sabato 25 dicembre 2021

Alle falde del Kilimangiaro

L'ambasciata tanzaniana a Roma era a tre isolati da Porta Flaminia. L'unico dipendente, un uomo sulla quarantina di professione fac totummi accolse con cordialita' nel monolocale buio e mi illustro' la procedura per richiedere il visto. Poi si presento' come mister Mchemwa, attacco' bottone e mi fece intendere che potevamo aiutarci a vicenda.
 
Fino ad allora avevo bazzicato l'Europa e l'America, l'Asia e il mondo arabo riuscendo sempre a cavarmela con una manciata di dollari al giorno. Sei per dormire, altrettanti per mangiare e una decina sperperati tra musei e bus. Bevendo acqua di rubinetto e ricorrendo all'autostop per tagliare una delle voci di spesa. Viaggiando piu' di quanto le mie tasche mi consentissero in teoria di fare.
Mchemwa scosse la testa. L'Africa nera era un altro mondo, mi spiego'. E io il budget per quel mondo non ce l'avevo. Da un annetto avevo anche lasciato l'agenzia stampa e nuotavo nella palude del giornalismo freelance mentre lanciavo l'assalto alla laurea. Vedendo in quel 25enne squattrinato un potenziale mulo, Mchemwa butto' li' un'ipotesi di accordo. "Finche' resterai al nord, un mio amico si prendera' cura di te. Quando poi andrai a Dar es Salaam, potrai stare a casa mia con mio nipote", mi disse. Senza specificare li' per li' che il nipote era soprannominato Nazi

In cambio, Mchemwa mi chiese di portare in Tanzania qualche regalo per la famiglia e di rientrare a Roma con tutti i fagioli e il pap (una di polenta di mais, bianca e leggera) che sarebbero entrati nel mio zaino. Gli attacchi dell'11 settembre avevano lasciato il segno anche sui costi e sulle tempistiche delle spedizioni. Ci potevo stare, e oltretutto - da quel giorno - le mie password presero in prestito il suo cognome. L'affare era fatto.
A meta' dicembre 2001 atterrai ad Arusha assieme al Bela. Aveva deciso di aggregarsi perche' una sua ex inglese gli aveva indicato il Nepal e la Tanzania come i Paesi piu' belli del mondo. Siccome un anno prima ero stato ai piedi dell'Himalaya, Bela non poteva rischiare che mettessi piede anche nell'ex Tanganika senza di lui. 

Ad attenderci, un fuoristrada scassato, al volante del quale era aggrappato un dipendente dell'amico di mr Mchemwa. Un buttafuori dallo sguardo gentile, improvvisato chauffeur. Julius ci scarico' nella cittadina, celebre per un sacco di summit africani finiti male, dove passammo la prima notte in una locanda talmente spartana che il faldone per annotare i dati anagrafici non riportava la voce nazionalita' ma quella tribu'

L'indomani Julius si ripresento'. Era stato incaricato di aiutarci ad organizzare i safari che volevamo.

Peccato che non avessimo i soldi per i safari che volevamo. Julius si prese percio' il compito di scarrozzarci tra gli sterrati del nord del Paese, barattando di volta in volta sul prezzo all'ingresso dei parchi. Eravamo amici, mica turisti, diceva. Cosi' trascorreremmo due notti nel Tarangire, tre nel Serengeti e una a Ngorongoro al costo di una cena elegante. 

Che poi di elegante non ci fu nulla e che anche il mangiare fu scarso. Bela ed io dormimmo nei public campsite, delle piazzole nella savana alla merce' di elefanti, ippopotami, iene, leoni e bushpigs senza alcun tipo di recinzione o di struttura. La prima regola era quella di non lasciare ne' il deodorante ne' il dentifricio nella tenda, se non volevamo essere assaltati nottetempo da mandrie di potamoceri.

La seconda regola era quella di non bere prima di andare a dormire, per evitare di avvertire quegli stimoli notturni che ci sarebbero potuti costare sgradevoli incontri ravvicinati.

