domenica 12 luglio 2020

Arresto sull'Orient Express

La mia è stata un'adolescenza felice, itinerante e movimentata. Scandita da girotondi, giochi di ruolo e team building activities. Ho trascorso estati e capodanni all'estero, primavere e autunni in giro per l'Italia, sempre in compagnia di sbarbatelli come me. Al massimo coordinati da ventenni appena meno sbarbatelli di noi. Grazie a quella benemerita costola dell'Unesco che è il CISV ho visto un sacco di posti e ho incrociato un mucchio di bella gente, ho saltato le tombolate natalizie e ho imparato a memoria le canzoni di John Denver e di James Taylor. E ho scoperto che un decennio di studio dell'inglese non era servito a niente


L'organizzazione promuoveva la pace e la fratellanza attraverso lo sviluppo della coscienza di sé, la comprensione e il rispetto delle differenze e il dialogo interculturale. In pratica dispensava dosi omeopatiche di relativismo culturale e si proponeva di formare cittadini globali senza le cornici ideologiche dello scoutismo o della gioventù comunista. Bello, eh. Tanto più che - oltre alla politica e alla religione - il manifesto del CISV bandiva anche l'alcol e le droghe. Quindi insegnava che ci si può divertire tranquillamente senza. E siccome tra le regole non scritte c'era pure una certa morigeratezza, stimolava dialoghi serali sui massimi sistemi e contribuiva a far instaurare rapporti intimi e platonici. Talmente puritani che ho imparato a tenere a bada gli ormoni e a sublimare le pulsioni, a fare massaggi da pro e a convivere con la castità con grande dignità. Insomma, è colpa del CISV se sono arrivato a 20 anni pieno di ideali e di amici sparsi per il globo, ma incapace di accendere un fuoco. 
E - soprattutto - vergine.


Il tutto con la regia occulta dei miei. 
Mamma e papà spiccicavano giusto l'italiano, ma mi avevano fatto studiare una lingua straniera a 4 anni e un'altra a 10. Erano sempre andati in vacanza a Ischia, eppure avevano pensato di marchiarmi alla nascita con l'antivaiolosa (narra la leggenda che si guardarono e dissero: "metti che da grande fa l'esploratore?"). 
Erano stati al massimo a Vienna, ma avevano avuto l'intuizione di lasciarmi a piede libero per il mondo quando non avevo neanche i peli sotto le ascelle. Non pienamente consapevoli dei pro e dei contro, va detto.


Come quando a 13 anni mi avevano fatto passare una febbre a 40 con i metodi della nonna, seppellendomi sotto quattro coperte di lana per farmi sudare anche le ossa, poi spedendomi sotto la doccia fredda e da lì direttamente su un aereo per il Belgio, dove mi ero ritrovato solo soletto in un Paese con una reputazione ambigua in merito al trattamento dei miei coetanei. Per di più con in mano un indirizzo sbagliato. Ne ero tornato dopo aver dato il mio primo bacio, ma poteva andare peggio.
Due anni prima, era il 1987, i miei avevano messo lo zampino sulla mia prima uscita dai confini nazionali. Una gita traumatica, cominciata con una bufala raccontata da mio padre al doganiere di Villa Opicina per non denunciare la busta piena di dinari jugoslavi nascosta sotto il sedile della Renault 18. E proseguita in un casermone di Fiume che spacciavano per hotel a quattro stelle ma puzzava ancora di cortina di ferro. Mi sentii a disagio durante tutto il percorso tra Postumia e Portorose, dopodiché di grotte non ne volli più vedere.



Quella vacanzina famigliare in Jugoslavia aveva plasmato un potenziale pantofolaio con la comfort zone di un nazista dell'Illinois. Negli anni a venire, invece, la terapia d'urto del CISV mi trasformò in un habitué di campeggi e mulini abbandonati, scuole chiuse e divani altrui. 
Tra i 12 e i 18 anni ne frequentai un mucchio, da Bruxelles a Roskilde, da Chattanooga a Dallas, da Villa del Prado a Loon Op Zand. Da Ottawa a Nazzano Romano. In 6 anni massaggiai un sacco di schiene e versai una quantità di lacrime che neanche la Madonnina di Civitavecchia. 
Ma viaggiare era un'altra cosa.


