mercoledì 24 agosto 2022

The circle of life

Per quaranta secondi pensai che fosse tutto finito. Forse erano trenta, i secondi. Piu' probabilmente cinquanta. Comunque sia, lo pensai. Indossavo scarponi da trekking perche' il terreno era morbido e acquitrinoso, anche se su quel declivio non era particolarmente molle. I pantaloni da combattimento proteggevano le caviglie dagli insetti e le tibie dai rovi tra i quali mi ero districato camminando per ore. La maglietta era madida. In spalla avevo uno zainetto con l'acqua e la macchina fotografica. L'avevo riposta poco prima, quando avevo preferito raccogliere un bastone bello robusto. Lo stringevo nella mano destra. Immaginavo la scena e pensavo che, se lo avessi agitato vorticosamente, il mulinello avrebbe aumentato le mie possibilita' di proteggermi, di difendermi e di salvarmi. Quell'arnese mi assicurava il conforto, l'illusione e la speranza. Quello di cui avevo bisogno, visto che stavo camminando nel delta del fiume Okavango e che stavo per ritrovarmi a tu per tu con un leone. 
Il ranger mi aveva istruito su cosa fare e cosa non farein caso di incontro ravvicinato, ma arrivato al dunque capii che era stato inutile, il training prima e il bastone poi. 
Tanto per cominciare, i leoni erano due. 
E poi - appena mi videro - si irrigidirono. 
Con cinque balzi mi sarebbero saltati addosso. 
Secondo Salinger ciò che distingue l'uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l'uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa
Ecco, almeno da quel punto di vista ero sempre stato maturo. Vivevo per viaggiare e avevo accettato che le regole del gioco prevedessero situazioni di pericolo. Quel pomeriggio, pero', avevo superato la soglia del rischio, e la mia sopravvivenza non dipendeva piu' da me. 
In quel momento, per la prima volta, pensai che fosse giunta la mia ora.

