domenica 19 giugno 2022

Nuovo cinema Paradiso


Trovare un biglietto per Kathmandu fu impossibile. Mi ero deciso solo a pochi giorni dalla partenza, un po' perche' stavo ancora processando il viaggio cubano, ma soprattutto perche' mi ero prima voluto accertare che in caso di una prolungata assenza - la terza in 6 mesi - il mio posto di lavoro non sarebbe stato messo all'asta. Forse c'entrava il fatto che un anno prima, alla vigilia di Natale del '99, un aereo dell'Indian Airlines diretto a Delhi era stato dirottato e che la IATA e il governo indiano avevano messo in castigo il Nepal finche' non avesse dimostrato che le misure di sicurezza erano in linea con gli stardard internazionali. Internet, nel dicembre del 2000, non era ancora il centro del mondo e non aveva ancora risposte a tutte le domande, fatto sta che sui pochi voli disponibili non trovai un solo sedile libero. Alla fine, pur di partire, mi ero affidato a chi i biglietti ce li aveva gia': un'agenzia viaggi. 
La quale, oltre al passaggio via Mosca, impacchetto' anche una decina di compagni, tutti italiani. Presi l'imposizione con filosofia: piu' che un'avventura sarebbe stata un'esperienza. Con lo sguardo filtrato dal gruppo, avrei avuto una prospettiva meno ampia del Paese, avrei intrattenuto rapporti piu' sporadici e superficiali con i locali, ma avrei avuto la liberta', la serenita' e la lucidita' di scattare immagini piu' nitide - non solo in senso strettamente fotografico - e mi sarei fatto anche due risate. Con le spalle coperte dalla compagnia, avrei avvertito meno intensamente le vibrazioni dell'aria, ma almeno non avrei rischiato la pelle. 
Mi illudevo.

Negli anni a ridosso del nuovo millennio, il Nepal era un giovanotto malmesso e problematico. Con un PIL pro capite di 208 dollari americani, dipendente per il 40% dal settore agricolo, e con un tasso di crescita appena percettibile, il Paese stagnava in fondo alle graduatorie mondiali sul benessere e la qualita' della vita. Ogni persona che aveva la ventura di nascere all'interno dei suoi confini era condannato a campare con 57 centesimi al giorno. Ma a giudicare dall'ordine pubblico, il conto in banca era uno dei suoi ultimi problemi. Sul piano politico, il giovanotto himalayano era per lo meno turbolento. La rivoluzione del '90 aveva portato la monarchia assoluta a convivere con un Parlamento e una Costituzione. Il Nepal era passato dal sistema piramidale del Panchayat - nel quale tutto il potere decisionale finiva nelle mani del re - ad uno multipartitico, nel quale spiccavano le formazioni di ispirazione marxista-leninista. Come se il Paese avesse ripassato il bignami della storia occidentale e avesse condensato due secoli di storia in un decennio. Il Partito Comunista Nepalese, nato proprio in quel 1990, dopo quattro anni si era spaccato, dando vita ad un pupo battagliero con la curiosa pretesa di mettere a ferro e fuoco lo Stato senza abbandonare le velleita' di guidarlo. I Maoisti, nati dalla scissione coi Comunisti, nel febbraio del '96 avevano dichiarato guerra alle istituzioni a colpi di attentati, massacri ed esecuzioni sommarie che nel decennio successivo sarebbero costati la vita a 17mila persone. Quando atterrai in Nepal, la guerriglia maoista per rovesciare la monarchia era arrivata al giro di boa.

Nonostante le purghe, i rapimenti e gli attentati dei cugini maoisti, il Partito Comunista continuava a riscuotere consensi da parte della maggioranza rumorosa dei nepalesi. Non solo, fino al maggio del 1999 aveva avuto in mano la maggioranza dei seggi in Parlamento. Poi le ultime elezioni per il rinnovo dell'assemblea, le avevano perse. Al fotofinish.

"Sono state falsate", mi disse senza ombra di dubbio l'uomo al quale chiesi perche' tanta gente fosse scesa in strada per protestare. A capo del governo era stato nominato Krishna Prasad Bhattarai, un mammasantissima della politica nazionale, un 75enne in un Paese con un'aspettativa media di vita di 50 anni, una figura di riferimento della coalizione anti-comunista, il partito che aveva vinto le elezioni. La consultazione si era tenuta tra il 3 e il 17 maggio '99, lo spoglio delle schede era durato tre giorni e aveva sancito il successo del Partito del Congresso, che si era garantito la maggioranza assoluta in Parlamento - 111 seggi su 205 - mentre i Comunisti erano scesi da 88 a 71 deputati e si erano seduti sui banchi dell'opposizione. 

