruppo, si preparava la cena e si lavorava alla miglioria della struttura. Dopo aver scavato una fossa profonda 5 metri, costruimmo tutt'attorno al buco una casupola di legno che sarebbe diventata il bagno delle bambine. Noi maschietti, invece, per fare pipi' e pupu' dovevamo incamminarci verso l'infinito e oltre, stando ben attenti ad uscire dalla visuale del nostro accampamento senza pero' finire per fare i bisogni nei pressi delle tende dei nomadi che abitavano la zona del ruscello. Al fiume Buhug si attingeva - come tutti gli altri animali della zona - anche per l'acqua. Che era tanto cristallina e potabile quanto fredda da crepare. La raccoglievamo in grossi secchi di metallo e poi la consumavamo per bere, cucinare e lavarci. Spesso di sera, spesso al buio, e sempre quando la temperatura era scesa sotto i 10 gradi e le secchiate gelide ti facevano passare la voglia di vivere. Nonostante cercassi di leggere alla luce della lampada frontale, quando a tarda sera mi stendevo sul materassino poggiato per terra nella yurta, crollavo sfinito dopo mezza pagina.
Una sera fui esonerato dalla cena a base di cipolle e patate con rape e carote e fui invitato da una famiglia nomade che da poco aveva fatto ritorno nella valle. Il messaggero che mi recapito' la proposta fu un ragazzo che parlicchiava inglese e che era stato uno dei pochissimi abitanti della steppa attorno al fiume Buhug ad essere uscito dai confini nazionali ed essersi spinto fino al Giappone. Milioni di persone cresciute di quella terra verdissima sapevano fin dalla nascita che non avrebbero mai visto il mare, come la stragrande maggioranza dei mongoli. 'Chissa' come vivranno quella sorte, chissa' se sentono il peso dell'impossibilita' di vedere l'elemento piu' presente sulla Terra e chissa' se questo li faccia eventualmente sentire figli un fato minore. E poi chissa' come lo immaginano, l'oceano', mi domandavo. A quel ragazzo, nato nomade in una landa di nomadi, ebbi finalmente l'opportunita' di rivolgere quel quesito. 'Ci hai pensato? Ti sei sentito fortunato? Se e quanto ti ha emozionato quella visione? E che impressione ti ha fatto il mare?', gli chiesi.
Lui ci penso' qualche istante, volse gli occhi prima al cielo e poi verso l'orizzonte, cercando forse di scavare nella memoria alla ricerca del momento del suo primo incontro con l'oceano. Un evento epocale, pressocche' unico tra i mongoli della sua generazione. Poi mi guardo', accertandosi di aver capito bene la domanda. Infine rispose.
"Sporco", mi disse. "Il mare era sporco".
Dopo una cena a base di brodo, pallette di carne e tagliolini annaffiati da latte di yak fermentato, la famiglia mi mostro' l'interno della grande tenda nella quale campeggiava - unico in tutta la valle - un piccolo televisore. Un aggeggio sfrigolante poggiato su una madia vermiglia che ogni sera richiamava a loro i vicini e i vicini dei vicini. Una ventina di persone che si incamminavano nella notte, e dalle yurte che costellavano la steppa si presentavano nella dimora della famiglia che mi stava ospitando. Mentre l'uomo accoglieva gli avventori e sistemava le poche sedie a disposizione davanti al televisorino, la donna mi mostro' il punto in cui avrei trascorso la notte.