Ero partito per il Sudafrica all'improvviso. Dopo la chiusura di rosso&giallo, avevo lavorato un paio di mesi alle dipendenze di un facoltoso odontoiatra romano che s'era messo in testa di realizzare un quotidiano in un garage sulla collina Fleming. Mi ero imbarcato in quella missione impossibile perche' a propormi il lavoro era stato un amico e perche' sapevo che sarebbe stata questione di tempo. Ne avevo immaginato vita breve, ma quell'esperimento duro' ancor meno del previsto. Avevo trovato comunque lo stesso il modo di spremermi come un limone e di lavorare senza percepire la seconda delle due mensilita'. Ma una sera di inizio novembre 2002, quando anche il dentista si era rassegnato e aveva abbandonato l'idea di diventare il nuovo Scalfari, sulla via di casa ero passato per il CTS di via Sannio e avevo acquistato un biglietto aereo per Johannesburg, pagandolo 400 euro perche' la partenza era prevista dopo una settimana e il ritorno era in programma il giorno di Natale. 
A distanza di tre mesi dal viaggio in Sudamerica mi sarei rimesso in marcia. A distanza di meno di un anno avrei rimesso piede nel Continente nero. Il mal d'Africa, pero', non c'entrava niente. 
      Anzi, quell'avventura mi metteva addosso una certa angoscia. Un paio di anni prima, il regime di Mugabe, nel vicino Zimbabwe, aveva disposto l'esproprio forzoso delle terre possedute dagli agricoltori bianchi, molti dei quali nipoti dei coloni trasferiti in Rhodesia piu' di un secolo prima. Mugabe aveva gettato benzina sul fuoco, definendo i bianchi nemici e legittimando un revanscismo etnico che si traduceva in violenze contro le persone dalla pelle chiara. Gli europei erano sempre stati percepiti come esponenti della razza che per secoli aveva sfruttato le terre e le genti del continente, ma a pagare il fio per secoli di vessazioni erano i primi bianchi fondamentalmente non colpevoli di nulla se non dell'essere - appunto - eredi di chi quei soprusi li aveva commessi. "Siamo pieni di rabbia nei loro confronti", aveva aggiunto Mugabe, sdoganando quel sentimento che covava incancrenito e che stava esplodendo in tutta la punta meridionale dell'Africa. Di quella miccia accesa alle sue porte, il Sudafrica non aveva assolutamente bisogno. A otto anni dalla fine dell'apartheid, le ferite non si erano ancora rimarginate, i contrasti interetnici erano all'ordine del giorno e si andavano ad aggiungere ai difetti strutturali di ogni grosso Paese alle prese con spaventose diseguaglianze sociali e un enorme divario tra ricchi e poveri. Una nazione che anche per questo contava le cinque citta' col tasso di criminalita' piu' alto del continente: Bloemfontein, Pretoria, Citta' del Capo, Durban e Johannesburg.  
Jo'burg non contribui' a fugare i miei dubbi. La prima persona nella quale mi imbattei fu un giovane insanguinato, un turista che era appena stato assalito in centro, in pieno giorno. Due balordi lo avevano minacciato e rapinato, dopodiche' avevano deciso di lasciargli il segno dell'aggressione, squarciandogli la maglietta con un temperino e ferendolo. Subito dopo, mi imbattei in un ragazzo zimbabwiano di colore che era fuggito dal suo Paese in fiamme. Bazzicava l'ostello in attesa di ottenere lo status di rifugiato in Canada o in Nuova Zelanda, non so con quali prospettive concrete di ottenerlo. 
"Evita come la peste Harare e dintorni - mi disse -. Bianco come sei faresti una finaccia". A conclusione di quella prima giornata sudafricana, nella camerata dell'ostello mi ritrovai a parlare con un intraprendente ingegnere svedese. Notai che gli mancava l'ultima falange del pollice della mano destra. Lui intui' la mia curiosita' e le ando' incontro. "Me lo sono dovuto amputare da solo - mi disse - per via del morso di una vipera del Gabon". Il rettile, un serpente soprannominato la morte vestita a festa, lo aveva sorpreso durante un trekking nella boscaglia e gli aveva iniettato una dose di veleno potenzialmente letale. Non avendo un siero a portata di mano, l'ingegnere svedese non ci aveva pensato su due volte, aveva estratto il coltello a serramanico e aveva provveduto ad amputarsi la falange, senza neanche la certezza che quel gesto avrebbe impedito al veleno di entrare in circolo.
      "Io da questo Paese non esco vivo", pensai. 
In quel parte del mondo, situazioni paradossali avvenivano tutti i giorni a tutti i livelli. Per porre un freno alla piaga dell'AIDS, per esempio, il Ministero della Sanità  aveva inviato milioni di preservativi alle autorità periferiche, con l'obiettivo di farli distribuire gratuitamente alla popolazione. La percentuale di donne incinte infette superava il 30% e la tendenza tra i ventenni parlava di un aumento dei contagi. Per rendere la campagna piu' efficace ed educare i cittadini, il dipartimento aveva fatto realizzare anche migliaia di opuscoli informativi, che spiegavano con vignette e parole semplici a cosa servissero e come andassero utilizzati i preservativi. I vari passaggi della vestizione e della svestizione erano illustrati per immagini, a beneficio di quel 15% della popolazione che non sapeva leggere o scrivere. Qualche autorità non meglio identificata - probabilmente il Ministero stesso - aveva pero' pensato bene di allegare le istruzioni ai preservativi, spillando i fogli illustrativi al centro profilattici. Uno per uno. Rendendoli cosi', uno per uno, inutilizzabili.
Per esorcizzare le mie paure e per saperne di piu' mi ero spinto anche nella baraccopoli di Soweto, la South Western Township piu' grande del Sudafrica, l'agglomerato di oltre un milione di persone nel quale nel 1976 era scattata la scintilla che avrebbe portato alla fine della segregazione razziale. Tra quelle capanne di lamiera e cartone, che solo pochi mesi prima erano state ufficialmente incorporate dell'area metropilitana di Johannesburg, mi convinsi che da quel Paese non ne sarei uscito vivo. Per aumentare le mie chances contattai Riccardo, un amico toscano che in quei giorni era in procinto di accompagnare un gruppo di Avventure nel Mondo in Sudafrica. I partecipanti, percependo forse la stessa angoscia che aveva accompagnato i miei primi giorni da quelle parti, mi accolsero a braccia aperte e mi adottarono fino a quando le nostre strade non si separarono lungo la costa meridionale. Loro avrebbero proseguito a bordo dei furgoncini verso Cape St Francis, io invece avrei atteso il primo autobus per Citta' del Capo. 
La fermata era alla periferia di Humansdorp, accanto ad un piccolo locale lungo la strada statale numero 2, l'arteria che collega Durban a Cape Town. Mi accomodai nel ristorantino in attesa dell'arrivo del pullman, previsto per le prime ore della sera. Citta' del Capo distava 700km, il tragitto sarebbe stato notturno e sarei arrivato a destinazione prima dell'alba. Alle 6 di sera, pero', i proprietari del locale mi avvisarono che avrebbero chiuso e che sarei dovuto uscire. Il bus partito da Port Elizabeth sarebbe passato da li' ad un'ora, tempo che avrei ucciso leggendo. Un'ora dopo, pero', il bus non si vide. Due ore dopo, neanche. Io invece ero sempre li', seduto sul muretto accanto alla fermata lungo la N2, con in mano La Citta' della Gioia. Intanto aveva fatto buio e dell'autobus non c'era ancora traccia. 
Cominciai a sentirmi leggermente inquieto. 
Le auto di passaggio erano sempre meno, ma quelle che sfilavano avevano a bordo gruppi di ragazzi sempre piu' rumorosi e sempre piu' curiosi. Quando mi passavano davanti rallentavano, abbassavano i finestrini e mi squadravano. Nella migliore delle ipotesi pensavano "Questo cosa fa qui a quest'ora?", nella peggiore "Chissa' che gusto avra', questo qui, allo spiedo". In buona parte la mia era suggestione indotta dal biglietto da visita col quale si era presentato il Sudafrica. In ogni caso, pero', l'atteggiamento dei pochi ragazzi al volante non contribuiva a rendere piacevole l'attesa del torpedone. Dopo due ore mi domandai se sarebbe effettivamente passato o se per caso fosse gia' passato e io lo avessi perso. Verso le 21, i nervi saltarono e persi la speranza. Mi guardai attorno e stabilii che l'unica cosa da fare era cercare rifugio nel recinto attorno al locale, trascorrere li' la notte e rimandare al giorno seguente la ricerca di un passaggio per Citta' del Capo.  
La casetta era sigillata, ma trovai un angolo che sembrava sufficientemente riparato, tra il muretto di cinta e una parete del ristorantino. Li' sarei stato protetto dagli spifferi e sarei stato invisibile dalla strada. Nonostante le vipere del Gabon, in quel momento nulla mi sembrava piu' pericoloso degli esseri umani di sesso maschile che guidavano le auto scassate alla periferia di Humansdorp agitando il collo a scatti al ritmo dell'hip hop sparato a tutto volume. Mi stesi sul terreno, poggiai la testa sullo zaino e guardai il mondo dal basso. Il cielo era velato, Sirio si vedeva appena. A sinistra, il muro della casetta era scrostato ma pulito. A destra, il parapetto che delimitava la proprieta', no. A trenta centimetri dal mio naso, sepolta in una matassa di filamenti di fibroina, c'era una colonia di aracnidi. Grossi come mandarini e pelosi. Ragni babbuini o tarantole, non ebbi il coraggio di chiederglielo. Erano in piena attivita', stavano tessendo una tela spessa come un maglioncino e sembravano eccitati all'idea di trascorrere la notte assieme. Sebbene fossi il benvenuto, declinai l'invito e mi alzai di scatto. 
"Io da sto Paese non esco vivo", mi dissi, mentre mi appoggiavo al palo della fermata.  
Mi stavo ancora domandando quale sarebbe stata la prossima mossa quando poco dopo, da est, spuntarono dei grossi fanali. Era il mio bus. Con tre ore di ritardo sulla tabella di marcia e dopo averci lasciato il cuore e qualche mese di vita, salutai Humansdorp. Non chiesi spiegazioni all'autista, trovai un posto libero accanto ad un giovane assopito, sprofondai nel sedile, poggiai la testa sul finestrino e mi svegliai solo alle prime ore del mattino, quando il veicolo rallento' entrando a Citta' del Capo.
Il Capo di Buona Speranza
Rimasi alcuni giorni nel primo insediamento europeo in Sudafrica, fondato nel 1652 dalla compagnia olandese delle Indie occidentali. Salii a piedi su Table Mountain, percorsi la Garden route in bicicletta e visitai il Capo di Buona Speranza. Chissa' quanti altri promontori erano stati battezzati allo stesso modo da Bartolomeo Diaz e da Vasco da Gama nel loro percorso di circumnavigazione dell'Africa verso l'India. Centinaia, forse. Sfidando il mare verso l'ignoto, ogni promontorio diventava per l'equipaggio a cape of good hope, quello che i marinai a bordo speravano fortemente annunciasse la fine del continente e l'inizio della risalita. La sorte di essere il finis terrae tocco' a questo promontorio, che per la cronaca non e' neanche il punto piu' meridionale dell'Africa, perche' quello e' Cape Agulhas, 150km piu' ad est. E' - appunto - uno dei tanti Capi di Buona Speranza lungo la curva meridionale del continente. E per questo non segna neanche il confine tra l'oceano Indiano e l'Atlantico. 
A Citta' del Capo recuperai le forze in vista della seconda parte del viaggio e mi misi alla ricerca di un obbiettivo per la mia Nikon. Il suo predecessore era deceduto 100 giorni prima, alla fine della ruta bolivariana che mi aveva portato dal delta dell'Orinoco a La Paz, dal Venezuela alla Bolivia. Dovevo risalire verso Lima, da dove sarei ripartito, e dovevo farlo in fretta, visto che l'impaginazione dell'intervista a Byron Moreno mi aspettava. Quando arrivai ad Arica, la citta' piu' settentrionale del Cile, non riuscii a prendere il bus diretto ad Arequipa e mi dovetti accontentare di quello in partenza per Tacna, sul lato peruviano della frontiera. 
Quando salii a bordo, mi apparve una scena da commedia dell'arte. 
Una dozzina di persone, tutte donne indigene di etnia aymara e mapuche, stavano svuotando un mucchio di borsoni carichi di indumenti che poi indossavano. Uno sull'altro. Quattro, cinque, sei, sette, otto, nove strati di abiti, tutti indosso. Qualcosa finiva annodato sui mancorrenti o nascosto sotto i sedili. Molta roba veniva schiaffata nel vano bagagli. Quelle donne contrabbandavano abbigliamento di seconda mano tra Cile e Peru' e lo facevano alla luce del sole. Ridevano tutte a crepapelle. Un po' perche' la mia presenza doveva essere inattesa su quel bus riservato ai loro magheggi, un po' perche' alla fine della fiera sembravano tutte le zie dell'omino Michelin. La mia sorpresa non fini' li'. Alla dogana, 18km piu' a nord, i controlli furono severi solo fino ad un certo punto. Gli ufficiali cileni e quelli peruviani rastrellarono quel che poterono, svuotando i borsoni e passando in rassegna i bagagli nella stiva. Nonostante l'aria generalmente ilare, quello era un crimine perseguibile, per di piu' al confine tra due Stati che fino a 100 anni prima si erano fatti la guerra, ma evidentemente quella era una farsa ben collaudata. E infatti ando' in porto. E cosi' come loro non avrebbero dovuto contrabbandare abiti, io non avrei dovuto immortalare quella scena. Invece, tanto per cambiare, lo feci. Peccato che nel tentativo di smontare lo zoom e di montare il grandangolo senza farmi notare, l'obbiettivo 80-200mm volo' e ci lascio' le penne. Il bus impiego' due ore per coprire i 50km tra Arica e Tacna, io arrivai ad Arequipa in piena notte (e dormii in un postaccio di fronte al terminal), ma di quel giorno mi rimasero le risate crasse delle donne indigene che - nonostante la merce sequestrata - arrivarono a Tacna con centinaia di chili di abiti indosso. Mi rimasero anche due foto rubacchiate e un zoom scassato. Che sostituii a Citta' del Capo dietro la garanzia che l'IVA mi sarebbe stata restituita se avessi dichiarato l'acquisto uscendo dal Sudafrica.    
Accadde tre giorni dopo, quando attraversai le regioni del nord-ovest dai nomi afrikaans impronunciabili e irriproducibili - Namaqualand, Richtersveld, Vioolsdrif - e da li' sconfinai in Namibia. Nella cabina di legno sulla sponda sudafricana del fiume Oranje, gli ufficiali di frontiera mi consegnarono un formulario da compilare per la restituzione delle imposte sullo zoom. 
Dopo qualche mese, nella cassetta delle lettere trovai con sommo stupore un assegno della Rabobank.
A Windhoek assaggiai carne di impala e di coccodrillo, nel resto della Namibia invece, soprattutto tanta sabbia. Il Paese era talmente stritolato nella morsa del caldo secco ed era talmente piatto che risultava essere quello con la piu' alta percentuale di strade sterrate al mondo. Asfaltarle era inutile, tanto le temperature avrebbero finito comunque per creparne la superficie, rendendole inutilizzabili. In uno Stato grosso come tutta la penisola Balcanica, investire nella manutenzione del manto sarebbe diventata una lotta contro i mulini a vento. Tanto valeva far circolare i pochi mezzi sul pietrisco. E se poi foravano era peggio per loro. 
Il mezzo sul quale viaggiavo non foro', ruppe. Il motore esalo' l'ultimo respiro ad un'ora da Gobabis, l'ultimo centro namibiano prima del confine col Botswana. Visto che era sera, finii per passare la notte in una fattoria, il cui proprietario era stato incaricato dal governo di Windhoek di curare e rimettere in sesto degli animali selvatici finiti nelle trappole dei bracconieri destinate a loro o ad altri esemplari.
 
