Il secondo capitolo della Trilogia della Polizia usci' nel 1998.
Dopo due anni di costosi Trenta alla Lumsa, avevo fatto domanda per il passaggio alla Sapienza. La commissione chiamata ad analizzare il mio caso aveva riconosciuto che il Rettore non poteva respingere la mia richiesta. Quello che poteva fare, però, era fissare un tetto al numero di esami che l'Università mi avrebbe riconosciuto. Il Magnifico decise che non potevano essere più di 7 e stabilì anche che non avrei potuto sostenerne altri per un anno intero. Nel suo piccolissimo, la sentenza fece giurisprudenza: da quel momento, chiunque avesse cercato di salire in corsa sul carro di Scienze della Comunicazione per aggirare il vincolo del numero chiuso, forse sarebbe stato ammesso, ma si sarebbe impantanato nelle sabbie mobili accademiche. Un deterrente per chiunque avesse voluto seguire lo stesso iter e un palo tra le ruote del mio percorso di studi. Nella migliore delle ipotesi, mi sarei ritrovato a 23 anni e mezzo con 7 esami sullo statino e 3 giri di ritardo sulla tabella di marcia.
Poi dice che uno finisce fuori corso.
Intanto il giornalismo ingranava. La Rotopress aveva pescato nel mucchio dei collaboratori che si accalcavano sugli apparecchi SIP per rimediare i risultati della terza categoria laziale e aveva scelto me. A 21 anni avevo firmato un contrattino part-time da 250mila lire al mese più le domeniche per un'agenzia stampa nata a Napoli specializzata nell'allattare e plasmare aspiranti reporter. Stavolta il drago si era presentato sotto le spoglie dell'Ordine dei Giornalisti. Il Presidente aveva il dente avvelenato contro la Rotopress (un amico di famiglia era tra i collaboratori esclusi) e aveva lanciato la sua fatwa: l'agenzia sfornava troppi pubblicisti, bisognava fermare quella catena di montaggio. E poco importava se il candidato in attesa del tesserino non fosse un occasionale che telefonava al bar di Sgurgola per sapere cosa avessero fatto gli Allievi, ma uno che firmava quotidianamente dei gran polpettoni e che finiva sulle testate nazionali. Cioè io. Non mi rimase che intentare causa e aspettare il nuovo millennio.
All'alba del quale, ero ancora inchiodato a 7 esami. Ma almeno avevo il tesserino da pubblicista.
Sembrava la riproduzione in scala dello schema narrativo di Umberto Eco. Ero il Soggetto manipolato dal Destinante che deve dotarsi del saper fare realizzante e che agisce nel quadro semiotico con gli attanti, i dèbrayages e gli embrayages. Ero un connettore di isotopie che a ogni passo rischiava di finire in un tombino. E che passava un sacco di ore al computer. Anche per questo, una mattina di novembre 1998, mi svegliai con gli occhi in fiamme. Non riuscivo ad aprire le palpebre, tanto erano malmessi. Strizzandoli fino a lacrimare, presi l'A112 e guidai alla cieca fino all'oculista di fiducia in via Pineta Sacchetti. Quattordici km di puro istinto. Avevo la cornea bruciacchiata - disse il medico - e per un paio di settimane non avrei dovuto portare le lenti a contatto né lavorare al pc. Lo presi come un assist al bacio, e pochi giorni dopo salii su un volo Alitalia diretto a Tunisi. Assieme a 300mila lire e a Marco, un ex compagno della Lumsa, di stage a Il Tempo, di interrail in Spagna e di volontariato in Bosnia.
Io tra le rovine di Dougga |
Marco dorme nel terminal dei bus di Tozeur. Per terra la bottiglia da me riempita all'alba |
Sountata Tozeur (dove giocammo a calcio in 2 contro 11 e dove un ragazzo ci punto' in faccia un fucile per scherzo), puntammo verso la costa, tagliando il deserto da ovest a est e arrivando con le luci della sera a Gabes, la seconda citta' del Paese. Invece di dormire in stazione, stavolta ci rintanammo in un alberghetto dove, oltre a noi, c'erano sei ospiti. Cinque libici, venuti da Tripoli per vendere una partita di scarpe prodotte oltre confine, e una giovane tunisina arrivata dalla provincia in cerca di lavoro. Mariam ci invito' ad unirci a loro. Cosi' ci ritrovammo accalcati in otto nello stanzino convertito a sala della TV. I libici non spiccicavano una parola di inglese, ma erano elettrizzati all'idea di condividere lo sgabuzzino con degli stranieri e non ci staccavano quegli occhi espressivi di dosso. Tutti tranne il loro boss, il cui sguardo tradiva la voglia di scuoiarci vivi. Mariam faceva da tramite tra loro e noi, passando dall'arabo al francese. Marco, che il francese non lo parlava, pensava soprattutto a Mariam.