Passati alla lente d'ingrandimento, i numeri raccontavano un'elezione serrata. Nel distretto di Ilan-1, per esempio, il candidato del Congresso aveva superato quello dei Comunisti per 106 preferenze, in quello di Baglung per 42, in quello di Saptari per appena 27 voti, mentre in quello Jhapa-4, il signor Chakra Prakash Bastola - candidato del Congresso - aveva staccato il Comunista Yukta Prasat Vetwal per 25 voti. D'altra parte, in almeno mezza dozzina di casi erano stati i candidati marxisti ad assicurarsi il seggio in Parlamento per un nonnulla: nel distretto di Nuwakot, il comunista Lohani aveva prevalso sul suo omonimo Lohani del partito democratico nazionale (che a dispetto del nome era una formazione monarchica e nazionalista hindu) per la miseria di 15 voti sui 68,300 scrutinati. Quei margini risicati avevano lasciato a tanti nepalesi la certezza che l'esito delle elezioni fosse stato pilotato. 

"Da chi?", chiesi all'uomo della strada.

"Dall'India", mi rispose. Di nuovo, senza battere ciglio.

La piu' grande democrazia del mondo era circondata da vicini piuttosto scapestrati - Pakistan, Bangladesh e Nepal. Abbastanza poveri da essere eteroguidati, quanto meno sul piano economico, se non corruttibili. A prescindere dalle opinioni da bar, era ovvio che a livello regionale Delhi tirasse le fila dei vicini, soprattutto quando la loro riottosita' rischiava di contagiare il subcontinente e quando la loro debolezza economica e politica li rendeva piu' facilmente manipolabili. Quanto fosse vera e profonda l'ingerenza indiana sulla vita politica nepalese, non lo so. So solo che per l'uomo della strada, Delhi rappresentava il Deus ex machina. E tanto bastava per mandargli in uggia sia il governo di Kathamandu sia quello di Delhi. "Appena eletto, il nuovo esecutivo ha varato una legge che impone la rottamazione dei veicoli immatricolati da piu' di 20 anni. E sai chi ne beneficera'?", mi disse l'uomo.

"L'India", risposi io.

"L'India", confermo' lui.

In Italia una legge simile era passata un paio di anni prima. Tra il '97 e il '98 il governo Prodi aveva varato una norma che prevedeva un incentivo in denaro - un milione e mezzo di lire - per rottamare le autovetture con almeno 10 anni di vita. Il pacchetto di aiuti aveva generato una crescita delle immatricolazioni del 39%, un gettito aggiuntivo per l'erario di 1,400 miliardi di lire e una crescita del PIL calcolata dalla Banca d'Italia in 0.4 punti percentuali. Ma un conto era l'Italia di fine anni Novanta, quella pre euro, profumata di ottimismo berlusconiano, un altro era il Nepal, dove quasi tutti i veicoli avevano compiuto una ventina di giri attorno al sole e dove ogni essere umano si doveva tenere a galla con due dime al giorno. Obbligare quei pochi che avevano un'auto a rottamarla, significava condannarli a restare a piedi. Chi poteva permettersi di cestinare la vettura, ovvero le aziende che operavano del settore del trasporto pubblico e in quello pesante, erano di fatto obbligate a sostituire il vecchio catorcio con l'unica alternativa disponibile a buon mercato: i mezzi della prodotti dalla Tata. Nel giro di 10 anni, l'azienda automobilistica di Mumbai si sarebbe presa la Daewoo, la Jaguar e la Land Rover, il Ritz Carlton di Boston, le acciaierie olandesi Hoogovens e il te' inglese Tetley. 

Secondo l'uomo della strada nepalese, la scalata era cominciata anche grazie a manovre politiche di quel tipo. 