Dopo la maturità, disegnai perciò un inter-rail come si deve - un mese zaino in spalla assieme a cinque compagni di scuola. Tra beghe interne alla classe e personalita' disturbate, organizzarlo non fu una passeggiata. Come se non bastasse, a poche ore della partenza ricevetti anche una raccomandata con la convocazione militare. Mi si chiedeva di presentarmi per un'ulteriore visita medica da lì a due settimane, nel bel mezzo del giro dell'Europa dell'Est. 
Aggirai la chiamata della Patria nell'unico modo possibile: telefonando al comando centrale e dichiarando il falso, cioe' che ero stato esonerato dall'obbligo di leva. 
"Ma e' proprio sicuro? A noi non risulta" 
"Come no... la comunicazione ce l'ho qui con me!"
Per fortuna l'esonero si materializzò davvero per allergia (ce credo...mi lasci dieci minuti da solo in una stanzetta della Cecchignola dopo avermi fatto le prove allergometriche... come minimo mi aro gli avambracci con le unghie e quando rientri sembrano dei Calippi alla Coca Cola ndr) e io non finii i miei giorni nel carcere militare di Gaeta. 


Poche ore dopo ero finalmente a Termini, ma quello fu l'antipasto di un mese di guai cercati e schivati. Perché quello sì che fu un viaggio e quello sì che mi fece scoprire la passione per quella dimensione caotica, creativa e costruttiva, cambiando per sempre gusti, prospettive e priorità. 
Il caso volle che anche lì fossero determinanti un poliziotto di dogana e dei dinari jugoslavi. 
Perché nell'estate del 1995 la Jugoslavia non era il posto più tranquillo del mondo.


Le prime tre settimane di quell'inter-rail furono di corsa e di stenti, splendide e stancanti, con più notti sui treni che in ostelli, più pasti saltati che birre. Eravamo stati a Vienna e Praga, Berlino e Budapest, poi in Polonia e Romania, quindi di nuovo in Ungheria, da dove avremmo puntato verso Istanbul prima di rientrare in Italia via Grecia. A fine luglio arrivammo a Siofok e ci sistemammo in un residence sul lago Balaton, dove per sette giorni riempimmo finalmente la pancia con chili di spaghetti al sugo. 
Fu lì che scoprimmo che il Budapest-Istanbul non sarebbe passato per la Romania, ma avrebbe tagliato da nord a sud quella regione della Jugoslavia che persino noi - figli degli anni Settanta - avevamo imparato a chiamare Serbia. Ci interrogammo e decidemmo. "Cosa vuoi mai che ci succeda?". 
Solo Manù rifiutò e andò avanti, prese la palla al balzo e tornò in Italia senza salire su quel treno con a bordo pochi autoctoni, un paio di coppie francesi e spagnole e i cinque freschi diplomati del liceo ginnasio statale Ennio Quirino Visconti: Nesco, Mefi, Millo, Neni ed io.  
Fu Manù ad immortalare noi cinque alla partenza sull'erede sfigato dell'Orient Express, che lasciò Budapest alle 2 di pomeriggio di sabato 5 agosto 1995 e che 30 ore dopo sarebbe arrivato sul Bosforo.