Foto di gruppo dopo una partita di calcio 2 contro 9 vinta in qualche modo |
L'indomani, i libici proseguirono il giro di grossisti e negozianti per piazzare le scarpe sul mercato di Gabes, mentre noi partimmo per una gita verso sud. Mariam ci accompagno' nel piazzale dei bus locali, poi decise di salire a bordo con noi. Scoprirò solo dopo che - mentre io costruivo il ponte dell'amicizia tra Italia e Libia e scambiavo sguardi pieni di interesse umano e culturale con i rappresentanti di Tripoli - Marco la bombardava con sguardi spermatozoici. Mariam insomma si aggrego', e sul minibus tra Gabes e Matmata ci spiego' che quella verso la quale eravamo diretti era una regione abitata da gente con la mentalità arretrata. Anzi, proprio per questo, Mariam indosso' il velo e aggiunse che e' il caso che lei si presentasse come la nostra guida. Altrimenti, disse, rischiava di risultare complicato spiegare a quei vecchi reazionari del deserto cosa ci facesse una ragazza del posto assieme a due baldi stranieri.
Oasi di Tozeur, Marco ed io a mollo con le mutande |
La destinazione era un villaggio berbero alle porte del Sahara famoso per l'architettura troglidita e perché le abitazioni scavate nella roccia erano state il set scelto da George Lucas per il primo film della saga di Guerre Stellari. Che poi di Star Wars conoscevo se possibile meglio la parodia e anzi gli ultimi episodi mi avevano o lasciato perplesso o fatto proprio dormire. Ma Matmata meritava a prescindere. Appena arrivati, ci dirigemmo pertanto verso l'hotel Sidi Idriss, location della scena in cui Luke Skywalker fa qualcosa con qualcuno. Ci venne incontro il titolare: il posto era chiuso. Meta' novembre era bassissima stagione e ne' l'hotel ne' il ristorante erano in funzione. Nonostante questo, essendo una proprieta' privata ma sostanzialmente all'aperto, era accessibile. Marco ed io facemmo due passi, interrogandoci su chi cacchio fosse Luke Skywalker, e intanto tirai fuori la Nikon D50, la mia prima reflex. Inaugurata pochi mesi prima in CentroAmerica e non ancora dotata di zoom causa ristrettezze.
Marco e Mariem all'arrivo a Matmata |
"Cosa fate nella vita?" ci aveva chiesto in mattinata Mariam.
Io faccio fatica a definirmi giornalista adesso, a 25 anni di distanza dai primi articoli pubblicati e a 22 da quando finalmente il Giudice di Pace del Tribunale di Roma ha intimato all'Ordine dei Giornalisti di mollarmi sta benedetta tessera. Figuriamoci allora. Ma il modo in cui avevo messo da parte le 300 mila lire da travasare nell'economia tunisina era stato quello: scrivendo e parlando. Era sempre stata una passione, non era ancora una professione, certamente non era una carriera avviata, ma il giornalismo era senza meno un'attivita', il mezzo con il quale mi pagavo tutto, viaggi compresi. Marco, invece, che l'Universita' l'aveva quasi abbandonata, oltre a fare lo stagista al Tempo stava lanciando un sito web di ciclismo che dopo 23 anni dà ancora da mangiare a suo figlio. Insomma, rispondemmo in coro: "Diciamo i giornalisti". Con la specifica semanticamente fondamentale del facciamo invece del siamo. E con una serie di asterischi.