Nelll'unico campeggio del Serengeti che una piccola casupola ce l'aveva, capimmo perche' era consigliabile svegliarsi con la gola secca che rischiare di dover pisciare col buio. Tra il bagno e l'enorme tanica che utilizzavamo per bere e lavarci, si creava infatti una piccola pozza d'acqua che col buio attirava gli animali. 

Una notte aprii gli occhi al grido Simba, Simba! e - non resistendo alla tentazione - aprii la tenda. 

La cisterna che di giorno serviva per sciacquarsi e alla quale di notte si abbeveravano i leoni
A pochi metri da noi, una leonessa e il suo cucciolo si stavano abbeveravando alla tanica di fronte alla quale poco prima mi ero accovacciato per lavarmi i denti e a due passi dal bagno comune. Quello al quale mi ero avvicinato comunque con circospezione, temendo di incappare in serpenti o bestie del genere. 

Uno dei driver accese i fari della sua jeep, per tenere a bada i felini e per consentirci di ammirare la scena. Il fascio di luce effettivamente immobilizzo' il leoncino e la mamma e due olandesi di passaggio nel campeggio pensarono bene di sistemare le loro sedie pieghevoli davanti alla jeep, per godersi la scena in primissima fila.

In un attimo la batteria dell'auto salto', le luci si spensero e fummo circondati dal nero piu' assoluto. Passarono pochi secondi. Abbastanza pero' da far crollare l'aspettativa di vita della coppia olandese. Quando un altro driver riusci' a mettere in moto il suo fuoristrada e ad accendere i suoi abbaglianti, i due erano ancora pietrificati sulle sedie, col tronco girato di 180 gradi e lo sguardo rivolto verso di noi. Erano paonazzi, non avevano avuto la forza di gridare e imploravano aiuto e pieta' con le pupille spalancate. 

Invece di approfuttare del buio e di saltar loro addosso, dieci metri piu' in la' la leonessa e il cucciolo s'erano goduti la quiete per ricominciare a bere. Gli olandesi erano salvi e noi potevamo tornare nelle tende, con le gole sempre piu' aride.      

Al di la' degli incontri notturni piu' o meno casuali, per avere chances di incrociare qualche animale durante i safari e' imperativo alzarsi prima del sole. Anche nel piu' densamente popolato dei parchi naturali, l'attivita' della fauna selvatica si concentra infatti prima dell'alba e dopo il tramonto. 

Durante le ore piu' calde, i predatori vegetano in stato comatoso all'ombra delle acacie, mentre gli erbivori brucano vigili negli spazi aperti, lontani dai pericoli. E - quando possono - riposano anche loro, in vista della mazurka delle ore notturne, quando riparte il ciclo della vita.

Vedere la fauna africana nel suo habitat naturale e all'azione non e' ne' immediato ne' scontato. Il Serengeti e' esteso come la Calabria ed e' la casa di settecentomila gazzelle e di un milione e mezzo di gnu. Quel che e' facile vedere, appunto, sono gli impala e gli gnu (la cui migrazione di massa verso il Masai Mara e' uno spettacolo maestoso) e quel che e' scontato vedere sono gli ippopotami e i coccodrilli negli specchi d'acqua e gli elefanti e le zebre nelle pianure. 

Per il resto, il turista con la macchina fotografica al collo puo' trascorrere parecchie ore senza incontrare niente di meglio di un facocero. Eppure in quei giorni fummo abbastanza fortunati da inseguire un gruppetto di ghepardi off road e da scambiarci sguardi de fuego con un leopardo. Tra gli uni e gli altri ce ne sono si' e no 1500 in tutta la riserva.

Merito di Julius e di un fiuto per gli animali direttamente proporzionale alla sua massa corporea. Peccato che il nostro buttafuori al volante non fosse anche un antropologo o un cantastorie. Quando incappammo in un gruppo di ragazzini con il volto disegnato con ghirigori bianchi, mi disse che erano masai sul punto di fare il loro ingresso ufficiale nell'eta' adulta. 