Non avevo gli strumenti per capire se il neo governo nepalese fosse davvero un burattino nelle mani indiane, se le leggi presuntamente pro India fossero parte di un accordo-quadro per garantirsi la benevolenza e l'appoggio di Delhi, o se semplicemente l'esecutivo avesse varato in piena autonomia norme che nella vulgata erano diventate la prova della sudditanza verso l'India. Il punto e' che molti nepalesi erano convinti che il nuovo governo avesse vinto le elezioni grazie ai brogli orchestrati dal potente vicino in cambio di un patto di vassallaggio. Una certezza che si tradusse in un ulteriore strato di tensione che fu spalmato sulla gia' traballante impalcatura sociale e politica su cui si reggeva il Nepal e che si aggiungeva alla People's War dei Maoisti. 

Per farla crollare del tutto, basto' una frase sconsiderata attribuita ad un attore.    

Piu' della Tata e piu' di qualsiasi altro prodotto, l'India era, e', e probabilmente sara' sempre la potenza egemone della regione dal punto di vista culturale. Il miliardo e mezzo di persone che abitava quell'area geografica all'inizio del nuovo millennio era estremamente frammentato dal punto di vista etnico. Le religioni professate erano una decina, le lingue parlate oltre una trentina. I costumi, dall'abbigliamento alla cucina, erano i piu' disparati. A parte il cricket, era difficile trovare qualcosa che mettesse tutti d'accordo. L'unico filo che teneva insieme gli abitanti di Quetta a quelli di Chittagong, quelli di Leh a quelli di Colombo, era l'adorazione per il cinema indiano. Bombay, dove gia' nel 1896 si proiettavano i film dei fratelli Lumiere, era diventata la culla dei primi cineasti indiani. Dodici anni prima della corazzata Potemkin di Eijzenstejn e 22 anni prima di Tempi Moderni di Chaplin, un certo Dundiraj Govind Phalke, in arte Dadasaheb, aveva realizzato un film muto di 40 minuti dal titolo Raja Harishchandra. Era il 1913, l'anno zero dell'industria cinematografica indiana, che poi si era espansa ad un ritmo vertiginoso: le pellicole prodotte nel 1927 erano state 108, nel solo 1931 erano salite a 328. In quegli anni erano stati  assoldati persino registi e attori stranieri (alcuni anche italiani, come Eugenio de Liguoro) e le pellicole cominciarono adessere farcite con mucchi di canzoni. In un film del '32, di brani ce n'erano addirittura 69. Per indicare un'industria dinamica e feconda, capace di inglobare maestranze estere sfornando prodotti sempre piu' tipici, gia' negli anni Trenta del Novecento venne coniata la definizione di Bollywood. Cresciuto fino ad essere un baraccone con un giro d'affari da quasi 4 miliardi di dollari l'anno.          

Nel dicembre del 2000, quando nel subcontinente la TV era un elettrodomestico ancora relativamente poco diffuso, internet era un lusso e il mondo non conosceva ancora smartphone e tablet, andare al cinema costituiva ancora il primo passatempo settimanale per centinaia di milioni di persone. Tra le mille pellicole prodotte in India ogni anno c'era l'imbarazzo della scelta, ma solo una selezione di quelle di sicuro successo varcava i confini settentrionali e approdava in Nepal. In estate, tra gli altri, era stato il turno di Kaho Naa...Pyaar Hai, una pellicola che al botteghino aveva incassato quasi 18 milioni di dollari e che aveva conquistato 92 premi (cui si sarebbe aggiunto il 93mo riconoscimento, ovvero il premio come film di Bollywood piu' premiato di sempre). Prodotto e diretto da Rakesh Roshan, il lungometraggio aveva segnato anche il debutto sul grande schermo del figlio di Rakesh, il 26enne Hrithik Roshan. Che per la precisione nel film svolgeva due ruoli diversi e che per entrambi era stato acclamato come la nuova stella di Bollywood. Figlio d'arte, belloccio, gli occhi color ambra, piazzato, ricco e tremendamente famoso, Hrithik Roshan era diventato il primo attore a conquistare sia il premio come miglior attore protagonista sia quello come miglior esordiente agli annuali Filmfare Awards, gli Oscar del Times of India che premiano anche the best villain, il miglior cattivo della pellicola. Perche' nelle storie indiane c'e' sempre un cattivo che alla fine le prende. La stampa nazionale lo aveva battezzato Millennial Superstar e aveva parlato di Hrithik mania.    

Sull'onda lunga del successo di Khao Naa..., nello stesso anno Hrithik era stato assoldato per altri due lungometraggi: Fiza e Mission Kashmir. Curiosamente, in entrambi interpretava la parte del terrorista. Fiza era ancora in fase di lavorazione quando era uscito Khao Naa: di fronte alla popolarita' di Roshan, il regista di Fiza aveva deciso di aggiungere all'ultimo momento grappoli di scene a caso - tipo lui che si allena in palestra - e di allungare il brodo con qualche brano, pur di mettere in risalto la sua presenza nel cast. 