Nel suo centro di recupero, il farmer namibiano allevava struzzi, fennec, manguste, gazzelle e facoceri. Tra gli inquilini della fattoria c'erano anche un paio di ghepardi e altrettanti leopardi. Idealmente avrebbero avuto bisogno di un percorso di riadattamento alla vita nella steppa del Kalahari, ma intanto ricevevano cibo - quintali di carne d'asino a settimana - e cure. Il prezzo da pagare era la cattivita' in gabbie piuttosto strette, per il bene di tutti: del propretario, degli struzzi, delle gazzelle e nella circostanza anche dei reduci del camion in panne. A maggior ragione perche' l'unica sistemazione disponibile era in tenda. 
Di notte, il deserto si animo', e oltre ai rumori della natura arrivarono anche gli echi di canti dei boscimani. Una ventina di esseri umani avevano acceso un fuoco appena oltre il recinto della fattoria. E attorno al fuoco ballavano in cerchio, narrando e cantando le gesta della loro stirpe.  
I primi esseri umani migrarono a sud delle foreste del continente africano piu' di 20mila anni fa. Tra i bantu, le genti, che si stabilirono nelle regioni orientali e meridionali dell'attuale Sudafrica emersero gli xhosa e gli zulu, tribu' di cacciatori e di agricoltori. Nell'entroterra desertico, trovarono invece la loro dimensione i popoli Khoikoi e San, tra i quali gli eredi piu' noti furono gli ottentotti e i boscimani, i bushmen, gli uomini dei cespugli. Date le loro caratteristiche comuni, in termini antropologici vengono collettivamente tutti chiamati KhoiSan, una definizione-ombrello che racchude i principali gruppi etnici che abitano le regioni del Kalahari a cavallo tra il Botswana e la Namibia. Di statura più piccola i San, in prevalenza cacciatori-raccoglitori seminomadi, mentre i Khoi hanno sviluppato uno stile di vita piu' stanziale e sono viceversa pastori. Fisicamente e culturalmente sono affini, accomunati anche da abitudini simili e da una lingua inconfondibile, punteggiata da una serie di suoni ipnotici, tecnicamente chiamati avulsivi
Si tratta di click associati ad alcune consonanti per pronunciare le quali i Khoisan prima gonfiano la lingua, poi la fanno schioccare sotto al palato. Tutte le lingue khoisan sopravvissute sono confinate nell’Africa meridionale, ad eccezione di due - l'hazda e il sandwane - che sono isolate in Tanzania, a quasi 2000km dalla partente più vicina. L'antropologo e linguista statunitense Joseph Greenberg parti' dallo studio di 222 lingue vive per arrivare a dimostrare che è l’Africa la patria di origine di chi scrisse la Bibbia e il Corano. Una teoria assolutamente in linea con quella ancor piu' comunemente accettata, sviluppata in seguito agli studi sul DNA mitocondriale, e che fa supporre che dai Khoisan derivi l'homo sapiens, cioe' tutti noi    
Quelli che incontrai alle porte dell'accampamento non erano Khoisan particolarmente bassi. Nudi, pero', si'. Indossavano un gonnellino e a tracolla portavano una bisaccia nella quale conservavano le frecce e le uova di struzzo, con le quali trasportvano l'acqua ogni volta che la trovavano. Nient'altro. Niente calzari, ne' altri indumenti, ne' altri averi, a parte qualche utensile per la caccia. Le scarpe su quel terreno - mi spiegarono - sarebbero state inutili e dannose. Per camminare tra le dune di sabbia, i boscimani avevano imparato a zompare con la frequenza e l'energia dei saltatori tripli. In quel modo le piante dei piedi restavano a contatto con la sabbia il minimo indispensabile. 
"Guarda, e' piena piena di pallini neri", mi mostrarono. 
Era materiale ferroso, che con il sole a picco diventava incandescente. Dopo un'ora di cammino mi bruciai i piedi pur indossando i sandali. Loro no. 
Il loro portavoce, un giovane boscimane che parlava inglese, spiego' come nei millenni il suo popolo si fosse adattato alle sfide proposte del deserto e come in questo non fossero soli. Alcune piantine, che sembravano a prima vista morte, tornavano alla vita nel momento in cui ricevevano una sola goccia d'acqua, aprendosi e assumendo colore. Gli animali selvatici, avevano imparato a sfruttare la sabbia come un alleato se erano predatori e come uno scudo se erano prede. Tutto, in quell'ambiente, sembrava incredibilmente vivo. Altro che deserto. 
Gli esseri umani, e fu la cosa che piu' mi sorprese, erano talmente adattati a quelle condizioni che il loro organismo e il loro metabolismo era piu' simile a quello degli animali selvatici che non non al mio.
"Come fate a procurarvi cibo tutti i giorni?", gli chiesi.
"Cacciamo antilopi, in particolare gli orici", mi rispose.
Cioe' bovidi di taglia medio-grande, bestie da 200kg dotate di corna e zoccoli potentissimi. 
Cacciarli senza armi da fuoco rappresentava un pericolo. Ma anche consumarli non doveva essere il massimo della vita, senza forno, posate, odori e tutto quello di cui noi disponiamo. 
"Li cuociamo sul fuoco e stiamo a posto per una settimana', aggiunse il ragazzo, sistemandosi i tipici ciuffetti crespi e fitti.
"Cioe?"
"Li mangiamo in un'unica soluzione. Possiamo ingerire fino a 7 chili di carne in un pasto e poi non abbiamo bisogno di consumare altro per parecchi giorni", specifico'.
Lo stomaco e l'apparato digerente dei boscimani erano piu' simile a quello dei felini che a quello sviluppato dagli esseri umani nel corso dei millenni grazie all'agricoltura e alle tecniche di stoccaggio e conservazione del cibo. Da quel punto di vista, l'evoluzione non li aveva neanche sfiorati, perche' le condizioni in cui vivevano, il loro essere nomadi del deserto, non lo richiedeva.
Un dettaglio del terreno del parco nazionale di Etosha
     Due giorni dopo, attraversai il confine con il Botswana. L'ex Beciuania era da sempre lontano dai drammi sociali e politici che avevano da tormentato i suoi vicini territoriali, ma non per questo era un piccolo Eden. Anzi, quella stretta tra Namibia e Mozambico era una regione cosi' povera che la moneta nazionale era stata battezzata pula, che nella lingua locale significa pioggia. Il pula è a sua volta composto da cento thebe – cento gocce di pioggia – tutte cose che in un Paese quasi interamente desertico e senza sbocco sul mare sono preziose come il denaro, se non di più. Fino a 40 anni prima il PIL pro capite annuo del Botswana non superava i 70 dollari, meno di venti centesimi al giorno. 
L'uscita graduale dall'estrema poverta' era avvenuta a partire dagli anni Settanta grazie alla scoperta e allo sfruttamento di enormi miniere di diamanti, ma anche di rame, nickel, carbonato di sodio, oro e carbone, che avevano dato ossigeno all'economia statale e fatto nascere una classe media tra i due milioni di abitanti sparsi su un territorio piu' grande di quello della Spagna. Sul piano politico e sociale, il Botswana aveva ottenuto l'indipendenza dal Regno Unito nel '66 e da allora aveva sempre respinto le mire espansionistiche e qualsiasi interferenza da parte del governo di Pretoria, rifiutando il segregazionismo razziale dei vicini sudafricani. Gaborone aveva assunto una posizione sempre più critica nei confronti dell’apartheid ed era stata ricompensata dalla sorte: sul finire degli anni Settanta, la scoperta di tre formazioni diamantifere fra le più ricche del mondo aveva innescato un boom senza precedenti e aveva consentito al Botswana di sottrarsi alla dipendenza economica dell'ingombrante vicino.
La prima tappa fu Maun, una cittadina nota per la quantita' abnorme di capre e di asini sfuggiti ai loro proprietari e che circolavano a piede libero, e per essere la porta d'accesso al delta dell'Okavango, la regione nella quale il fiume nato in Angola sfocia non in mare aperto, ma nella piana del Kalahari, dove da' vita ad una pianura alluvionale delle dimensioni della Sicilia. Un ecosistema fatto di canali, isole e lagune, protetto dall'UNESCO ed enorme - il secondo al mondo di questo tipo dopo quello del fiume Niger. Il delta ospita esseri umani di cinque etnie diverse, ma anche una quantita' di rettili, anfibi, uccelli e mammiferi che ne popolano le isole. Un quinto della sua porzione e' occupato da una riserva naturale, quella di Moremi, talmente remota che e' raggiungibile solo a bordo di un superleggero. Prima del tramonto, piantai la tenda su una piattaforma di legno che si lasciava preferire rispetto al terreno paludoso, soprattutto in piena stagione malarica. Ero partito dall'Italia talmente in fretta che non avevo avuto il tempo di sottopormi alla profilassi. Le zanzare causano ogni anno la morte di 420mila persone, ma il paludismo al momento era l'ultimo dei miei pensieri.   