Dopo un'oretta nella pianura magiara arrivammo al confine serbo-ungherese tra Szeged e Subotica, dove la polizia di frontiera fece scendere i pochi stranieri sul convoglio. 
Tutti, tranne noi.
Noi cinque potevamo restare sul treno perché, a detta delle guardie, "Serbia e Italia erano in buoni rapporti". Il che suonava un po' come dire che si era pappa e ciccia con Gheddafi all'indomani di Lockerbie o che si era amici di Osama bin Laden e famiglia dopo l'11 settembre. 
Non ne andammo fieri. 
La minoranza serba si era costruita nell'ultimo lustro una nomea pessima, accompagnata da personaggi - Milosevic, Karadzic, Mladic - che evocavano immagini di milizie paramilitari e pulizie etniche, il bombardamento di Dubrovnik e l'assedio di Sarajevo. Non si sapeva ancora nulla del massacro di Srebrenica, ma era proprio in quei giorni che si consumava il peggior genocidio visto sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale.


La comunità internazionale sapeva bene che la direzione delle operazioni era in mano alla Serbia di Milosevic (come anni dopo sarà Mosca ad armare la resistenza del Donbass contro l'Ucraina), ma a sporcarsi le mani contro i bosgnacchi erano le milizie serbo-bosniache di stanza a Pale prima e a Banja Luka poi, cioè in quella porzione del territorio bosniaco abitato in maggioranza dai serbo-ortodossi. Ufficialmente Belgrado non era in guerra, per cui l'ONU, la NATO e l'Unione Europea erano impossibilitati ad interferire nelle questioni interne della Bosnia. La disgregazione del blocco sovietico era fresca, e impelagarsi di nuovo nella melma dell'autodeterminazione dei popoli significava ficcare il naso nella tana dell'orso russo. Col quale tra l'altro la Serbia aveva sempre avuto un rapporto speciale.


L'unica carta buona nel mazzo occidentale era quella economica. Bisognava toccare Belgrado nel portafoglio, mettere la Repubblica Serba sotto embargo, escludendola dai traffici commerciali e dai trattati di libera circolazione, cercando così di prosciugare i rifornimenti e di fiaccare il popolo fino a minare le basi del consenso di cui godevano i guerrafondai che lo guidavano. 
In attesa che scarseggiassero le munizioni, però, la guerra in Bosnia andava avanti. E nell'immediato le conseguenze di quell'embargo ci riguardavano piu' da vicino di quanto credessimo. L'Inter Rail non prevedeva la copertura della rete ferroviaria dell'ex Jugoslavia, il dinaro jugoslavo non era né quotato né scambiato sui mercati internazionali e noi cinque stavamo andando dritti contro una montagna di merda
Restare su quel treno significava sì liberarsi del problema di raggiungere Istanbul, ma anche crearsi una mezza dozzina di altri problemi. Tipo come raggiungere Istanbul senza infrangere leggi di un Paese col grilletto facile e nel quale vigeva una sorta di legge marziale.


Un Paese nel quale, prima ancora di entrare, il nostro scompartimento era stato preso d'assalto da tre famiglie, che senza essere state invitate avevano incastrato le loro bustone di tela sotto i sedili e sopra le cappelliere. Contrabbandavano in Serbia prodotti ungheresi che non avevano intenzione di denunciare, e sapevano che nel nostro scompartimento i controlli dei bagagli sarebbero stati più blandi. 
"Biglietti, prego". Appena il treno, ripartito da Subotica, si era lanciato nella campagna della Vojvodina, un controllore bussò alla nostra porta. La zazzera grigia, il volto ampio e bonario, gli occhi giovani, invitavano a stabilire un dialogo. 
Noi cinque, ultimi e unici stranieri a bordo, gli passammo i nostri Inter-Rail, sperando che potesse bastare darsi di gomito citando Boban e Savicevic per uscirne indenni. 
Lui li prese e sparì, per poi tornare una seconda volta, buttando nella mischia un altro Boban alternato ad un altro Savicevic in mezzo a qualche frase smozzicata di inglese. 
Quando si affacciò per la terza volta, accompagnato da un collega, il controllore bonario aveva cambiato espressione. 
"Ticket no good" disse. 
Fu lì che capimmo che Boban e Savicevic non ci avrebbero salvati dalla montagna di merda. 