Al contrario, Mission Kashmir, costruito alla meno peggio attorno al dramma della guerra, era stato girato a Srinagar prima dell'uscita di Khao Naa... proprio per evitare che gli abitanti delle zone contese riconoscessero Hrithik. La pellicola, che si sarebbe aggiudicata il Filmfare award come miglior action movie del 2000 e che sarebbe diventato il terzo film per incassi in quella stagione, era stata presentato al Festival di Stoccolma per poi essere proiettata in India il 27 ottobre dello stesso anno. La Hrithik mania era pronta a strabordare nel subcontinente. Peccato che la sua fama sarebbe esplosa per i motivi sbagliati. E che l'attore sarebbe diventato protagonista di un pezzo di storia piu' grande di lui. 

Dopo tre viaggi in Nordamerica, tre in Nordafrica, due in Centro America e un paio in Medio oriente, a 24 anni avevo messo piede in Asia per la prima volta. L'impatto col continente piu' grande, popoloso e variegato era stato morbido, anche se il Nepal aveva subito mostrato i suoi tanti volti. I mendicanti e gli storpi, le discariche e gli edifici pericolanti, il traffico e lo smog, i canali di scolo colmi di liquami fetidi e i gomitoli di cavi sui quali si arrampicavano i macachi raccontavano una faccia della medaglia. L'altra, riempiva gli occhi con la morbida armonia dello stupa di Boudahnath, l'imperiosita' ruvida dei templi di Pashupatinath, le geometrie pulite degli edifici di Durbar square e di Patan, la maestosita' delle montagne piu' alte della Terra. Gli odori, i colori, i suoni e le immagini erano di un'intensita' rara, si mescolavano e penetravano a fondo, in qualche caso assestando un pugno alla bocca dello stomaco. Dappertutto risuonava l'om mane padme hum, il mantra piu' celebre tra quelli del buddhismo tibetano. Una sequenza di note e di sillabe capace di infondere calma, ma anche di inquietare. A seconda del contesto nel quale echeggiava.

Il tempio di Dakshinkali era circondato da centinaia di persone in coda con i loro animali da sacrificare. Due volte alla settimana, i fedeli trascinavano al guinzaglio le loro pecore, le loro capre e le loro galline (e in qualche caso persino i loro maiali e i loro bufali), prima di affidare le bestiole ad alcuni uomini che con un coltello recidevano l'esofago o la trachea. Mentre la testa veniva giu', gli animali continuavano a dimensarsi, continuando a vagare decapitati per una manciata di secondi, riempiendo l'aria e il terreno di un sangue denso che zampillava dal collo tagliato. Sul selciato, alla lunga, si creavano tre dita di intruglio vermiglio, il cui odore aspro riempiva l'aria gia' zeppa di incenso mescolato al profumo di gelsomino e di calendule, di fiori di loto e di ibisco. Una volta esaurita la carica inerziale degli spasmi post mortem, venivano scuoiati e le loro carcasse venivano restituite ai legittimi proprietari, che li offrivano alla dea Kali. 

Il Nepal aveva la capacita' di darti una carezza con una mano e uno schiaffo con l'altra.

Ringraziai il fatto di non essere da solo, e probabilmente lo pensarono anche gli altri membri del gruppo. Appena atterrati all'aeroporto di Kathmandu, uno dei componenti aveva fissato a lungo il modulo da compilare per richiedere il visto, dopodiche' aveva preso in mano il foglietto e mi aveva chiesto: "Ma davvero vogliono che gli dia il numero della mia VISA?". Arrivati in albergo, poi, eravamo stati accolti da due concierge che ci avevano offerto un vassoio carico di bicchieri pieni di bevande sgargianti. Pensando al succo arancione di qualche frutto locale - gli alberi nepalesi producevano arance e mandarini, albicocche e papaye - avevo chiesto all'inserviente cosa fosse. La ragazza ci aveva pensato su qualche istante, si era guardata attorno, poi mi aveva lanciato uno sguardo perplesso e aveva replicato: "Do you know Orangina?". Il trattamento era in linea col grado di indipendenza e di autonomia dei membri della comitiva. Beginners.