Un'immagine del delta del fiume Okavango dal superleggero
Ogni anno sono infatti almeno 500 gli esseri umani uccisi in Africa dagli ippopotami. Il 501esimo sarebbe potuto essere Chris, l'inglese col quale cenai e che aveva il braccio sinistro avvolto in uno spesso gesso. Con l'altro braccio mi indico' il fiumiciattolo che scorreva ai margini dell'accampamento e il gruppo di canoe che rappresentavano il mezzo di trasporto tra i meandri del delta. "Ero a bordo di una di quelle - mi disse - quando ne ho urtato uno. L'ippopotamo si e' girato di scatto e io sono volato in acqua. Mi sono rotto il gomito, ma poteva andarmi molto peggio". Poteva essere il 501mo, appunto.
La sera stessa, uno dei ranger del parco venne a parlare con gli ultimi arrivati nel campeggio. Il giorno seguente saremmo stati noi a prendere le mokoro, le imbarcazioni ottenute svuotando i tronchi delle kigelie africane, conosciute anche come alberi delle salsicce. 
Pagaiando tra i canali avremmo raggiunto un gruppo di isole sulle quali avremmo potuto vedere e incontrare da vicino gli animali selvatici. Ovviamente camminando, quindi senza la protezione del fuoristrada o di altri mezzi meccanici. E anche senza la protezione di un'arma da fuoco. Pochi giorni prima avevo partecipato ad un safari a piedi nel parco sudafricano di Hluhluwe che ospita una discreta colonia di rinoceronti bianchi e neri e che e' percio' molto frequentato anche dai cacciatori di frodo. Fosse per l'una o per l'altra ragione, il ranger che mi aveva accompagnato a spasso per Hluhluwe era dotato di un fucile. Col quale sparo' un colpo in aria quando incocciammo un rinoceronte che aveva annusato la presenza umana e dava l'impressione di essere sul punto di caricare. 
"I rinoceronti sono fondamentalmente ciechi. Se ne vedete uno, fiutate l'aria e mettetevi sottovento - ci spiego' il ranger -. In questo modo limiterete la possibilita' che vi individui e vi scarichi addosso la sua tonnellata di muscoli lanciata a 60km all'ora.
"E un fucile? In caso di emergenza avrai un fucile?", chiesi. 
La risposta era no. Il ranger era venuto per spiegarci esattamente questo. Cioe' come comportarsi in caso di incontro con uno dei big 5 senza mezzi di trasporto o armi da fuoco ad attutire il senso di impotenza che una situazione del genere comportava.
"Se incontrate un bufalo dovete nascondervi dietro il tronco di un albero. Se invece capitate davanti ad un elefante imbizzarrito, sull'albero dovete salirci", specifico', salvo poi aggiungere che "...per limitare il rischio di essere attaccati dai leopardi, invece, bisogna evitare di camminare sotto gli alberi, visto che tendono a cacciare partendo proprio dalle loro chiome".
Ricapitolando: dovevamo sfruttare gli alberi per difenderci dai bufali e dagli elefanti, ma evitarli per non finire nella trappola del leopardo. Gia' cosi' sembrava uno scherzo.   
"E il leone?" chiesi, memore dell'incontro ravvicinato nel public campsite del Serengeti. 
"Il leone, come tutti i felini, viene attirato da quello che si muove. Se ne incontriamo uno, bisogna restare assolutamente immobili. E' l'unica cosa che si puo' fare".
E pregare, aggiunsi.
Il corso rapido di sopravvivenza sui big 5 non tocco' l'argomento-ippopotamo. Un'ingiustizia, considerando che quelli si danno tanto da fare per costruirsi una nomea di animali letali e e che il giorno seguente ci ritrovammo con le prime luci dell'alba a pagaiare tra i canali del delta, incuneandoci tra i canneti con le mokoro. Eravamo otto stranieri, due per ogni canoa. A me capitava sempre quella in testa al gruppo e tra i due ero sempre io quello a prua. Un'altra ingiustizia. Ad ogni curva, ad ogni strettoia, ad ogni passaggio tra i canneti che bloccavano la visuale, tremavo al pensiero di urtare un ippopotamo e di fare la fine di Chris. Se non peggio. "Io da qui non esco vivo", dissi. Sperando che la macumba al contrario funzionasse in Botswana come aveva funzionato in Sudafrica. 
Fu un'ora molto lunga. E in mezzo, quando ci fermammo per sgranchirci, passeggiando per un villaggio Batawana, al ritorno trovai la mia canoa okkupata da un legavaan di quasi due metri, un varano delle rocce di mezzo quintale aveva preso possesso del vano del mio mokoro, che gli offriva certamente piu' tepore e meno umidita' rispetto all'ambiente circostante. Convincerlo a sloggiare fu piu' facile che convincere me stesso a sedermi nella canoa, dove il grosso sauro aveva defecato e urinato.   
A meta' mattinata arrivammo all'inizio del nostro percorso a piedi. Abbandonammo le canoe e cominciammo a camminare in un'area della riserva particolarmente lussureggiante, nella quale spiccavano come grattacieli della skyline di una metropoli moderna dei giganteschi termitai, che in qualche caso svettavano sopra le giraffe e che dall'alto dei loro 5/6 metri di altezza venivano utilizzati dai felini come torrette per l'avvistamento delle prede. Le quali prede, viste da terra, perdevano molta della simpatia da vittima sacrificale che suscitvano dall'abitacolo di un veicolo. I facoceri, per esempio, sembravano improvvisamente esseri nerboruti e aggressivi ungulati dai quali guardarsi perche' potenzialmente pericolosi. Stesso discorso per le zebre. Rispetto al safari su fuoristrada era tutto amplificato - i suoni, gli odori, le dimensioni, persino i colori. Se i termitai rubarono subito l'occhio, quello che poi colpi' l'immaginazione furono degli ammassi di escrementi bianchi. "Sono delle iene - spiego' il ranger -. Quelle rosicchiano e spolpano le ossa delle loro prede oppure fanno razzia delle carcasse". A forza di mangiare ossa altrui, le iene osteofaghe espellono escrementi biancolatte. Uno di quei dettagli impossibili da notare da lontano.
"Laggiu' c'e' un leone".
Dopo molte ore di cammino, quando la noia stava prendendo il sopravvento sulla stanchezza, il ranger richiamo' la nostra attenzione. Aveva intravisto il felino ad alcune centinaia di metri di distanza, in un punto nel quale la vegetazione era alta mezzo metro. Nonostante ci sforzassimo, non lo distinguevamo. "Volete avvicinarvi?", ci chiese.
Non so perche' dicemmo di si'. Probabilmente perche' stanchi di incrociare mandrie di erbivori, pile di termitai e cacche di iena a profusione. Perche' al netto delle premesse, la giornata era stata piuttosto piatta. Forse perche' eravamo li' e tanto valeva ballare. Forse perche' demmo per scontato che se un ranger proponeva ad un gruppetto di stranieri di avvicinarsi a piedi ad un leone, la cosa tutto sommato dovesse essere meno pericolosa di quel che sembrasse e suonasse. Quindi ci incamminammo. 
L'area era delimitata sulla destra da una zona boscosa. Sulla sinistra, invece, la vegetazione era meno fitta e soprattutto il profilo del terreno era piu' ondulato. L'idea era quella di avvicinarsi al leone non andandogli incontro, ma disegnando un semicerchio, per poterlo poi osservare dalla cima della collinetta che secondo la ricostruzione del ranger di trovava all'altezza del re della giungla. O della foresta. Nel caso specifico del delta acquitrinoso malarico con gli ippopotami mannari.
Ci dirigemmo verso il poggio sulla nostra sinistra, e appena usciti dalla rada sentii i battiti aumentare. Riposi la Nikon nella borsa e da terra raccolsi una ramo, poi una verga, poi una mazza, poi un randello, poi un battocchio, poi una pertica, poi una clava finche' non trovai il bastone che mi sembrava assicurare il giusto compromesso tra resistenza e maneggevolezza, solidita' e leggerezza, nutrimento e gusto. 