 

"You must pay" furono le parole che i due controllori misero insieme a fatica. 
Ci guardammo. 
"Quant'è?" biascicammo, sperando che trapelasse la nostra voglia di mediare. 
I due ci lasciarono da soli, per poi tornare con i rinforzi, sedersi nel nostro scompartimento con carta, penna e calamaio e cominciare a fare i conti. 
Durò tanto. 
Alla fine, uno dei tre esclamò "810 dinari". Che era un po' come dire "Mille patacones". 
Il dinaro non aveva nessuno codice ISO, non era reperibile in nessuna banca estera ed era valido solo entro i confini serbi. Ma anche lì l'iperinflazione lo aveva reso carta straccia: quel che il primo gennaio del '93 valeva 1 dinaro, il primo gennaio del '94 costava un miliardo di dinari. 
Qualsiasi valuta estera, in confronto, era oro.
"Il dinaro vale come il marco tedesco - sibilò un controllore, togliendoci ogni dubbio circa le sue intenzioni - quindi sono 810 marchi". 

Non avevamo neanche marchi tedeschi, ma sapevamo che ci sarebbero serviti quasi 600 dollari americani. Che diviso 5 faceva una botta fuori dalla nostra portata. 
Per sovvenzionare quel viaggio avevo raschiato il fondo del mio salvadanaio, sborsato 300 mila lire per il rail pass e attinto a tutto quello che avevo per girare un mese con un budget giornaliero di una trentina di dollari e senza scialuppe di salvataggio - carte, travel cheques o altro. 
I pochi dollari che mi restavano in tasca mi servivano per sopravvivere tre notti ad Istanbul e ad altre 3 di viaggio per raggiungere la Sicilia, dove mi avrebbero raccattato i miei. 
Alla cifra richiesta arrivavo a malapena. Idem gli altri. Svuotando le tasche di tutti e cinque arrivavamo a stento a pagare quella somma. 
La frustrazione per il raggiro e la sensazione di impotenza per la situazione erano in parte mitigate, in parte esacerbate, dalla rabbia per il sopruso. Oltre al pensiero di quel che avremmo potuto fare nell'ultima settimana di viaggio senza un soldo in tasca.

Chiedemmo tempo per fare i conti e per recuperare il denaro, ma anche per capire quali fossero le alternative. Speravamo che i controllori si mettessero una mano sul cuore, rendendosi conto che stavano cercando di approfittarsi di cinque adolescenti. E che si mettessero l'anima in pace perché noi quei soldi non ce li avevamo davvero. Il tempo, speravamo, giocava a nostro vantaggio. 
Nei fatti, invece, più passavano i minuti più diventavamo vulnerabili. Più il treno si infilava nella notte dei Balcani più l'atmosfera a bordo si faceva densa. 
Da densa a cupa e da cupa a drammatica fu un attimo. 
Bastò che uno dei controllori perdesse la pazienza e facesse fermare il treno nella pianura a nord di Novi Sad. "O pagate, o scendete" ci intimò.

Dal momento in cui i controllori ci avevano lasciati soli, infatti, il nostro scompartimento era diventato un suq. Mentre noi scandagliavamo gli zaini alla ricerca di spicci e il cervello a caccia di idee, gli altri passeggeri avevano annusato il problema e subodorato l'affare. Con la scusa di venire a controllare le buste di tela nascoste sotto le nostre chiappe, alcuni ragazzi serbi erano stati messi al corrente della situazione. E sapendo che 800 dinari non valevano né 800 marchi né 80 marchi, avevano preso a volteggiare su di noi come stormi di uccelli neri. 
Noi avevamo qualcosa che faceva loro gola, e loro avevano qualcosa che a noi poteva servire parecchio. I dinari. 
I controllori forse non avevano capito che per noi lo sconto non era uno sfizio ma una necessità, ma certamente avevano intuito che l'affare poteva sfuggir loro di mano. Il poliziotto cattivo, pertanto, s'era preso la briga di fermare la corsa del treno, intimandoci il pagamento immediato. Poi, non contento, ci aveva obbligato a seguirlo in un'altra carrozza. Lontano dai potenziali avvoltoi.