C'erano tutti gli ingredienti per la frittata. Quando il proprietario dell'hotel di Matmata chiese a Mariam cosa facesse in giro con due stranieri, Mariam balbetto'. Aveva escogitato la balla solo a metà. Inizialmente gli rispose che ci stava facendo da guida, ma lei era sprovvista di qualifiche. In pratica o stava togliendo il lavoro ai locali oppure stava mentendo, nascondendo una verità più scomoda. Tipo che intratteneva relazioni impure e promiscue con gli stranieri. La contraddizione venne fuori nel volgere di 30 secondi, quando lui le chiese spiegazioni. "Guida... sì...insomma... diciamo che li sto accompagnando perché sono amici" farfuglio' Mariam.
L'uomo, che magari era retrogrado ma non tonto, passo' alla domanda di riserva. E l'esito fu peggiore. "Questi due tuoi amici cosa fanno nella vita?" le chiese. Il dialogo fu breve e in arabo e io ero fuori dalla portata delle onde sonore. In tutto ciò stavo misurando con attenzione l'inquadratura, perché nella reflex analogica c'era il rullino e la parete del cratere scavata con due porte e due finestre era un souvenir neanche troppo caro e meritava un frame solo, mica una raffica di scatti. Il momento in cui premetti il pulsante della D50 fu lo stesso nel quale Mariam rispose alla domanda del manager del Sidi Idriss.
"I miei amici sono giornalisti" gli disse.
Quel che segui' fu un urlaccio che non ebbe bisogno di traduzioni.
Mi girai. L'uomo si stava agitando con fare minaccioso.
Mariam mi venne incontro. "Siamo nei guai - mi disse in francese - Il tizio sta chiamando la polizia".
Il plurale era d'obbligo, perché l'accusa era duplice. Lei era colpevole di essersi spacciata per guida turistica quando guida non era. Circostanza che poteva coprire qualcosa ancor piu' riprovevole, tipo la natura ambigua della nostra relazione. Io ero colpevole di aver scattato una foto in un posto nel quale i giornalisti non potevano scattare foto.
"E perche'?' le chiesi ignaro.
"E' un posto difficile. Qui la gente è di mentalità chiusa", rispose lei.
'E quindi?"
"Quindi siamo nei guai'.
Al commissariato andammo a piedi, seguendo la piccola carovana guidata dal manager dell'hotel, da un suo dipendente e dall'ufficiale di polizia che era venuto ad analizzare la scena del crimine. Imboccammo un sentiero sterrato, camminando in silenzio. L'unica sequenza di rumori che si avverti' fu quella di un motorino che riavvolgeva il rullino fotografico seguito, seguito dal clangore attutito dello sportellino della reflex che prima si apri' per far uscire la pellicola incriminata e poi si richiuse dopo la sostituzione con un Kodak nuovo di zecca. Solo quando arrivammo in prossimità della stazione di polizia, Mariam mi rivolse la parola.
"Devi reggere il gioco. Gli ho detto che..."
"Sshhh"
"Tranquillo, il tizio non capisce il francese"
"E perche' me lo dici solo adesso?"
"Gli ho detto che ci siamo conosciuti quando ho scritto un annuncio su un giornale italiano. Che adesso sei venuto tu a trovare me e la mia famiglia e che prima o poi saro' io a venirti a trovare a Roma".
Mancavano una ventina di tessere per poter rendere il mosaico verosimile, ma non c'era tempo per aggiungere altri dettagli. Il commissariato era un blocco di cemento con le pareti grigie. Col sole a picco, l'interno era avvolto nella penombra. Il commissario era un omone sudato stretto in una camicia celeste, e non aveva nessuna intenzione di staccarsi dalla sua sedia. Mariam ed io venimmo invitati ad accomodarci di fronte alla sua scrivania. Alla nostra destra, il titolare del Sidi Idriss prese parola per primo, esponendo la sua versione dei fatti con toni sempre piu' accesi e accusatori, spalleggiato da un suo sodale testimone oculare del misfatto. Marco, che oltre a non parlare francese non parlava neanche arabo, prima si accomodo' su uno sgabello di legno appoggiato al muro alle nostre spalle. Poi, quando le cose si misero male, ando' direttamente ad ispezionare le celle per controllare che i letti fossero piu' comodi delle panche della stazione di Tozeur.