Nella yurta non c'erano ne' letti ne' materassi, ma solo un puzzle di tappeti. L'area a me destinata era quella proprio sotto all'apparecchio. Esausto dopo una giornata passata a zappare nei campi e a riempire sacchi di juta con le patate, avvertivo un impellente bisogno di stendermi. Srotolai il sacco a pelo sul tappeto e mi allungai nella penombra della mobilia. Nonostante la voglia di assecondare la spossatezza, pero', non riuscii a prendere sonno. Quando aprii gli occhi, capii perche'. La luce proiettata dallo schermo, illuminava in bianco e nero i volti dei nomadi mongoli assiepati nella yurta. Invece di guardare l'apparecchio, pero', uomini, donne e bambini erano attratti e rapiti da un altro spettacolo, ancora piu' eccezionale. Lo straniero. Quaranta paia di occhi erano puntati su di me, sdraiato per terra tutto vestito. Risi di gusto. Poi pero' per poter prendere sonno dovetti girarmi verso la madia e ignorarli. Probabilmente passarono la serata a guardarmi il sedere.
Il giorno dopo tornai nell'accampamento. I ragazzini mi accolsero come se mi fossi allontanato per settimane, come se avessero accusato il distacco e come se non volessero piu' lasciarmi andare. Mi si strinse il cuore. Una ventina di bambini che - oltre alla sfortuna di essere orfani - erano costretti a lavorare nei campi perche' avevano avuto anche la sfortuna di nascere orfani in Mongolia. Quel sistema mi sembrava un accanimento del destino nei confronti di quegli esserini, ma in realta' alternative a quello stato di cose non ce n'erano, e loro certamente non facevano drammi, essendo stato allenati dalla vita a prendere tutto con fatalismo e leggerezza. Del loro futuro sapevo solo che una volta compiuti i 15 anni avrebbero dovuto lasciare l'orfanatrofio e che sarebbero stati catapultati in un mondo al quale non erano stati preparati. Alcuni avrebbero potuto trovare alloggio, almeno temporaneamente, presso i parenti. Ma al pensiero che molti di quei bambini sarebbero finiti per strada mi veniva un nodo alla gola.
Delle loro storie conoscevo solo la cornice. Alcuni avevano perso entrambi i genitori, altri erano stati abbandonati, altri ancora erano stati strappati alla violenza domestica o erano stati affidati ai servizi sociali dopo che uno dei genitori era finito in carcere. Alcuni - come Sembe' - portavano sul volto i segni dei traumi vissuti. Altri, come Och, li seppellivano sotto un sorriso solare sempre stampato sul volto. Solo il piccolo Bahirun si esprimeva decentemente in inglese. Per tutti gli altri la comunicazione era soprattutto una questione non verbale fatta di sguardi, di gesti, di buffetti, di risate, di parole smozzicate.
Tonga, Otoh, Orna', Bahirun - in alto - e Sembe' |
L'ultima sera un paio di bambini mi distrassero con una scusa, mentre Schauga' entro' nella yurta e rovisto' nello zaino che avevo appoggiato tra il materasso e la tenda per bloccare gli spifferi. Dentro l'Invicta viola trovo' quattro libri, un walkman e una mezza dozzina di musicassette, quelle con le compilation che scandivano gli anni accompagnando i viaggi. Schauga' prese il registratore, inseri' il best of '98-'99 e porto' il bottino nella casupola nella quale dormivano gli orfani piu' piccoli. Me ne accorsi il giorno dopo, mentre il treno attraversava la Mongolia interna. Vedevo scorrere il deserto del Gobi al ritmo dei Red Hot Chilli Peppers col naso attaccato al finestrino, quando la voce di Anthony Kiedis venne interrotta da quella di Bahirun seguita da quelle di Tonga e Orna'. Otoh farfuglio' qualcosa prima che Schauga' gli sottraesse il walkman sullo sfondo delle risatine di Och. E persino Sembe' volle dire la sua.
I bambini - nessuno escluso - avevano trascorso l'ultima notte registrando dei messaggi sulla mia cassetta. Alcuni lo avevano fatto individualmente, altri in gruppo, alcuni suonavano impacciati, altri spassosi, altri ancora timidi, tristi o seriosi. Solo quello di Bahirun era in inglese, gli altri erano un misto di mongolo e di parole a casaccio. Comunque sia, erano messaggi di ringraziamento e di addio.
E io non riuscii a trattenere le lacrime.
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