"In qualche modo dobbiamo pagare" ci dicemmo. 
Avevamo trasferito armi e bagagli in un'altra carrozza e avevamo racimolato tutto il malloppo a nostra disposizione. Mentre aspettavamo che si presentassero per riscuotere, Nesco - che aveva i soldi in custodia - si rese conto che nel primo scompartimento aveva lasciato un libro. Per cui, in attesa del redde rationem coi controllori, si incamminò sui suoi passi. Rientrato nella cabina e ripreso possesso del suo Stephen King, finì però in pasto agli avvoltoi. 
Due ragazzi serbi lo trascinarono in bagno, dove - con le buone ma non troppo - lo convinsero a cambiare i soldi alla metà del tasso proposto dai controllori. 
810 dinari al prezzo di 400 marchi, ovvero 280 dollari. 
In nero, of course
E se dei ragazzi serbi erano pronti a sfruttare un'occasione capitata loro per puro caso ed erano disposti a correre il rischio per un tasso di cambio del genere, significava che l'affare che i controllori si erano apparecchiati era molto, ma molto, ma molto, favorevole. 


"Datemi i soldi" disse quello cattivo, quando finalmente venne da noi a riscuotere, senza ulteriori indugi, accompagnato dagli altri due controllori. Con lo sguardo duro e dritto su di noi, l'uomo allungò e allargò la mano, aspettando di vedersela riempita di biglietti verdi. 
Quando abbassò gli occhi, invece, vide 810 dinari. 
"E questi?" chiese. 
Cincischiammo qualcosa. 
"Sono i dinari che ci avete chiesto" dissi "810". 

Delle decine di migliaia di conversazioni di una vita, la maggior parte sparisce, inghiottita dal Nulla. Di altre si conservano memorie fumose. Di altre ancora ricordi sufficientemente nitidi. 
Ma raramente si ricorda davvero tutto - espressione, tono e ogni singola parola utilizzata. 
Di quel momento invece ho scolpita ogni vibrazione. Perché ormai attorno al treno era buio. Perché le parole usate furono solo tre. Perché presero la rincorsa. Perché furono pronunciate in linguamadre, ma non richiesero la traduzione. 
Guardandoci con il fuoco nelle vene degli occhi, il controllore le scandì una ad una.
"полиција, милиција, београд"

Politsia. Militsia. Beograd

'Non siamo stati abbastanza bravi a farvi cacare sotto? Vediamo se  ci riescono degli energumeni in tenuta mimetica, armati fino ai denti, che pasteggiano a spiedini di bosniaci. Vediamo se fate i paraculetti anche con con loro. Vediamo se oltre a farvi pagare il passaggio sul treno alle nostre condizioni non ci prendiamo anche la soddisfazione di spillarvi il supplemento per il raggiro, per aver osato cambiare denaro in nero a casa nostra e sotto il nostro naso. Mocciosi del cazzo'. 
Alle nostre orecchie, quelle tre parole suonarono cosi'. E la reazione fu inconsulta. 
Neni si scagliò contro Nesco, Mefi invocò la luna - mugugnando che Leopardi aveva ragione quando accusava quella vecchia bagascia di restare imperturbabile di fronte alle miserie umane - Millo disse che in lontananza vedeva le deflagrazioni, le esplosioni, i segni della guerra. E pianse. Io no. 
Me la facevo sotto, ma mi appoggiai a quel momento. Così come avevo fatto a Praga alla ricerca di un veterinario, così come da lì in poi avrei fatto leva sugli imprevisti per trarne linfa. Ci guardai da fuori, dall'alto, e vidi un libro game, un action movie, una partita a scacchi. Con la differenza che a scacchi non ho mai imparato a giocare.