Sousse, due uomini col tradizionale tarboosh tunisino |
La prima accusa era quella meno grave e quella nella quale ero personalmente meno coinvolto, ma era anche pure quella che ballava sul filo della contraddizione e che rischiava di farci passare i guai. Cosa ci faceva Mariam con noi? Si era spacciata per accompagnatrice turistica rubando il lavoro alle guide accreditate? Oppure eravamo stati noi due ad adescarla per evitare di inaggiarne una ufficiale? Eravamo forse tutti responsabili di crimini contro la morale pubblica? E se invece eravamo davvero amici, possiamo dimostrarlo?
Per scoprire gli altarini, il commissario gioco' la carta dell'intervista doppia, dell'interrogatorio differito. Domanda a Mariam in arabo, risposta di Mariam in arabo. Domanda allo straniero in francese, risposta dello straniero in francese. Prima o poi qualcosa nella nostra ricostruzione non avrebbe quadrato e le gambe della bugia si sarebbero dimostrate rasoterra. Mariam gli racconto' che coltivava il sogno di visitare l'Europa, in particolare Roma, e che un anno prima aveva scritto una lettera su un quotidiano italiano alla ricerca di amici di penna. Fin qui la storia la sapevo, per cui me la cavai. Anzi allungai pure il brodo buttando lì un Corriere della Sera, della serie 'vamme a smentì'.
Un anziano venditore al mercato di Kairouan |
I problemi spuntarono più avanti.
Rispondendo alla domanda successiva, Mariam mi lancio' un'occhiata di traverso, e nella sua espressione allarmata lessi un: "Per favore, cerca di cogliere quello che sto dicendo. Perché poi tocca a te". Il commissario era entrato nello specifico del nostro rapporto, e le aveva chiesto i nomi dei suoi genitori. Del resto - stando al nostro racconto - se io ero ospite a casa sua nella cittadina di Sfax, lo dovevo come si chiamavano. No?
No. Ovviamente no. Non che non lo sapevo come si chiamavano i genitori di Mariam. Fino a stamane non sapevo neanche che Mariam si chiamasse Mariam.
Eppure in qualche modo me la cavai.
Da un paio di anni, oltre a scrivere di Eccellenza e Promozione, ero entrato in un pool di cronisti che la domenica mattina raccontavano il calcio regionale attraverso le frequenze di una radio locale. Era un Tutto il calcio in miniatura, un'altra palestra professionale e di vita. Dovevi imparare a guardare, prendere appunti e parlare, avendo una visuale limitata della partita, non disponendo di nessuna strumentazione sofisticata e stando in piedi. Quelle esperienze avevano sicuramente allenato la parlantina, la capacita' di improvvisare e anche quella di sembrare in controllo della situazione quando in realta' capitava spesso che il gol te lo fossi completamente perso. Ovviamente non c'era nessuno schermo o nessun replay che ti potessero salvare. Se poi avevi la fortuna di raccontare un gol in diretta, dovevi sperare di aver riconosciuto subito l'autore della rete. Oppure dovevi trovare il modo di allungare il brodo finché non lo avevi individuato oppure dovevi stiracchire il racconto fino al punto che il nome del marcatore diventava un un dettaglio trascurabile.
La grande moschea di Kairouan |
Ne uscii cosi', annacquando. Fino a quando il commissario ne ebbe abbastanza dei racconti delle nostre lettere, dei nostri te' serali con gli amici libici, delle nostre gite fuori porta. Quel che l'ispettore voleva, a quel punto, era fornire un pasto abbastanza abbondante da placare la fame di vendetta del proprietario del Sidi Idriss.
"Ok, ok. Cosa fai nella vita?", mi chiese cambiando improvvisamente argomento.
"Dunque..."
Non era chiaro se il primo capo d'imputazione fosse stato archiviato. Ma eravano passati alla seconda accusa. La differenza, rispetto alla prima autodifesa, è che non avevo niente da nascondere. Anzi, dovevo provare qualcosa. Quindi non correvo il rischio di cadere in contraddizione, ma al massimo quello di non risultare credibile e convincente. L'aspetto della vicenda che faceva pendere l'ago della bilancia dalla parte dell'accusa, però, era che il manager del Sidi Idriss era smanioso di giustizia, di ottenere un risarcimento economico e morale o almeno di non passare per scemo.