Ci disponemmo in fila indiana, con il ranger disarmato in fondo alla coda. Per controllare la situazione, disse. Affermazione che non suono' rassicurante. Io ero il secondo della schiera. Davanti a me un signore austriaco sulla quarantina, con una capigliatura nera folta e scomposta e i baffi da tricheco. Il Frank Zappa di Innsbruck mi precedeva di pochi metri. Poi, improvvisamente, si arresto'. Eravamo spuntati in cima al declivio, il rialzo del terreno da dove speravamo di regalarci una visuale piu' ampia della rada e di poter ammirare il leone che era stato individuato dal ranger.
Fu li' che vedemmo il leone. In compagnia di una leonessa.
I due ci avevano individuato da un pezzo e ci stavano aspettando ai piedi del declivio. 
Erano immobili e sulle quattro zampe, ad una distanza di 20 metri, massimo 30. 
Quando incrociarono i nostri sguardi, vidi chiaramente le loro pupille gialle dilatarsi.
Frank Zappa, che mi era davanti, lo vide ancora meglio di me. 
La sua schiena si induri', come come travolta da una scossa e l'austriaco si stiro' in alto come una tavola da surf, prese fiato, lo trattenne, sparo' l'ossigeno lungo il fascio di nervi, poi si contrasse come una molla e parti'. 
Fu piu' forte di lui.
In un attimo, si giro' e comincio' a correre piu' veloce che poteva. 
Sfilo' a pochi centimetri da me e scappo' nella direzione opposta a quella dei leoni.
"Il leone, come tutti i felini, viene attirato da quello che si muove. Se ne incontriamo uno, bisogna restare assolutamente immobili"
Facile, a parole.
Duro' 40 secondi. Per quaranta secondi pensai che fosse tutto finito. Forse erano trenta, i secondi. Piu' probabilmente cinquanta. Ma lo pensai. E non feci neanche in tempo a pensare io da sto Paese non ci esco vivo, perche' fu tutto troppo rapido e intenso e richiese la mia partcipazione attiva. 
La corsa di Frank Zappa ebbe sui leoni l'effetto di una frusta. 
Il maschio alzo' la coda, la femmina tese i muscoli. 
Il linguaggio del loro corpo era quello di chi si sta per lanciare sul buffet. 
La tartina al caviale ero io. 
"A meno che non faccio anche io un giro di 180 gradi e comincio a correre piu' veloce che mai. Non saro' piu' veloce dei leoni, ma mi basta esserlo dell'austriaco, e di uno degli altri sei in fila indiana alle mie spalle", pensai. 
Non la soluzione ideale, ma forse l'unica con qualche chances di riuscita.
Le zampe dei leoni si irrigidirono. 
Da un momento all'altro, sarebbero scattati. 
Per percorrere quella distanza avrebbero impiegato 2, massimo 3 secondi. 
Incassarono le spalle, incarcarono impercettibilmente il ventre.
Io feci lo stesso. E mollai a terra il bastone.
Avevo deciso. Sarei scattato nella direzione opposta e avrei corso il piu' veloce possibile.. 
"DONT' MOVE! DOOON'T MOOVE!" 
Dal fondo della fila indiana, il ranger soffoco' un urlo disperato, sussurrandolo. 
Aveva capito cosa stavo per fare e decise di bloccarmi, per evitare di far precipitare la situazione. 
Avevo perso la cognizione di quel che stesse succedendo alle mie spalle, non sentivo nessuno e non sapevo neanche se fossero ancora tutti li'. Il suo grido strozzato mi entro' nelle orecchie e nel cervello. Non aveva dimostrato particolare lungimiranza, ma decisi di fidarmi di lui.
Nel caso di uno stress acuto come la percezione di un predatore, l'organismo dell'animale che e' in noi attua una catena di reazioni psico-neuro-endocrine e immunologiche finalizzate a garantirsi la sopravvivenza. In termini fisiologici o psicologici si chiama reazione di attacco o fuga e viene paragonata a quella messa in atto dall'organismo in caso di attacco virale o batterico.
Ora, la possibilita' che io potessi attaccare il leone si era ridotta sensibilmente nel momento in cui ero venuto al mondo come essere umano invece che come tirannosauro. L'ipotesi della fuga mi era stata invece appena malamente bocciata dal ranger, proprio quando stavo per aggiungere altro pepe a quel pomeriggio movimentato sul delta dell'Okavango.
Mi restava il fatalismo.
Una sensazione utile per inquadrare il proprio posto nel mondo, per relativizzare il mito dell'antropocentrismo e per rinunciare a ogni velleita' di onnipotenza.
Pero' - diamine - fino a quel momento avevo sempre avuto l'impressione di poter contribuire al mio destino, di poter cercare e trovare una via di fuga. Anche nelle situazioni piu' estreme, sapevo sempre che un po', almeno un pochino, potevo incidere. Anche nel caso di un bombardamento aereo o del deragliamento di un treno o dell'aggressione di due malintenzionati per strada, una piccolissima percentuale della mia sopravvivenza dipendeva da me, dal mio istinto, dal mio atteggiamento, dal mio comportamento.
Li' no. Davanti a quei leoni sarebbe stata fortuna. Quasi esclusivamente fortuna.    
Il leone e la leonessa rimasero' immobili per qualche secondo.
Continuarono a fissarmi, senza mai staccarmi quei quattro occhi fosforescenti di dosso.
Ironia della sorte. Io che avevo sempre amato tutti gli animali, ma in particolare proprio i leoni.
Tenni lo sguardo, lasciando ai miei ormoni impazziti il compito di comunicare il resto.
Poi lui si mosse, piano piano, continuando a fissarmi. E lei lo segui'.
Tremai, ma restai fermo.
I due leoni fecero un passo, poi un altro e un altro ancora. 
Dopodiche', invece di venire verso di me, restarono ai piedi del poggio e proseguirono verso la mia destra, disegnandomi un cerchio attorno. 
Rimasero sempre alla stessa distanza, sempre a due secondi da me. 
Finche', dopo qualche istante, sparirono dalla mia visuale. 
Ero salvo. 
Mi accasciai, metre il ranger si venne ad accertarsi che fossi sopravvissuto dentro, oltre che fuori.
"Barely. A mala pena", dissi. Poi cercai con lo sguardo Frank Zappa. Tacci sua.  
Nonostante lo spavento, tocco' ancora a me guidare la processione di canoe che ci riporto' al campeggio, dove vedemmo una mandria di pachidermi attaccare due motoscafi che cercavano di farsi strada in una strettoia dell'Okavango.
In confronto, l'ultima settimana di quel viaggio fu rilassante come un pediluvio. A parte quando, ripartendo da Maun, l'autista del mezzo accese il gas senza essersi accorto che un gatto aveva cercato riparo dal caldo infilandosi nel vano motore. Quel che ne segui' fu per stomaci forti, ma per fortuna non spetto' a me rimuovere i pezzi della carcassa maciullata del micio.
Tocco' a Mike, il camionista boero col quale percorsi l'ultimo migliaio di chilometri, tra il lato zambiano delle cascate Vittoria e Johannesburg. 
Sei settimane dopo, nell'Airport Backpackers c'era ancora il ragazzo zimbabwiano in attesa dello status di rifugiato. Quando mi vide strabuzzo' gli occhi: aveva scommesso che non sarei tornato vivo. Quando mi ispeziono' alla ricerca di qualche osso rotto, gli mostrai l'unica, piccolissima, ferita che mi ero procurato al confine tra Botswana e Zambia. In attesa della chiatta che mi avrebbe portato a Kazungula, al di la' del fiume Zambesi, una formica aveva affondato i suoi denti mandibolari nell'indice della mano destra. Aveva pizzicato con una forza tale che mi aveva procurato un versamento sottopelle. Quella macchiolina rossa sarebbe rimasta li' per settimane, restando l'unica traccia visibile di un cerchio lungo un mese e mezzo attraverso Sudafrica, Swaziland, Namibia, Botswana e Zambia. 
Un'esperienza che avrebbe segnato a lungo il mio rapporto con l'Africa subsahariana, dove non mi avrebbero rivisto per altri 12 anni. In quel lasso di tempo, avrei messo piede in un'altra novantina di Paesi, fatto il giro del mondo e cambiato emisfero di residenza, stato civile e nazionalita'.  
Impieghero' parecchio tempo per digerire quel viaggio e per sentirmi pronto per affrontare di nuovo un'avventura del genere. Quando succedera', assaggero' il gusto dello scoprirsi diverso. 
Altro che mal d'Africa.   