Mi spiego' che, per farlo, questi adolescenti dovevano lasciare la loro casa e inoltrarsi nella savana. Da dove avrebbero fatto ritorno al villaggio solo se e quando fossero stati capaci di uccidere un leone con una lancia. Superata la prova, per dimostrare la quale i giovani avrebbero dovuto riportare nella loro tribu' una zampona del re della giungla, i ragazzi si sarebbero guadagnati diritto di essere considerati adulti e avrebbero percio' abbondato il nido materno per trasferirsi in una nuova capanna di fango, costruita per loro dalle donne della famiglia. 

"Sono dei Masai sakamsichan", mi disse. 

Chiamai cosi' - Masai Sakamsichan - loro e questo scatto, sia sull'album fotografico sia nelle versioni digitali che seguirono. Finche', una quindicina di anni dopo, quando nel 2016 tornai in Tanzania e presi maggiore confidenza con quella pronuncia, realizzai che Julius intendeva circumcision

Il vero segno distintivo che quei ragazzi non erano piu' dei pupi implumi, non stava tanto nella zampa di leone, nella pittura sul volto o nella capanna nuova di zecca. Ma era nascosto nelle mutande. 

Ammesso che le portassero.


In realtà un ragazzo masai diventa moran intorno ai 14 anni. Dopo la cerimonia della circoncisione deve abbandonare il proprio villaggio e andare a vivere con gli altri neoguerrieri della sua generazione in un accampamento, dove i moran rimangono soli per un lungo periodo, nel corso del quale si addestrano a combattere e a cacciare, ad adornare la propria persona con cura maniacale e a masticare corteccia di mimosa, l’unico stimolante loro consentito, per tenersi pronti alla battaglia e alle razzie di bestiame e, molto spesso, per sprofondare in un coma profondo dovuto all’abuso della sostanza. Solo dopo il termine stabilito, i moran possono fare ritorno tra il cerchio di capanne del villaggio e prendere moglie. 

Durante i lunghi anni di apprendistato, comunque, alle madri è consentito di visitare i figli, di cucinare per loro, di riassettare l’accampamento, e alle amanti di visitare le capanne dei loro moran di notte. Le madri si sistemano a un’estremità della capanna, e i giovani guerrieri, ognuno con una ragazza, vanno a sdraiarsi nel buio dal lato opposto, conoscendosi biblicamente condividendo lo spazio fisico con le suocere.

Il passaggio all'età adulta per le ragazze e' meno contorto: una volta raggiunta la pubertà, la bambina viene circoncisa e può essere data in moglie a chi offre quattro mucche. Chi possiede mandrie numerose può arrivare a comprarsi anche 20 o più mogli, e non è un caso che nella lingua masai ci siano oltre 500 aggettivi riferibili ad una mucca, e nemmeno la metà riferibili ad un essere umano di sesso femminile.

Julius non ci racconto' nulla di tutto questo, si limito' a dirci che quelli erano masai sakamsichan. Del resto non era una guida e non era la nostra guida. Era stato incaricato di accompagnarci e fece tutto cio' che era in suo potere per farci godere al massimo quell'esperienza a costo e a impatto pressoche' zero. 

Grazie a Julius fummo accolti in una comunita' masai talmente isolata che nessuno dei membri aveva ancora visto le immagini degli attentati alle Torri Gemelle. Anzi, la notizia era stata riferita agli altri dal vecchio capo villaggio, il quale ne aveva sentito parlare attraverso l'unica radiolina della tribu'. Ma la cui portata evidentemente sfuggiva a tutti.

Il buttafuori buono evito' anche che l'azione incrociata di scimmie insolenti e volatili famelici mi costasse un occhio a Ngorongoro. Nel cratere spento (un parco in miniatura - 25mila animali concentrati in 260km quadrati), la regola era quella di non lasciare oggetti incustoditi e di mangiare di fretta, tenendo il cibo saldamente in una mano e portandolo con la stessa alla bocca nel piu' breve tempo possibile, agitando contemporaneamente il braccio libero in aria per evitare che un macaco, un marabu' o un falco pellegrino piombassero dal nulla per portare via il mangiare. 