Guardai il lato positivo della vicenda: oltre alla certezza di dormire su un letto senza doverlo condividere con il nonno di qualcuno, potevo godermi la pappa pronta, che comprendeva anche l'organizzazione di trekking e safari. Cioe' di attivita' che da soli richiedono tanto tempo e altrettanto denaro. Il programma prevedeva una visita del Chitwan, un parco nazionale istituito nel '73 ed inserito nell'84 tra i Patrimoni dell'Umanita', che in una superficie appena piu' grande della provincia di Pistoia ospitava un'ottantina di specie di mammiferi, tra i quali elefanti asiatici, rinoceronti indiani, orsi labiati, pantere nere, leopardi e tigri. Eravamo partiti all'alba, quando la nebbia era talmente bassa e fitta che non si vedeva la punta dei piedi, e dopo aver attraversato il fiume Rapti avevamo proseguito in groppa ad alcuni elefanti. Un'esperienza da non ripetere per il trattamento che di base gli addestratori riservano ai pachidermi pur di piegarli alle esigenze dell'industria turistica. Ma nello specifico anche l'unico modo per addentrarsi nella giungla con la ragionevole speranza di uscirne vivi.  

Nel pomeriggio ci eravamo appena sistemati in piccoli bungalow immersi nel parco quando mi accorsi che uno dei componenti del gruppo mancava all'appello. Fabrizio, un marcantonio marchigiano con il quale dividevo la stanza, si era allontanato per fare una passeggiata e non aveva fatto ritorno. Cominciai a battere l'area attorno alle strutture di legno, disegnando cerchi sempre piu' ampi, finche' mi resi conto che allontanarmi a mia volta dai bungalow non era un'idea particolarmente brillante. La giornata volgeva al termine, il sole era sceso sotto la linea dell'orizzonte, il cielo era ceruleo e la luce penetrava a stento tra la vegetazione. Il terreno era brullo, per cui camminare e muoversi risultava agevole. Ma se valeva per gli esseri umani, valeva doppiamente per gli animali. E nel Chitwan di animali ce n'erano parecchi, comprese un centinaio di tigri. Tornai indietro e lanciai l'allarme: Fabrizio non si vedeva, non si sentiva e non rispondeva ai richiami. Partimmo in gruppo, stavolta accompagnati da due rangers, che se non altro rappresentavano la garanzia che avremmo ritrovato la strada dell'accampamento. In realta', muovendoci a raggera, ad ogni passo non solo ci allontanavamo dai bungalow, ma anche dagli altri componenti della spedizione. Dopo pochi minuti mi ritrovai nuovamente da solo e - senza una torcia a disposizione - persi l'orientamento. Ormai era buio. Sentii un fruscio, poi un ramo che si spezzava, poi il mio sudore che gelava lungo la schiena. Mi bloccai. Proseguire non aveva senso: in quelle condizioni era impossibile trovare Fabrizio, e ad ogni passo sarebbe stato piu' improbabile riuscire a tornare indietro. Nella migliore delle ipotesi mi sarei perso, nella peggiore amen. Ruotai attorno a me stesso finche' non vidi una luce artificiale. Urlai a chiunque passasse da quelle parti di fermarsi e di aspettarmi. Quando raggiunsi il tedoforo, decidemmo di abbandonare le ricerche e tornare al campo base. Dove nel frattempo, per miracolo, si era materializzato anche Fabrizio Risaliti da Osimo. Che il cielo lo fulmini.  

A Fabrizio la feci pagare cosi' 
Con i suoi 52km di cammino in montagna, il trekking fu decisamente piu' impegnativo ma molto meno adrenalinico: il primo giorno salimmo dai 1100 metri di Birethanti ai 1570 metri di Ulleri, il secondo raggiungemmo i 2750 di Ghorepani. Lungo il percorso, fummo travolti da una nevicata, e per me che indossavo una giacchetta con su scritto SeaWear non fu piacevole. All'alba del terzo giorno, il primo gennaio 2001, salimmo ai 3210 metri di Poon Hill. Partimmo col buio, con l'obiettivo di raggiungere la vetta alle prime luci dell'alba del nuovo millennio. Un'idea condivisa da centinaia di persone - soprattutto giapponesi - che sbucarono non so da dove e che intasarono lo stretto sentiero di 2km con pendenze dolci. Durante la salita, lo stomaco mi avviso' che da qualche parte avevo ingerito qualcosa che il mio organismo rifiutava di accettare. L'attacco di diarrea che ne consegui' mi spinse a correre piu' veloce del vento per superare gli altri avventori. Il sentiero era ben battuto, ma la vegetazione attorno no. L'unico modo per riuscire ad evacuare in quella situazione era correre piu' veloce dello stimolo, lasciarmi alle spalle il serpentone umano e guadagnare sul primo giapponese della fila un margine sufficiente da consentirmi di sfogare lo sfintere sul ciglio del sentiero, senza entrare nel cono visivo di nessuno. Ci riuscii appena in tempo, sfruttando quello che trovai per pulirmi e ricompormi. Non so se qualcuno si accorse che su quella curva a poche centinaia di metri da Poon Hill, la neve era stranamente marrone. Diedi il benvenuto al nuovo millennio cosi', cacando a spruzzo ai piedi dell'Himalaya.