venerdì 19 agosto 2022

A kind of magic

Quella mattina Atene si svegliò sotto una cupola di nuvole bluastre, freddata da uno strano scirocco e sciacquata da una pioggerellina molesta. Lasciai lo zaino nel deposito dell’aeroporto, sincronizzando l’orologio con quello sistemato accanto al countdown dei Giochi. Nei miei ricordi la capitale greca era sì il simbolo e il museo della cultura occidentale, ma anche e soprattutto un cantiere aperto, costantemente picchiato dal sole e condannato a inalare smog. Prima del rientro in Italia avevo tutta la giornata e tutta l’intenzione di integrare l’immagine della culla della filosofia e della scultura, della letteratura e della democrazia con qualche input alternativo. Ma il piano crollò miseramente sul bus che scivolava verso il centro, quando una giovane donna con la chioma increspata, la tinta innaturalmente vermiglia e lo sguardo spiritato elemosinò un’informazione prima di presentarsi. “Sono Vanessa, in arte Jadestar”. “Quale arte, se posso?”. “Leggo le carte e le sfere di cristallo, predico il futuro, guarisco con le mani e lotto contro gli spettri”. Poi aggiunse qualcosa di poco intellegibile sui transformational week-end.
Viaggiare significa incrociare orde di figuri stravaganti, ma Vanessa Buss da Città del Capo era una spanna avanti a tutti. Quel 25 dicembre 2002, poi, era sola, spaesata, con un contatto incerto, il portafoglio secco secco e tanti, troppi bagagli. L’identikit di chi ha assoluto bisogno di compagnia. “Ti dispiace aiutarmi?”. Appunto. Le mie spalle orfane dell’Invicta viola costituivano un bocconcino irresistibile per il suo sovraccarico di ammennicoli: mi ero liberato del mio fedele compagno di viaggio per finire schiavo di due borsoni zeppi di abiti neri, tarocchi e altre amenità. Quando scesi davanti al milite ignoto di piazza Syntagma ero già diventato mio malgrado il portantino di una sudafricana che sul biglietto da visita aveva fatto scrivere ‘Credo in Dio, negli Angeli e nella Reincarnazione’ e le cui attività spaziavano dai filmini dei matrimoni all’house cleansing, la bonifica delle case infestate da malocchio e spiritelli. “Dove ti accompagno?” le domandai. Vanessa si strinse nelle spalle. Con il numero di telefono di un conoscente di terzo grado che non intendeva disturbare prima di sera e un budget di una manciata di euro, a lei non restava scelta. Per la proprietà transitiva ero incastrato. L'unica attività che potevamo permetterci era camminare per le strade dell’agglomerato che ospita un terzo della popolazione greca, fradici come pulcini e zavorrati come portacontainer. Sperando che in quella mattina acerba, in cui Atene era ancora intorpidita, almeno il cielo fosse clemente. Macché.

Fra un mugugno mio e un improbabile resoconto suo sfioravamo la zona di Plaki e affondavamo nel quartiere di Monastiraki - le aree abitate più antiche della città - trovando gli unici segni di vita solo nelle chiese bizantine, dove i fedeli ortodossi si riversavano per le prime Messe natalizie. Di fronte alla cattedrale del XIX secolo, Vanessa assestava il colpo definitivo alle mie velleità: “Prima di cercare un hotel voglio vedere l’Acropoli, mi accompagni?”. Se non ci fossero stati la notte insonne sul volo da Johannesburg, i borsoni e la pioggia, l’idea non sarebbe stata neanche malvagia. Solo che, oltre a tutto questo, il monumento che 25 secoli fa Pericle aveva eretto in onore della grandezza della polis, era chiuso ai visitatori per le feste. La scarpinata era stata vana, e al di là della cancellata, due custodi ci vennero incontro per confermarcelo. La donna fulminò il primo dei due. “Tu hai un problema al ginocchio e al piede”. Il tizio, leggermente sorpreso, sorrise sotto i baffi. “E’ vero, anni fa ho avuto un incidente…”. “Avvicinati e fermati!” lo interruppe lei. Con gli occhi serrati e le mani tese in avanti, Vanessa cominciò a scorrerne il corpo, mantenendosi ad un palmo di distanza. Il guardiano greco sbirciò attorno con sospetto, e con incredulità ammise di sentire il calore emanato dalla guaritrice. “Ecco, adesso il dolore è sparito” concluse lei dopo qualche minuto. Una certezza senza un punto di domanda. “Ora ci fai entrare?”. Nonostante l’imbarazzo, l’uomo ci accordò lo sfizio. E per qualche istante potemmo gettare uno sguardo sui fregi bagnati del Partenone e sulle korai umide dell’Eretteo, evitando di entrare nel cono di luce delle telecamere a circuito chiuso e soprattutto di avvicinarci ai cani da guardia.
Sulla scia del successo, con lo stesso stratagemma Vanessa si assicurò anche un tramezzino in un bar e lo sconto in un alberghetto nel quale aveva infine deciso di ritirarsi. Prima di tornare all’aeroporto, la mia curiosità vinse la punta di vergogna e il mix razionale di scetticismo e diffidenza. Chiesi a Jadestar di mostrarmi quelle capacità che lei continuava a chiamare poteri. Sul viso, sul torace e sulle gambe, la vampata sprigionata dalla sua concentrazione allenata era percettibile. “Sento un problema agli occhi - mi disse senza che le avessi accennato alle varie operazioncine cui mi ero sottoposto negli ultimi mesi – ma ora è risolto, superato”. Infine consultò le carte e aggiunse: “Nel tuo futuro vedo un lungo viaggio in treno”.