Quando le piume primarie di un'aletta mi strusciarono il volto, passando da zigomo a zigomo, capii che il bulbo oculare valeva piu' del panino al formaggio e mollai la presa. 
Dopo una settimana avevamo fatto il pieno di polvere, fauna e strippate. Ma non era finita. Al rientro ad Arusha, Julius ci accompagno' in un ristorantino nel quale il suo boss - l'amico di Mchemwa - stava cenando assieme a dei suoi comari. Quando ci palesammo, fummo accolti con tutti gli onori riservati agli ospiti. 

Sorrisi spalancati e crasse risate. Eppure nessuno ci strinse la mano e tutti ci offrirono solo il gomito. Pensando che fosse il modo tanzaniano di salutare gli stranieri, il Bela ed io ci adeguammo. Mollammo colpi di cubito a destra e a manca. Solo a fine cena ci rendemmo conto che nessuno ci aveva dato la mano perche' la tavolata non prevedeva posate e le dita dei commensali erano inzaccherate. Ne stavamo ancora ridendo quando Julius mi mise un palmo della sua manona sul petto.

Aveva bevuto. E il fatto che non fosse stato invitato alla cena lo aveva fatto imbufalire. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, poi, era stato un confronto con il suo boss - un alto dirigente di quella Tan road incaricata di asfaltare le strade del nord del Paese ma che evidentemente non lavorava troppo alacremente. 
Un pastore nel cratere di Ngorongoro

Il tizio, sempre l'amico di Mchemwa, evidentemente non aveva riconosciuto la quantita' e la qualita' dell'impegno profuso da Julius con noi e probabilmente lo aveva liquidato con due spicci, dopo averlo obbligato a stare lontano dalla sua famiglia per una settimana. Noi oggettivamente non potevamo farci nulla. Ma in quel preciso istante per convincere Julius a non fracassarmi la testa contro un muro ci volle una dose di buon senso e tre dosi di buona sorte. 

Il giorno seguente, Julius ci scarico' da sobrio ai piedi del Kilimangiaro. Dove ci abbandono' solo dopo essersi assicurato che anche li' ricevessimo lo stesso tipo trattamento, entrando nel parco da amici
Quindi con un prezzo scontato e senza l'equipaggiamento necessario.

La scalata del Kilimangiaro attraverso la strada piu' agevole richiede 8 giorni. 

Il tetto d'Africa, la montagna isolata piu' alta del globo, sfiora i 6mila metri, ma e' relativamente accessibile. Intanto perche' trovandosi in prossimita' dell'equatore le temperature sono piu' miti rispetto a quelle che si toccano su altre grandi vette del pianeta. Poi perche', essendo un vulcano dormiente, l'ascesa e' graduale. Almeno per i 4/5 del percorso. 

La sommita' di quella che - secondo l'etimologia swahili e' la collina bianca - e' ricoperta da un ghiacciaio perenne, l'unico del continente, e lassu' la colonnina di mercurio scende abbondantemente sotto lo zero. L'acclimatazione, a quelle altitudini, non consiste solo nel far adattare il corpo al freddo, ma anche all'aria rarefatta. Senza quei due fattori, la scalata sarebbe davvero potuta essere una passeggiata, tanto piu' che 12 mesi prima avevo corso una maratona e da allora avevo conservato una forma decente. Ma quelle variabili c'erano.

La semplicita' dell'impresa e' confermata da alcuni record: un paio di ultra maratoneti sono riusciti a completare la scalata in meno di 7 ore. E fino ai 5895 metri di Uhuru peak si sono affacciati bambini di 7 anni , anziani di 88, un uomo in carrozzina e alcuni amputati. Forti del fatto che si potesse fare, ci presentammo ai piedi del Kilimangiaro nel pomeriggio del 20 dicembre 2001.  