Politsia. Militsia. Beograd

Quelle tre parole hanno cambiato un sacco di destini, non solo il mio. Ognuno dei componenti del gruppo reagi' in maniera diversa: c'e' chi chiuse lo zaino solo pe viaggi soft, chi si converti' alle gite fuori porta, chi si consacrò a forme di volontariato organizzato e chi divenne olimpionico di vestaglie felpate. Su di me, quell'Inter Rail ebbe invece l'effetto della fionda gravitazionale. E tutto maturò su quel treno tra Budapest e Istanbul, mentre cominciavo a prendere coscienza di quella sensazione nuova, nella quale si mescolavano preoccupazione e paura, impotenza e isteria, angoscia e adrenalina. 
Salendo su quel treno avevamo commesso un'imprudenza, per rimediare alla quale avevamo proprio fatto una cazzata, ma avevamo anche l'occasione di entrare nel ventre d'Europa, scontrandoci con le condizioni oggettive e soggettive della Storia.
Come avrebbe detto il nostro professore di filosofia. 

Non che non vedessi le possibili conseguenze, anzi. Ma - almeno finché non ci avessero puntato un fucile alla tempia - quella situazione ci offriva in fondo l'opportunità di respirare lo zeitgeist, lo spirito dei nostri tempi, sedendo in prima fila con vista sul mondo. Era come avere la possibilità di metter piede in Albania mentre la Vlora attraccava a Bari con ventimila persone a bordo. Era un'occasione unica di osservare le dinamiche che si generavano dall'altra parte del racconto, dove la Storia stava avvenendo. Bisognava solo trovare il modo di godersi l'esperienza, magari cogliendone gli aspetti tragicomici senza farsi sopraffare da quelli drammatici. Fino a scoprirsi a proprio agio anche nel pantano.

Politsia. Militsia. Beograd


Il fucile spuntò davvero. 
Sferragliando pigramente sui ponti che tagliavano il Danubio e la Sava, il treno cominciò la discesa agli inferi e si fermò nella vetusta stazione di Belgrado. Erano le 22.30, e dalla partenza da Budapest Keleti, 350km più a nord, erano passate otto ore e mezza. 
Ad attenderci sulla banchina c'erano gli uomini della Militsia serba. 
Prendemmo gli zaini e scendemmo. E mentre scendevamo pensai. 
Cosa sarebbe potuto accadere? 
"La Serbia e l'Italia sono in buoni rapporti" ci avevano detto alla frontiera. Più di Boban - che poi è croato - e Savicevic, c'entravano gli equilibri geopolitici, magari la compravendita di armi. Ma se c'era un briciolo di verità in quelle parole, allora non conveniva a nessuno ammanettarci, torturarci e darci in pasto a qualche tigrotto stile Arkan. Eravamo dei diciannovenni squattrinati e inermi, appena usciti dal liceo classico più antico di Roma. Se ci avessero torto un capello, tempo un grado di separazione e la storia sarebbe finita sulla RAI e poi a Montecitorio con sufficiente fragore e indignazione da rovinarlo, quel rapporto tra Italia e Serbia. 
Ammesso che fosse davvero buono. 

Politsia. Militsia. Beograd

Quella era la prima discriminante. 
La seconda componente che giocava a nostro favore - e che in futuro, quando nei guai ci sarei finito puntualmente da solo, mi sarebbe mancata - è che eravamo cinque. Non ne sapevo nulla di diplomazia, ma avevo l'impressione che l'arresto e l'incriminazione di cinque giovani scavallava oltre il confine della punizione esemplare per una ragazzata e sconfinava nel campo del caso diplomatico
Anche lì, impossibile sapere quanto ne fossero consapevoli i poliziotti, i militari e i controllori. Ne' quanto eventualmente gliene fregasse.