Il professor Ricci ci mise un po' a trovarli. Eppure dopo aver trattato i miei occhi cinque volte coi suoi laser avrebbe dovuto conoscerli a memoria, i forellini. Gli raccontai l'incontro con Jadestar e lui accettò la sfida, per poi confermare che fra palizzate e bave di lumaca, la mia retina era sempre bucherellata come uno scolapasta.

Ma almeno su una cosa Vanessa ci aveva preso: sei mesi dopo partii per la Transiberiana.
(tratto da Ulisse n. 288 - agosto 2008)

domenica 17 luglio 2022

I predatori dell'arca perduta - part I

Daniele era un amico d'infanzia. Talmente intimo che suo fratello Giancarlo aveva dormito decine di volte con me e centinaia di volte con mia sorella.  
Prima che amici, eravamo insomma una specie di parenti acquisiti, anche se eravamo separati da 500 chilometri, 5 anni e un giorno.
Se non era lui a chiamarmi il 27 maggio per farmi gli auguri, ero io a cercarlo il 28. 
Quell'anno toccava a me, perche' il piccolo Daniele diventava maggiorenne.
"Per il compleanno ho chiesto ai miei di lasciarmi venire in viaggio con te. Dove vai quest'estate?", mi chiese. 
"Vado in Medio Oriente. Siria, Giordania, Israele...Forse anche in Libano".
Lui non batte' ciglio, si limito' a riferire la bozza dell'itinerario ai genitori e ad ottenere la loro approvazione: quello sarebbe stato il regalo per i suoi 18 anni. 
Piu' che coraggio o fiducia in me, quella di Daniele era beata ingenuita'. 
Che lo avrebbe spinto a celebrare la maggiore eta' con una serie di riti di passaggio, dalle bombe israeliane al raggiro alla frontiera con la Siria, dalla notte sul tetto della moschea all'ingresso a Petra scavalcando il muro di cinta. 
Due mesi dopo quella telefonata partimmo, facemmo scalo a Istanbul e atterrammo a Beirut a tarda sera. Li' Daniele mi rivelo' che "in realta' immaginava Istanbul come Beirut e Beirut come Istanbul".
Cioe' pensava e sperava di ritrovarsi in una citta' ricca di moschee, palazzi, torri e panorami mozzafiato. Invece l'avevo trascinato in una metropoli illuminata da qualche fuoco acceso sui marciapiedi e con gli edifici crivellati di colpi, se non completamente sventrati. 
Il fatto di arrivare in piena notte, non aiuto' a rompere il ghiaccio.
Daniele sfogo' la tensione nel modo che piu' gli si addiceva. 
Nell'ascensore che ci portava al quarto piano di un palazzo nel quale avremmo trascorso la prima notte, sgancio' una miscela a base di anidride carbonica, metano, idrogeno e azoto molecolare, i prodotti scartati dal suo giovane stomaco dopo aver processato e fermentato il kebab ingurgitato qualche ora prima sul Bosforo. 
Un ordigno allo zolfo del quale in altre circostanze Daniele sarebbe andato fiero e del quale mi avrebbe mostrato il potenziale combustibile e pirotecnico, oltre che pestilenziale.
Li' per li' pero' non eravamo soli. 
A condividere l'esiguo spazio vitale in quell'ascensore di Beirut c'era Antonio Pazienti da Monteverde Vecchio e c'era soprattutto Mustafa'. 
Ovvero l'uomo che per i successivi quattro giorni ci avrebbe scarrozzato completamente gratis in giro per il Libano.
L'uomo che s'era preso la briga di venirci a prendere in aeroporto e che ci aveva trovato una sistemazione (gratis pure quella) a casa del nipote reietto in quanto gay non dichiarato. Dove noi tre avremmo trascorso un paio di notti appiccicati in un letto matrimoniale.
Mustafa', la cui biografia comprendeva un paio di guerre sanguinose e un conflitto permanente con Israele, la cui indiscussa autorita' era sintetizzata dal soprannome - mokhtar, sindaco - era un anziano e di poche parole. Non ne aveva bisogno. 
E non parlando alcuna lingua al di fuori dell'arabo, anche volendo con noi non avrebbe potuto esprimersi. 
Dopo tre piani alle prese con quel proiettile a gas sparato da Daniele, il cui fetore cresceva in misura proporzionale ai piani e all'imbarazzo, persino Mustafa' cerco' rifugio in un angolo dell'ascensore. 
E dopo aver disperatamente cercato in un'intercapedine qualche avanzo di aria incontaminata, sbatte' con forza due volte la mano aperta contro le pareti dell'ascensore.
Che arrivo' a destinazione poco prima che svenissimo tutti e quattro.
Daniele, Antonio, Mustafa' ed io.
Uno dei tanti check point lungo le strade libanesi
Nei due mesi intercorsi tra la telefonata di auguri di Daniele e il volo Roma-Istanbul-Beirut avevo infatti conosciuto un muratore libanese. Bassam si era affacciato un sabato mattina alla finestra della mia camera - al sesto piano di un palazzo avvolto nelle impalcature. Si era messo a prendere misure e segnare tracce, e visto che c'era a rispondere alle mie domande. 
Tempo 10 minuti, io mi ero convinto che andare in Libano sarebbe stato fattibile e lui aveva trovato il corriere che avrebbe portato alla sua famiglia uno zaino pieno di regali.
Come mister Mchemwa, due anni prima di mister Mchemwa. 
Solo che invece di riportare indietro cibo, Bassam mi rifilo' otto chili di roba, che fui costretto a catalogare per ragioni di sicurezza. Mica per altro.
Nell'Invicta che imbarcai a bordo della del volo della Turkish c'era un campionario di chincaglierie che comprendeva anche una torre di Pisa in miniatura e una palla di plastica con il Colosseo e la neve artificiale.
Il tutto era destinato a suo suocero Mustafa', il quale mi avrebbe fatto da Cicerone nei Paese dei cedri.
Anzi CI avrebbe fatto da guida, visto che oltre a me c'erano Daniele e Antonio, quanto di meglio la vita mi avesse e avrebbe offerto sul piano delle amicizie.
Un pescatore al tramonto sul lungomare di Beirut
(Tratto da Ulisse - Dicembre 2008)
La fettuccia rossa serpeggia anarchica sul linoleum prima di incocciare un cubo di formica, opaco come la vetrata che svela la notte di Beirut. Nessuno straniero in fila. Il doganiere sfoglia il mio passaporto, sbadiglia, e mormora qualcosa al collega. 
“Dove vai?”,mi chiede. 
“A casa di un amico”, rispondo. 
“Come si chiama?”. 
“Mustafà”. 
“Mustafà… E poi?”. 
“Boh… Mustafà”. 
All’ufficiale scappa un ghigno e non riesco a dargli torto. 
Là fuori ci saranno decine di migliaia di Mustafà, ma purtroppo l’unica cosa che so dell’uomo che mi aspetta nel parcheggio è il nome di battesimo. 
Che poi chissà se si dice battesimo, trattandosi di un musulmano. 
Il cognome avrei dovuto chiederlo a Bassam, l’omino olivastro che a metà giugno aveva scavalcato la finestra della mia camera e si era messo a scavare tracce sulle pareti, sostenendo che se volevo conoscere il Libano lui sapeva chi faceva al caso mio. 
Suo suocero Mustafà - all’occorrenza sindaco, coltivatore terriero e accompagnatore di businessmen sauditi - aveva un tetto da offrirmi. 
Il muratore non aveva finito di formulare la proposta che avevo accettato, e un mese dopo ero atterrato all’aeroporto internazionale. 
“Sai almeno dove abita?”, insiste l'ufficiale dell'aeroporto di Beirut. 
Con lo sguardo minaccio di raccontargli i dettagli dell’antefatto, lui intuisce il pericolo e in un attimo mi ritrovo fuori, nel piazzale, quindi a bordo di una macchina che si fa largo tra le ombre, dopodiche' chiuso nell'ascensore della morte con Daniele, Antonio e Mustafa'. E infine incastrato nel letto matrimoniale messo a disposizione del nipote e l'indomani mattina a far le presentazioni a casa Ghamloush.
Perche' nel frattempo me lo sono fatto dire, il cognome di Mustafà.
Mustafàtra le rovine di Byblos, accanto alla moglie e ad una delle figlie 