Per cui ogni volta in cui lo ritenne opportuno, interruppe, intevrenne, commento' alzando la voce e chiese al commissario di insistere, di incalzarmi, di contestare la mia versione dei fatti, di saperne di piu'. Col controcanto del proprietario dell'hotel, l'interrogatorio ando' avanti a lungo, molto a lungo. Talmente a lungo che il sole comincio' a scendere, il commissario accese l'abat-jour sulla scrivania e Marco si accomodo' direttamente in gattabuia, aspettando che lo raggiungessi da un momento all'altro.
"Come ti sei pagato il viaggio in Tunisia? Che tipo di lavoro svolgi per l'agenzia stampa? Che contratto hai?"
Il fatto che io avessi 22 anni aiuto' a perorare la mia causa. Il fatto che non avessi ancora il tesserino da giornalista - per una volta - anche. Centellinando e rilasciando gradualmente le prove a mio discarico, esibii la tessera CTS - la carta giovani per godere di sconti sui voli e nei musei e nella circostanza anche per avvalorare la tesi che "si', scrivo e lavoro per diventare giornalista, ma in primis sono uno studente". Tanto che - dimostrai - compilando il modulo per la richiesta del visto turistico per la Tunisia, alla voce professione avevo scritto STUDENTE a caratteri cubitali. Cosa che, anche alla luce di questa esperienza, continuerò a fare fino alle soglie dei 40 anni.
Ammisi che era vero che mi ero finanziato il viaggio con soldi guadagnati come reporter, ma specificai che non ero in missione per lavoro, ma che ero in Tunisia per visitare la cara vecchia amica Mariam e i suoi genitori X e Y, che ci eravamo spinti fino a Matmata per turismo e che non avevo infranto nessuna norma consapevolmente, visto che il cartello che illustrava il divieto di scattare foto nel Sidi Idriss era scritto in arabo.
La palla stava lentamente rotolando nel mio campo, era giunto il momento dell'ultimo coup de théâtre.
Mentre il proprietario dell'hotel scalpitava e sbraitava, il commissario si allargo' il colletto della camicia grattandoci il capoccione e cercando di capire come uscirne.
Fu li' che dal cilindro estrassi il coniglietto.
L'anfiteatro romano di El-Jem |
"Ovviamente chiedo scusa per aver infranto una legge - dissi - e ribadisco di non aver scattato la foto con intendo fraudolento. Ma se il problema è la foto in sé - aggiunsi - e se non bastano ne' le mie scuse ne' la mia garanzia che non intendo pubblicarla, non mi resta che fare una cosa... questa è la macchina fotografica. Riavvolgo il rullino e ve lo consegno".
Il commissario guardo' il manager e fece spallucce.
Senza neanche aspettare risposta, premetti il pulsante del riavvolgimento automatico. Quindi, mentre l'inviperito titolare del Sidi Idriss si agitava, sistemai il rullino sulla scrivania.
Quello vuoto, quello inserito nella Nikon D50 lungo strada verso il commissariato.
Viceversa quello con la foto scattata sul set del IV episodio di StarWars era al riparo nella borsa da un pezzo.
Un paio d'ore dopo, un minibus ci scarico' nella piazza centrale di Gabes.
Tramonto a Monastir |
Avevamo freddo e fame e di Matmata avevamo visto solo un'abitazione troglodita e una stazione di polizia, ma avevamo una storiella da raccontare ai libici, un paio dei quali ci stavano aspettando all'ingresso dell'alberghetto con un sorriso largo così. Avevano venduto tutte le scarpe ed erano pieni di contanti da riportare a casa. Uno di loro stava sfogliando un giornale locale e dato che mentre me la facevo sotto nel terminal dei bus di Tozeur si era disputata la decima giornata di campionato, gli chiedemmo se il quotidiano riportasse anche i risultati della Serie A. La risposta ero no, ma perché quello era il giornale del giorno prima.
Il piu' simpatico del gruppo libico, pero', contentissimo di poterci tornare utile e ancora su di giri per il malloppo di dinari tunisini che il gruppo si era procurato, si offri' volontario per andare in edicola a comprare il giornale di oggi. Nell'attesa, noi salimmo al piano superiore a farci una doccia. Ovviamente fredda e nel bagno in comune.
Quando ci rivedemmo nella hall, il libico simpatico ci porse il quotidiano, gia' aperto alla pagina dello sport. I nomi delle squadre italiane erano scritti in arabo, cosi' chiedemmo un interprete.