Poon Hill, l'alba del primo gennaio 2001 

Poon Hill e' una terrazza naturale circondata da vette impressionanti, la piu' imponente delle quali e' il Dhaulagiri, che con i suoi 8167 metri e' la settima montagna piu' alta del pianeta. I picchi piu' vicini e che sovrastano la visuale con la loro magnificenza sono quelli dell'Annapurna - il primo ottomila scalato dall'uomo - e proprio per questo uno dei piu' popolari, battuti e letali del mondo, costato la vita a 72 delle 457 persone che hanno puntato la cima. Il nostro obiettivo non era quello, ma molto piu' banalmente una doccia calda. Scendemmo pertanto a valle, cercando di non ruzzolare lungo la scalinata scavata nella roccia e nelle prime ore del pomeriggio arrivammo a valle. 

"I veicoli non possono circolare, non potete ripartire - ci disse un ranger - e' scoppiata una rivolta".

I 6993 metri del Machhapuchhre (immortalato durante l'attacco di diarrea), la montagna a non essere mai stata scalata da esseri umani 

Sei giorni prima, nella valle di Kathmandu si era diffusa la notizia che Hrithik Roshan avesse etichettato i nepalesi come stupidi. O meglio che - intervistato da una TV indiana - a domanda: "Quali sono le persone che odi?", avesse risposto " I nepalesi, perche' sono stupidi". La voce si era sparsa come una delta del fiume in una pianura, trasformandola presto in una palude alluvionale. Per i nepalesi era l'ennesimo affronto, un insulto che non poteva restare impunito. Incendiata dalla rabbia per l'ennesima provocazione, una comitiva di giovani era penetrata in un cinema di Kathmandu che proiettava Mission Kashmir per sequestrare il rullo, la bobina con la pellicola. Un'azione dimostrativa di fronte alla quale il titolare della sala cinematografica non aveva espresso solidarieta' verso i connazionali, anzi. L'uomo aveva chiuso il commando nel cinema e aveva chiamato la polizia. Mentre l'aria stava diventando pesante e altri giovani erano scesi in strada scandendo slogan contro l'attore e contro il governo indiano, decisi a mettere a ferro e fuoco il cinema e a trascinare la protesta fino al cancello dell'ambasciata indiana, la polizia era intervenuta per arrestare il commando di giovani e per recuperare il rullo col film. Lo scontro tra manifestanti e forze dell'ordine era degenerato in atti di violenza inaudita, e a fine giornata il bilancio era stato di 4 morti e 180 feriti, tra i quali una trentina di agenti. La reazione intransigente e violenta era, secondo i nepalesi, era l'ennesima riprova che governo e istituzioni fossero al servizio di Delhi. Anche nel momento in cui in ballo c'era l'onore ferito dei nepalesi, le autorita' di Kathmandu prendevano le parti del burattinaio indiano. In un Paese sull'orlo di una crisi di nervi, gia' piagato dalla poverta' e scosso dalla guerriglia maoista, la leggenda dell'attore e del suo odio verso i nepalesi fu la goccia che fece traboccare il vaso.     