Il tempo di affittare una giacca a vento e partimmo al trotto. Per evitare di complicarci la vita gia' nella prima tappa arrivammo prima del tramonto al primo rifugio, Mandara hut, a 2743 metri di altezza, circa un migliaio di metri piu' in alto rispetto alla partenza. Una passeggiata di salute al termine della quale ci scontrammo col primo reality-check. In quei rifugi di legno non c'era nulla tranne un caminetto. Le funzioni fisiologiche si espletavano all'aperto, l'acqua - se si trovava - la si prendeva dal primo ruscello che veniva giu' dal ghiacciaio.

Anche il secondo giorno non presento' problemi sul piano fisico. Il percorso verso i 3760 metri di Horombo hut e' anzi il piu' bello e vario, perche' si abbandona la foresta pluviale e la vegetazione lascia gradualmente spazio al terreno brullo. Il guaio, nel mio caso, fu un acquazzone di fronte al quale non riuscii a proteggermi e che mi prese in pieno per un'ora, arrivando a cancellare la data di scadenza del mio passaporto. Non altro, solo quella voce. Al ritorno al Roma, pap e fagioli non furono un problema, ma lo fu quello. Il doganiere non credeva possibile che di tutto il passaporto il diluvio avesse cancellato solo la data di validita' del mio documento. 

Il terzo giorno e' quello che tutti - anche quelli che non lo ritengono strettamente necessario - dedicano all'acclimatamento. Marangu route, la strada che avevamo imboccato, era quella di gran lunga piu' popolare tra le poche centinaia di stranieri che ogni giorno si lanciavano alla conquista del tetto d'Africa. Un po' perche' la piu' economica, un po' perche' considerata la piu' semplice, era quella che faceva registrare anche la piu' alta percentuale di fallimenti. E un modo per prevenirli era proprio quello di dedicare una giornata ad esplorare la zona attorno ai 4mila metri. L'ultima nella quale una passeggiata non diventava troppo faticosa nonche' utile per spezzare la scalata ed evitare di ritrovarsi nel giro di tre giorni da 1700 a 4700 metri sul livello del mare.

Il giorno seguente partimmo talmente sparati che prima di mezzogiorno superammo The Saddle, il deserto alpino tra le due vette Mawenzi e Kibo, e arrivammo nel primissimo pomeriggio all'ultimo rifugio, ai 4730 metri di Kibo hut. Da li' la cima del Kilimangiaro era visibile. A separarci dalla vetta c'era solo l'ultima scalata, quella del cono vulcanico, che e' la piu' breve ma anche la piu' ripida e la piu' complicata.

"Volete provare a salire subito?" ci chiesero due guardiaparco locali.

Ci pensammo. Provare l'assalto alla vetta in pieno giorno significava camminare in maniera piu' agevole, alla luce del sole, e significava evitare i rischi di ipotermia notturna. Significava arrivare in cima al tramonto e guadagnare un giorno sulla tabella di marcia. La lista dei contro includeva il pericolo di pagare lo sforzo di percorrere quattromila metri di dislivello in una singola giornata (tra ascesa e discesa, dai 3800 metri Horombo ai 3800 metri di Horombo, passando per i 5,900 della cima) a quello dell'arrivo delle tempeste serali. Fossimo andati incontro ad un qualsiasi intoppo, avremmo compromesso la scalata anche il giorno seguente.

Che poi l'ultima ascesa non sarebbe cominciata di giorno, ma in piena notte. 

Per arrivare in cima all'alba, la norma non scritta prevede che si lasci Kibo hut verso mezzanotte. Da li' ci sono solo 6 km da percorrere (sui 64 km totali), ma il dislivello e' di 1.3km. Il che significa che l'ascesa lungo il fianco del cono vulcanico e' estremamente ripida. Arrivare in cima all'alba significa poi avere tutto il tempo a disposizione per godersi la vista - ammesso che le nuvole lo consentano - e per scendere in due tappe, prima ai 4700 e rotti di Kibo e poi ai 3760 metri di Horombo.