"Bari-Milan 0-0, Empoli-Cagliari 2-1, Inter-Sampdoria 3-0..."
Mentre inziammo la lettura di gruppo, avvertimmo una concitazione crescente alle nostre spalle. Ai libici si aggrego' il boss. E il tizio, appena piu' attempato degli altri ma infinitamente meno contento di avere a che fare con noi, caccio' un urlo belluino. Era la prima volta che sentivamo la sua voce. Gli altri gli andarono appresso. Erano grida terrificanti.
Marco ed io ci guardammo.
Cosa li facesse uscire di senno e contro chi fosse diretta questa rabbia era incomprensibile. La scena era raggelante. Tutti gridavano. Il boss prese per la collottola il libico buono, quello che era andato a prendere il giornale. Un altro tiro' un cazzotto contro il muro.
Marco ed io ci guardiamo.
L'impressione era che il prossimo pugno potesse essere diretto a noi.
"Hanno perso i soldi" ci sussurro' l'unico dipendente dell'alberghetto. 'Tutti i soldi".
Mentre acquistava il giornale per noi, il libico buono aveva smarrito il ricavato della vendita delle scarpe del gruppo. Una mazzetta di dinari spessa 20 centimetri che aveva portato con se'. In pratica la copertura dell'investimento iniziale più i costi della trasferta, più il guadagno della loro azienda, più lo stipendio di loro cinque chissà per quante settimane. Una disattenzione gravissima, drammatica, il cui primo responsabile era il ragazzo che l'aveva commessa. E poi, in secondo luogo, quelli a causa dei quali era uscito di corsa dall'alberghetto portando con se' tutti i soldi. Cioè noi. Il ragazzo della reception ci fece cenno di allontanarci per non contribuire ad esarcerbare i loro animi e per non rischiare di diventare noi i destinatari della loro rabbia. Non ce lo facemmo ripetere due volte. Mentre là sotto nella hall proseguiva la guerra civile, noi due salimmo in camera e ci chiudemmo dentro. Al buio e ancora a digiuno.
Finché, una decina di minuti dopo, bussarono alla porta.
"Fingiamoci morti" dissi.
Dormivamo in un locale riadattato sul tetto, uno stanzone chiuso da un'enorme vetrata opaca. Illuminate dalla luce alla loro spalle, potevamo vedere tre sagome davanti alla porta.
"Se apriamo ci ammazzano"
"Si', ma se non apriamo ci ammazzano lo stesso"
C'era poco da fare, se non consegnarci. Quella giornata era nata male e stava finendo peggio.
Aprii la porta, tremando.
Davanti ai tre c'era il libico buono. Aveva la testa bassa e gli occhi gonfi. Era difficile dire se per le lacrime versate o per le botte prese. In un attimo capii che non aveva intenzioni malvagie, ma riuscii comunque a sorprendermi.
"Scusa", mi disse.
"In che senso?"
"Mi dispiace se vi abbiamo spaventato. Non volevamo.Vi chiediamo scusa".
Mi tremarono le gambe. Quei ragazzi avevano perso tutto, e le conseguenze per loro e le loro famiglie erano inimmaginabili. Anche se Marco ed io non eravamo colpevoli, avevamo in qualche modo contribuito all'accaduto, anche solo marginalmente. In un altro mondo, qualcuno avrebbe pensato di scaricare su di noi la responsabilita' del fattaccio. A loro non solo non era passato neanche per l'anticamera del cervello di rifarsi su di noi, ma si erano preoccupati per lo spavento che ci avevano causato. L'ultimissimo dei problemi che si sarebbero trovati ad affrontare.
Un'indimenticabile lezione di umanita', uno schiaffo morale e uno smacco. Un bellissimo smacco.
"Accettate le nostre scuse, per favore. Scendete giu'. Vi aspettiamo per prendere un te' e per guardare la TV insieme" ci dissero.
Richiusi la porta e guardai Marco. "Magari e' una trappola per derubarci mentre siamo giu'".
Era una battuta. Non solo non lo avrebbero fatto, ma anzi l'indomani ci saremmo salutati da vecchi amici, non prima di aver scattato una foto di gruppo.
E non prima che Mariam e Marco si fossero scambiati un bacio in gran segreto.
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