La vicenda non era del tutto nuova. Negli anni 70, le esternazioni di una delle star dell'epoca - Dharmendra - avevano portato le autorita' a vietare la proiezione dei suoi film per calmare le acque.   Nel '98, poi, un caso analogo si era sgonfiato solo quando un'attrice in voga, Madhuri Dixit, aveva chiesto scusa per aver definito il Nepal 'una parte dell'India'. 
Nel caso di Roshan, pero', le presunte esternazioni andavano a toccare un nervo piu' scoperto rispetto al passato. I manifestanti erano scesi in piazza a brandendo foto e poster dell'attore, appiccando il fuoco alle videocassette e incendiando i copertoni per improvvisare dei posti di blocco.
Il Ministro delle comunicazioni, Jaya Prakash Gupta, aveva chiesto ai cinema nepalesi di sospendere la proiezione di tutte le pellicole indiane, soprattutto dei film di Roshan. Anche la TV via cavo, su suggerimento del governo, aveva interrotto le trasmissioni che venivano da Delhi. 
Hrithik Roshan ci aveva messo la faccia, smentendo categoricamente di aver pronunciato quelle frasi. La TV indiana aveva confermato la sua tesi. E l'attore aveva ribadito che lui amava i nepalesi tanto quanto gli indiani.
Ma stavolta i buoi erano scappati. 
L'incendio era diventato indomabile.
A nulla erano valsi gli appelli alla calma del vice Premier Ram Chandra Poudel; le attivita' commerciali gestite da indiani erano state saccheggiate, le vetrate della sede della bank of India distrutte. Un volo della Indian Airline diretto a Varanasi era stato cancellato perche' l'equipaggio era stato bloccato dai manifestanti e non era riuscito a raggiungere l'aeroporto. 
Quella sera avevo visto una serie di fuochi accesi ai lati delle strade e tanti giovani che sventolavano le immagini di questo tizio, a me sconosciuto. Annusando l'aria, l'autista del bus aveva imboccato strade secondarie e ci eravamo ritrovati su sterrati di montagna talmente sconnessi che il torpedone li aveva assecondati contraendosi come un lombrico. 
Durante i giorni passati tra il Chitwan e il trekking, quella vicenda - invece di sgonfiarsi - era deflagrata.   


Giunti a valle, i rangers ci dissero che non avremmo potuto lasciare il parco. Nel Paese era stato imposto il coprifuoco e nessun veicolo era autorizzato a circolare, tranne le autoambulanze, i mezzi dei vigili del fuoco e le volanti della polizia. Per ammazzare il tempo, ci inventammo qualsiasi cosa, compresi i giochi coi tappi delle bottiglie. Ma quando cominciava a scendere la sera, qualcuno - cioe' io - inizio' a spazientirsi. L'impressione e' che non ci dicessero come stavano le cose, quando probabilmente non sapevano neanche loro cosa stesse accadendo. Qualcuno qualcun altro - non io - avanzo' l'ipotesi che ci stessero trattenendo solo per poi obbligarci ad accettare qualsiasi sistemazione per la notte. Anche noi eravamo stati morsi dal virus del complottismo. Verso la fine del giorno insistemmo per andarcene: avevamo fame, freddo e sonno e alla lunga vincemmo il braccio di ferro. Salimmo su pulmino quando ormai il sole era tramontato. Il mezzo si incuneo' nella notte a velocita' bassa. A quell'andatura ci sarebbero volute due ore per coprire i 40km tra Birethanti e Pokhara. Poco male, l'importante era passare la notte al caldo da qualche parte, possibilmente dopo aver mangiato qualcosa di diverso da zuppa e pop corn, gli unici cibi che avevamo ingerito durante il trekking.

 

Improvvisamente il minivan si fermo'. O meglio, fu fermato. Ero in fondo a sinistra e non vedevo nulla di quel che succedeva davanti. In realta' la strada, il panorama e l'orizzonte erano talmente scuri che non vedevo nulla, neanche cosa ci fosse al di la' del finestrino. 
"Un posto di blocco", disse qualcuno nelle prime file. Il tono era allarmato perche' i modi dell'autista erano allarmati. Anzi, impauriti. Nel veicolo calo' il gelo.
Chiunque ci avesse fermati, fossero maoisti, militari o manifestanti, avrebbe avuto motivi sufficienti per non gradire la violazione del coprifuoco. Il fatto che almeno meta' degli occupanti del mezzo fossero stranieri, poi, non costituiva un'aggravante, ma certamente non era un vantaggio. 
Eravamo in balia degli eventi, del caso e della sorte. 
La porta a libretto del minivan emisse un soffio col quale annuncio' che si stava per aprire. 
Con la mano destra pescai nello zainetto, presi il passaporto e istintivamente lo infilai nella tasca laterale del pantalone.
Da quel pertugio si sarebbe potuto affacciare chiunque, ma in qualsiasi caso non sarebbe stato un incontro piacevole.