I rangers ci consigliarono di non partire a mezzanotte come gli altri, ma di incamminarci non prima delle 2.30 del mattino. L'andatura che avevamo tenuto fino a quel momento lasciava presumere che avremmo corso il rischio opposto - quello di arrivare in cima troppo prima dell'alba e quindi di patire il freddo. In generale, con quella giacchetta affittata, meno ore avrei trascorso all'aria aperta e meglio sarebbe stato. 


Ma la temperatura non era il primo problema. Molto prima venivano la luce e l'acqua. 

Partimmo alle 3 senza aver chiuso occhio - altro effetto collaterale dell'altitudine - e a noi si aggrego' un ragazzo islandese, che appena uscito dal sacco a pelo ingurgito' un tubo di Pringles e bevve una lattina di Coca-Cola. Durera' 15 minuti prima di vomitare anche l'anima e dover dire addio alla scalata. Noi lasciammo Kibo senza aver dormito ne' mangiato, lasciando per la prima volta lo zaino e quindi potendoci permettere una velocita' di crociera ancora maggiore.

Talmente rapida, che molto presto ci trovammo a raggiungere, a superare e a staccare quelli che erano partiti a mezzanotte. Questo nonostante non avessimo neanche una torcia, cosa che rendeva difficile capire - con la fioca luce delle stelle - se stavamo mettendo piede su un sasso o in una buca, se il terreno sul quale stavamo per scaricare il peso era solido oppure (come nella maggior parte dei casi) se stavamo per affondare su una superficie sabbiosa. Poco prima di meta' ascesa, durante una sosta per abbeverarci, il tappo della bottiglia salto' e nel buio non riuscimmo a trovarlo. Non ci rimase che berne alcuni sorsi d'acqua e a lasciarla li'. 


Ci restava una bottiglia in due. Una iattura, considerando che oltre i 5mila metri l'aria e' talmente rarefatta che l'unico modo per assicurare al corpo l'ossigeno di cui ha bisogno e' proprio l'acqua. Per qualche istante, prendemmo in considerazione l'ipotesi di fermarci e aspettare la carovana con una quindicina di trekkers che vedevamo in lontananza. Ma eravamo sotto zero. E restare immobili in attesa degli altri ci avrebbe davvero portati all'ipotermia.

Senza luce, con pochissima acqua e con indosso una giacchetta a vento, alle prime luci dell'alba vedemmo la cresta della montagna, quella oltre la quale c'era Gilman's point - l'inizio del cratere vulcanico. La parete era tamente ripida che la roccia pendeva sulle nostre teste come una gargolla. Raggiunta e superata l'ultima asperita', cacciammo un urlo. Risuono' talmente forte nella notte che ci sentirono distintamente gli altri escursionisti. Poi ci diranno di aver capito.  

Da Gilman's point a Uhuru peak il dislivello e' di 150 metri. Per coprire i due chilometri lungo la caldera spenta del Kilimangiaro si dice che serva un'ora e mezza, ma di fatto e' una camminata talmente leggera che sembra senza tempo. Anche perche' si ha l'impressione di galleggiare nel vuoto come gli astronauti. Quanto tempo impiegammo non lo so, so che all'antivigilia di Natale del 2001 fummo i primi ad arrivare sul tetto dell'Africa. E che organizzando l'autoscatto qui sopra decisi che avrei conservato la stessa identica espressione che avevo avuto quando avevo raggiunto quota 5,895 metri. Come memento del momento in cui avevo toccato il punto fisicamente piu' alto della mia esistenza.  

Qualche sorriso poi mi scappo', ma la discesa fu peggiore della salita. Ad un certo punto il corpo realizzo' che non avevo dormito ne' mangiato, che avevo bevuto il minimo indispensabile per non crepare ma che non avevo ingerito abbastanza liquidi per ossigenare gli organi. Il corpo ci aggiunse anche una certa spossatezza per l'ascesa e il freddo che gli avevo fatto prendere e cosi' - mentre scendevo a grandi falcate lungo la parete - mi presento' il conto. 