E poi c'era la componente umana. Quel gigantesco schifo che i Balcani stavano vivendo da 3 anni aveva ispessito la pellaccia di quelle persone? Le aveva desensibilizzate? Oppure ne aveva alimentato il rigetto per le ingiustizie? 
L'impunità garantita dalla divisa, l'assuefazione al veleno e la sindrome di accerchiamento li avevano deresponsabilizzati fino a trasformarli in aguzzini anonimi? Volevano sfogare la fame di brutalita' gratuita seviziando un canarino o si accontentavano di giocare al gatto con il topo? 
Non riuscivo a staccare gli occhi dai volti di quegli uomini. 
Cosa gli passava per la testa? 
Avidità, certo. Onore ferito, anche. Ma poi?
C'era rabbia, cattiveria, orgoglio patrio, fedeltà ai principi, voglia di vendetta o cosa? 


Della stazione di Belgrado non vidi altro che l'insegna al neon e quelle facce in divisa. 
Tanto che 13 anni dopo, alla fine del giro del mondo, volli tornarci per ricostruire la scena, della quale avevo osservato i particolari ma non avevo presente la scenografia.
Guardavo gli occhi e le labbra. Mi persi tutto, ma colsi il momento in cui tra i falchi e le colombe furono quest'ultime a prendere il sopravvento. Fu un minuto prima che il treno ripartisse verso sud. 
Non saprò mai cosa si siano detti. 
Probabilmente soppesarono i costi e i benefici di quella situazione e alla fine decisero che c'erano modi migliori per intascare il bottino senza rischiare di sporcarsi le mani e di rovinare ulteriormente l'immagine e i rapporti internazionali della Serbia. 

Il resto della storia è quasi altrettanto lungo. Tornati a bordo ci spedirono nel primo scompartimento, quello dal quale il tutto era partito. 
E per tutta la notte ci interrogarono. 
Tre controllori e due militari armati. Eravamo in dieci, senza contare i fucili, e in dieci passammo la notte a giocare. Loro a raddoppiare la posta, noi a fare gli gnorri. 
"Dove avete preso i dinari? Chi vi ha dato i soldi?". Il loro obiettivo era diventato non solo prendersi i dollari mancanti, ma anche incastrare chi aveva commesso il reato assieme a noi, per poter estorcere anche a loro i dollari e chissà cos'altro.  
"810 dinari ci avete chiesto e 810 ve ne abbiamo dati". 
Stettimo al gioco e non arretrammo. Quando la palla passava nel nostro campo, anzi, approfttai di un inglese che a loro mancava. Scoprii il potere della dialettica e avvertii il sottile piacere della sfida. 


Da Belgrado in poi la strada era in discesa, ma dovevamo comunque andarci con i piedi di piombo. E non solo perché i fucili erano sempre lì, il freno di emergenza era sempre lì, la guerra era sempre lì e i soldi erano sempre quelli lì. Ma anche perché sul corridoio c'era un viavai di uccellacci e uccellini.
Attraverso le tendine chiuse vedevamo sagome su sagome, e ogni tanto qualcuno cercava di ficcare il naso nello scompartimento. Tra gli occhi che spuntavano al di la' del plexiglass, distinguevamo quelli dei ragazzi che avevano chiuso Nesco nel bagno, imponendogli il cambio in nero. 
Gli avvoltoi ci marcavano a uomo. 
Denunciarli non ci avrebbe risolto un problema, al contrario. Ce ne avrebbe procurati una serie di altri. 
Intanto non avrebbe garantito a noi il perdono delle teste di cuoio - che a quel punto avrebbero avuto la confessione servita sul piatto - ma soprattutto l'eventuale spifferata ci avrebbe esposto alle ritorsioni della gang del cambio in nero, mettendoci tra l'incudine e il martello e rendendo la notte su quel treno ancora più frizzante.
 
Tenni botta, scoprendomi capace di gestire ansie, emozioni e parole con una sicumera che sarebbe tornata utile il mese prima, quando alla maturità la commissione esterna mi aveva chiesto l'unico capitolo del Risorgimento che non avevo neanche sfogliato. 