La mente decollo' verso la peggiore delle ipotesi: a prescindre dalla sua storia, dalla sua inclinazione politica e dalle sue finalita', chi ci aveva fermato poteva sfruttare quella situazione a suo vantaggio, rivalendosi sugli stranieri e su chi li accompagnava. 
Col gomito aprii il finestrino scorrevole, di quel tanto che bastava per lasciarmi una via di fuga nel caso in cui le cose si mettessero male. 
Salirono due uomini. Entrambi armati.
I due batterono il corridoio del minibus, gli occhi fissi su ognuno degli occupanti. 
Nell'aria c'era solo il suono delle suole degli scarponi.
Me la feci sotto. 
Stavolta solo metaforicamente.     
Arrivati in fondo, mi squadrarono, poi tornarono indietro.
"Militari", disse infine il nepalese seduto in prima fila.
"Volevano accertarsi che non fossimo maoisti".
 

Il giorno seguente a tarda sera arrivammo nella splendida Bakhtapur, dove le autorita' ci autorizzarono ad entrare a patto che non ne uscissimo prima del ritorno del Paese alla calma. Sfidando il coprifuoco, cercai un internet cafe e mandai un'email a mio cognato. "Qui e' scoppiata una rivolta, ma ho trovato riparo in una cittadina apparantemente tranquilla. Non ne esco finche' la situazione non torna alla normalita'", gli scrissi. Fu una fortuna: quello stesso giorno, chissa' perche', il TG5 aveva confezionato un servizio sulle sommosse in Nepal. Tra i telespettatori collegati c'erano anche i miei genitori.    


Capitale del Nepal fino al 1482, Bhaktapur e' una gemma di rara bellezza. Paradossalmente, visitarla in giorni di coprifuoco fu un privilegio. Sin dalla prima mattina, due sorelline - Maya e Urmila - mi avevano seguito come altrettante ombre. Inizialmente cercando di propormi di acquistare qualche souvenir, poi cercando di offrirsi come guide, infine per il semplice gusto di ridere insieme. 
Quando all'alba del terzo salii sul furgoncino che lasciava Bhaktapur, Maya e Urmila erano li', assonnate e infreddolite, avvolte in coperte traforate. 
Urmila, la piu' piccola delle due, mi venne incontro e mi diede un portafoglio colorato made in Nepal. Mentre stavo per estrarre dal mio qualche banconota, le bambine mi presero la mano e mi dissero che no, assolutamente no, quello era un regalo. Il loro regalo. In cambio del quale non volevano nulla. 
Per sette anni quel portafoglio divenne il mio inseparabile compagno di viaggio. Solo alla vigilia del giro del mondo, temendo di rovinarlo in maniera irreparabile, lo sostituiro' con un pezzo nuovo. Quell'incontro mi lascio' con una piccola macchia sul cuore, e mi convinse che mai e poi mai mi sarei voluto ritrovare ancora nella situazione di ricevere senza dare. 
Il Nepal, ancora una volta, con una mano mi aveva dato uno schiaffo e con l'altra una carezza.  


P.s. Pochi mesi dopo, il principe ereditario Dipendra Bir Bikran massacrera' i componenti della famiglia reale, a partire da suo padre e sua madre, suo fratello e sua sorella, prima di spararsi un colpo alla tempia. Il paradosso fu che - in attesa delle conclusioni dell'indagini sulla carneficina costata la vita a 10 persone - fu nominato re del Nepal. 
Ma Dipendra non lo seppe mai: la pallottola che si era conficcato in testa lo aveva ridotto in coma, prima della morte, avvenuta il 4 giugno 2001.  
Secondo qualcuno, Dipendra era stato colto da un raptus omicida perche' la famiglia era contraria al matrimonio con Devyani Rana, la donna che amava, figlia dell'ultimo maharaja di Gwalior e che pagava sopratutto il fatto di essere indiana.
In realta' le indagini vennero chiise in meno di due settimane, senza una accurata perizia forense e senza che nessuno spiegasse per quale motivo Dipendra - che faceva tutto con la mano destra - si fosse sparato un colpo alla tempia sinistra. Ad ogni modo, quel massacro mise fine alla storia della monarchia nepalese che nel 2008, dopo 240 anni di vita, venne definitavamente abolita. 

Maya e Urmila