Evitai di fermarmi, sentendo che avrei potuto perdere i sensi, e andai col pilota automatico finche' non mi ritrovai nel rifugio Kibo, mi stesi sul lettino che avevo occupato la notte precedente e collassai mezz'ora, sperando di riuscire a far passare il mal di testa. Non riuscendoci, mi alzai e vomitai. Dopodiche', come se nulla fosse, mi rimisi in cammino. Non prima di aver mangiato una porzione di pap e spinaci offerta dai rangers.

Nel primo pomeriggio arrivammo a Horombo. Nella tarda mattinata seguente eravamo di nuovo a valle, dove salimmo su un bus per Arusha. Tornammo nella locanda senza nome nella quale dopo una settimana piena ci concedemmo una doccia. Sarebbe stata la prima dopo una  settimana e l'ultima per qualche giorno. L'indomani mattina, infatti, Bela ed io prendemmo una corriera in direzione Dar es Salaam, dove ci avrebbe accolti il nipote di mr Mchemwa.

"Guidi tu?". Nazi mi accolse cosi'. Scorbutico, con uno sguardo torvo, e una voce poco rassicurante. Il tono era di sfida. Sembrava dicesse: "Fammi vedere di cosa sei capace, razza di bianco smidollato". Non raccolsi quella che dava l'impressione di essere una provocazione. Intanto perche' non avevo mai guidato in una metropoli subsahariana - anzi, per la precisione non avevo mai messo piede in una metropoli subsahariana - e poi perche' le strade tanzaniane parevano quelle post-apocalittiche di Ken il Guerriero. Trenta centimetri di asfalto tra una buca e l'altra.

"Guidi tu?", mi chiese ancora Nazi. Con uno sguardo sempre piu' di traverso, ma con un tono meno aggressivo. "Perche' io non ho la patente", aggiunse. 'Meglio di no", ribadii io. Facendo sommessamente presente che se era venuto a prenderci in auto alla stazione dei bus era meglio se continuasse a guidare lui. Anche senza patente. Nazi fece partire con un sobbalzo una macchina non sua e ci porto' in una casa non sua - quella di zio Mchemwa - che occupava assieme ad una combriccola di giovanotti come lui, che sbarcavano il lunario come lui, affammati di sesso come lui. O appena di meno.
"Se vengo in Europa quante chances ho di scopare una donna bianca?" mi chiese poco dopo, mentre il suo braccio destro - che si faceva chiamare doctor Kanji - sghignazzava.
Lo chiese a me. Che pur di non scadere mai nel pecoreccio della chiacchiera da bar mi sono sentito dare piu' volte dell'omosessuale. 
"Dipende da te, Nazi... da noi le donne sono emancipate. Puoi conoscerle e farti conoscere, puoi corteggiarle... e se poi c'e'interesse reciproco e' possibile che facciate l'amore".
"E se voglio scopare e basta?"
"Be', come dappertutto nel mondo ci sono le prostitute"
La prospettiva apri' un ghigno malefico sul volto di Nazi. 
Un atteggiamento deprimente e irritante che mi fece venir voglia di stuzzicarlo, pur non avendo la minima esperienza nella materia.
"Pero' considera che molte di loro sono delle schiave del sesso immigrate dall'Africa" aggiunsi. 
"No, io voglio una bianca. Ci sono le prostitute bianche?" mi chiese Nazi, sempre piu' trascinato nel gorgo dei suoi pensieri.
Tenni il gioco.
"Si', ma costano"
"Quanto?"
"Non lo so esattamente... - non lo sapevo davvero, ma a quel punto desideravo soltanto stroncare l'appetito sessuale di Nazi con una mazzata pratica dai risvolti moraleggianti - ... mah, almeno 80/100 dollari".
Mi sembrava una cifra al di la' della sua immaginazione - un quarto dello stipendio medio mensile dei tanzianiani Come se un italiano di oggi, disoccupato, si sentisse sparare 400/500 euro.
Nazi strinse i denti e i pugni, ma non si diede per vinto.
"E va bene - sbotto' - io paghero' pure 80 dollari. Ma lei deve soffrire".