La storiaccia finì poco dopo l'alba. A Dimitrovgrad, sponda jugoslava della frontiera con la Bulgaria, i nostri carcerieri trattennero i passaporti abbastanza a lungo da farci capire che le avrebbero provate tutte per lavare l'onta subita e per spillarci i dollari che avevano pregustato. Solo quando i colleghi bulgari di confine salirono a bordo, i serbi dovettero ammettere che erano stati beffati, che avevano perso la partita contro cinque scolaretti della media borghesia romana. 
Uno di loro - ovviamente Nesco - dentro al passaporto trovò una multa, la cui notifica però non raggiunse mai il suo indirizzo di Monteverde Vecchio. 
Nei mesi successivi, le autorità di Belgrado ebbero oggettivamente altro a cui pensare. 

Affamati e stracotti, arrivammo a Istanbul alle 8 di sera del 6 agosto 1995 e ce ne innamorammo immediatamente. Quello scherzetto ci era costato talmente tanto - in termini economici - che oltre alla torre di Galata, al Topkapi e a qualche döner ci potemmo permettere solo due stanze in un alberghetto nel quale mancava l'acqua corrente. 
Tre giorni dopo, eravamo ancora innamorati di Istanbul, ma eravamo vestiti come all'arrivo in Turchia e puzzavamo come carogne. 
Dopo altri tre giorni ininterrotti di viaggio via Salonicco, Atene, Patrasso e Brindisi, e dopo un'ultima notte da incubo sull'espresso per Villa San Giovanni (il mio biglietto Inter Rail in teoria non era valido per quella tratta, ma io lo sapevo - il controllore italiano, per fortuna mia, no), venni raccattato a mezzogiorno davanti all'imbarco di Caronte dalla Renault Espace dei miei. 
Dopo un mese di silenzio stampa, nelle tre ore di strada fino a Kamarina non feci in tempo a raccontare un decimo di quelle avventure, ma riuscii ad appestare tutta la famiglia.


P.s. Salvate le penne, passai il mese seguente a divorare tutto quello che rastrellai sulla cronaca dei Balcani. Quello che era successo in quel mese, mentre i poliziotti ci dichiaravano in arresto alla stazione di Belgrado, era il massacro di Srebrenica. Quel viaggio non era stato solo il momento in cui avevo scoperto il gusto per l'adrenalina naturale, nel quale i casermoni che puzzavano di blocco sovietico e i doganieri slavi erano diventati il minimo sindacale per sentire di vivere nel mondo senza limitarmi a guardarlo o a passarci attraverso. Quel viaggio aveva segnato il punto in cui il secolo breve aveva intersecato la mia quotidianità. 
Fu più di un battesimo del fuoco, fu l'inizio di una serie di storie d'amore. 
Col viaggio e con la fotografia, con la lettura e con la scrittura, con la storia e con la geografia, con l'ignoto e con l'imprevisto. Con la vita.


L'anno seguente mi immersi talmente tanto nella storia dell'ex Jugoslavia che in Storia Contemporanea rimediai il primo e unico 30 e lode del mio percorso accademico. Non contento, visto che in Slavonia si sparava ancora, nel marzo del '96 mi aggregai ad un gruppo di volontari diretti in Bosnia, dove la guerra non si era ancora del tutto spenta. Quando partii per il giro del mondo, nel 2007, infine, decisi di chiudere il cerchio tornando proprio nella ex Jugoslavia. 
Per rivedere la Croazia e la Bosnia, ma ancor di piu' per rimettere piede in quel luogo mistico, mitico e mostruoso, la stazione centrale dei treni di Belgrado. 


P.p.s. Nel 1995, il marco tedesco era utilizzato come valuta de facto in Serbia. Non era cambiato alla pari, ma valeva tra i 10 e i 13 milioni di dinari jugoslavi. 800 marchi sarebbero potuti essere cambiati a quasi 10miliardi di dinari.