Neanche quella notte dormii bene. Oltre alla discussione con Nazi, a turbare i miei sogni ci si misero un bagno impraticabile - un buco per terra e un'enorme barile d'acqua ricolmo di qualsiasi cosa che usammo per lavarci - e un'umidita' appiccicosa, che rendeva irrespirabile l'aria della stanzetta senza finestra che mi era stata assegnata. E poi le zanzare. 
Il giorno seguente girammo per il mercato di Dar es Salaam alla ricerca del pap dei fagioli per mr Mchemwa. Nazi e suoi amici ci portarono anche a vedere la villetta che lo zio si stava facendo costruire alla periferia della capitale e insieme visitammo un lungomare che puzzava di scarichi fognari. 
Mentre passeggiavamo tra la gioventu' tanzaniana di inizio secolo chiesi ad un ragazzo, uno degli amici di Nazi che mi sembrava piu' ragionevoli, come convivesse con la spada di Damocle dell'AIDS, che tra i suoi connazionali e tra quelli della sua generazione mieteva tante vittime.
"E' un problema - mi disse - . La mia ragazza mi ha chiesto di fare il test, ma io ho una paura fottuta e probabilmente non lo faro'. Scoprire di essere sieropositivi significa condannarsi ad una vita senza sesso, oppure - ancora peggio - condannarsi a sapere che si contagera' la persona amata e che non si potranno avere figli" mi rispose.
Insomma, meglio vivere nel dubbio, convivere con l'incertezza e accettare con fatalita' quel che viene, piuttosto che avere la certezza di non avere futuro e assumersene la responsabilita'.
 
L'indomani, Bela ed io ci imbarcammo per l'ultima tappa del viaggio. Il traghetto di linea ci porto' sull'isola di Zanzibar, dove avremmo trascorso tre giorni in una capanna attrezzata appena fuori il cancello di un villaggio turistico costruito sulla spiaggia di Kiwengwa, e nel quale lavorava un mio amico d'infanzia. Giancarlo disse che avremo potuto sfruttare il pulmino che aveva appena accompagnato gli ospiti al porto, ma in attesa di trovare l'autista passeggiammo per le strade di Stone Town, una gemma ancora relativamente inesplorata e tempestata di memorie del passato swahili e portoghese, indiano, omanita e britannico. Nel 1964 la cittadina si era sollevata contro il sultano e in seguito ad una cruenta rivoluzione socialista aveva rinunciato alla sua totale indipendenza per unirsi al Tanganica e dar vinta all'odierna Tanzania. A due passi dalla casa nella quale nel '46 era nato Farrokh Bulsara, meglio noto come Freddie Mercury, ci fermammo davanti all'ufficio postale Shanghani, realizzato nel 1906 in stile saraceno da un architetto inglese. 
Ero seduto sulle scalette, quando un mendicante si avvicino'.
Era molto anziano, anche se forse li portava semplicemente male, i suoi anni. La schiena era piegata, la carnagione bruciata, il volto pieno di rughe. Mi scruto' per un attimo, poi si sedette accanto e mi rivolse alcune domande. Quando se ne ando', richiamai la sua attenzione e gli diedi alcune cose. Lui le prese e si incammino'. Poi torno' indietro e mi disse: "Tu sei un animo buono, ma pensi troppo". 
Non so cosa avesse visto o percepito, non so neanche se avesse davvero ragione. Non so se quell'ostativa fosse finita li' casualmente o fosse frutto di un ragionamento. Ne' so quanto quel ragionamento sia fondato, se il riflettere troppo sia davvero un ostacolo. Non so se la bonta' si possa accompagnare solo alla leggerezza e alla spontaneita' per essere tale. Pablo Neruda sosteneva l'opposto, quando scriveva che la spontaneita' e' frutto di lunghe meditazioni.  
Quel che so per certo e' che a distanza di 20 anni, io quel ma non me lo tolgo dalla testa.