Mustafà è il pater familias di una dinastia che abbraccia tre generazioni di cugini coniugati coi cognati e di nipoti sposati coi vicini di casa. Più che un albero genealogico, una matassa di parentele intrecciata con divorzi, affidamenti e convivenze a distanza di oceani. 
Ogni mattina la stirpe si riunisce davanti ad un piatto di manaish con zatar e si cimenta in singolar tenzoni a base di uova sode – tanto vince sempre il nonno - poi s’incastra nel furgone di famiglia. 
E noi tre ci accodiamo.
Con 730 auto ogni mille persone, il Libano è lo Stato col più alto numero di vetture pro capite al mondo. E con 358 abitanti per km2 su una superficie pari a quella dell’Abruzzo, è anche il più densamente abitato del Medio Oriente. L’incrocio dei due dati genera un traffico selvaggio, scandito da regole che col codice stradale c’entrano poco. 
Al volante ci vuole pazienza e fatalismo. Virtù endemiche in una regione che è stata nel mirino di fenici e francesi, passando per assiri, persiani, greci, romani, arabi, ottomani ed inglesi, e connaturate ad una Repubblica che riconosce 18 confessioni e in Parlamento ne rappresenta la metà. Un Paese talmente tribolato che una specie di inquietante monolite di cemento zeppo di carri armati sovietici viene chiamato “monumento alla pace”. 
Io, il topo-talkie e la scopation wagon con l'adesivo CH
Armato di pazienza e fatalismo, fra un cocomero e un sorpasso avventato, un check-point e un’esercitazione dei militari siriani nella valle della Bekaa, Mustafà ci guida alla scoperta dei patrimoni dell’Unesco del suo Paese. 
Il primo giorno andiamo a Jeita per visitare una grotta e a Jbeil per camminare tra le rovine di Byblos, un agglomerato sorto nel neolitico, che nel 4500 avanti Cristo era un villaggio di pescatori, che sarebbe diventato uno dei principali centri fenici e che con i suoi 9 millenni di storia è una delle se non la più antica città del mondo abitata con continuità. 
Al ritorno a Beirut ci concediamo una passeggiata sul lungomare, la Corniche, che fra yacht club, luna park e alberghi di lusso ospita anche una capanna abbarbicata di fronte ai faraglioni conosciuti come gli scogli dei piccioni che incorniciano la discesa del sole nel mar Mediterraneo. Secondo la Lonely Planet, quello gestito da Abdallah in canottiera e' il bar più microscopico della Terra
Ma col tempo ho capito che la Lonely Planet ne spara parecchie.
Il figlio di Abdallah, io, Daniele, Abdallah e Antonio
Il secondo giorno, dopo un'altra colazione a base di manaish, zatar e royal rumble con le uova sode, i Ghamloush si riversano nel furgoncino Toyota con l'adesivo CH e annunciano che ci dirigiamo verso sud per visitare il porto di Sidone e il souk di Tiro ma soprattutto per andare a Jbeil.
Che alle nostre orecchie suona para para a Jbail, ma che e' un altro mondo.
Jbeil e' il paesino nel quale ci sono dei resti romani e quelli di un insediamento del neolitico. 
Jbeil e' la cittadina nella quale Mustafa' e' nato e della quale - almeno ci dicono - e' stato sindaco. 
Jbeil e' un agglomerato con poche migliaia di abitanti, quasi tutti sciiti e quasi tutti imparentati con Mustafa'.
Il porto di Sidone
Nonostante questo, prima di arrivare a destinazione, Mustafa' mi prendere da parte e con l'intercessione della nipote che parla meglio inglese - Nada - mi mette in guardia.
"Non dire a nessuno che la destinazione finale del tuo viaggio e' Israele. A nessuno".
"Ma non sono parenti tuoi? Soprattutto non sei tu a fare da garante per me?", chiedo - leggermente allarmato dal suo sguardo - sempre tramite Nada.
Dei tre io ero l'unico che avrebbe chiuso il cerchio andando in Israele. Antonio si sarebbe fermato in Giordania e da li' sarebbe rientrato a Roma. Daniele sarebbe passato dalla Giordania all'Egitto, dove avrebbe raggiunto suo fratello Giancarlo (quello delle decine di notti nel letto con me e delle centinaia con mia sorella), che lavorava in un villaggio turistico sul Mar Rosso.
"Io mi fido di te, ma non si sa mai a quali orecchie possano arrivare informazioni del genere e come possano essere prese. Insomma, non so se gli altri si fidino di me", mi fa Mustafa.
Jbeil e' una delle roccaforti di Hezbollah, l'ex milizia paramilitare fondata nel 1982 durante la guerra civile e diventata gradualmente una forza anche politica, sicuramente ideologica, massicciamente finanziata dalla Repubblica Islamica dell'Iran, considerata responsabile di attivita' terroristiche dall'Unione Europea e un'organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dai suoi alleati piu stretti: Canada, Australia e ovviamente Israele. 
Come tutte le cittadine che sono legate a Hezbollah, anche Jbeil al suo ingresso da' il benevenuto al visitatore con un cartello che rappresenta la foto della cupola della Roccia, il simbolo di Gerusalemme.
Il sottotesto e' "ce  ripigliamm tutt chell ch'è o nuost".
Un modo per ribadire che la difesa dell'identita' musulmana della regione e' fortemente in contrapposizione, se non del tutto incompatibile, con l'esistenza dello Stato ebraico. 
Gli eredi della dinastia Ghamloush giocano con i topo-talkie sulla strada verso Jbeil
A differenza di molte altre cittadine del genere, pero', Jbeil e' a 5km in linea d'aria dalla fascia di sicurezza controllata dall'UNIFIL, il contingente ONU messo li' per creare una zona cuscinetto - smilitarizzata - tra Tel Aviv e Beirut e la cui i starebbe per interim. Ma che di fatto per oltre 30 anni ha pattugliato la porzione di territorio libanese occupato dalle forze di Israele. 
Insomma, Jbeil e' talmente vicina a Hezbollah che Mustafa', uno dei suoi figli prediletti, non si sente libero di ospitare un 23enne saccapelista diretto verso lo Stato Ebraico perche' teme che la notizia possa provocare mal di pancia, dicerie e ritorsioni nei suoi e nei miei confronti.
E allo stesso tempo Jbeil e' talmente vicina ad Israele che la casa di Mustafa' e' stata bombardata ad inizio anno. E ne porta ancora i segni.
Il salotto e una delle stanze da letto sono state sventrate e negli ultimi mesi i Ghamloush hanno fatto ricostruire i muri, che pero' hanno ancora la calce vita, grigioscura, che contrasta nettamente con l'ocra rosa delle pareti risparmiate dalle bombe.
"Per fortuna in casa non c'era nessuno", dicono.
Jbeil, biscotti, tè e narghilè con la famiglia Ghalmoush allargata
A Jbeil non c'e' francamente molto da vedere, per cui dopo un'oretta trascorsa a sgranocchiare biscotti e a fumare narghile' con il parentado ("Ricordati di non dire che vai in Israele.... ricordati di non dire che vai in Israele") accettiamo l'invito di due ragazzotti locali che ci propongono di unirci alla tradizionale partitella di calcio pomeridiana in quello che loro chiamano campo e che in realta' e' una piana ghiaiosa e polverosa dove se ne danno di santa ragione. Perdiamo di un gol e quando a tempo scaduto mi capita un pallone buono per il pareggio, un bestione libanese mi molla un pestone sul malleolo d'appoggio. 
Io finisco a terra, la partita finisce 3-2 e non ci resta che tornare alla base.
Arrivati a casa Ghamloush, Antonio si butta sotto l'unica doccia a disposizione, mentre Daniele si rintana in una stanza a giocare coi bambini e una specie di Chicco Indovina l'Animale in versione mediorientale, mentre io rimedio da Nada il ghiaccio per la caviglia. 
Mentre la ragazza apre il freezer, l'aria si riempie del suono delle sirene.

"Stanno per bombardare", mi dice.

Calmi tutti - penso. In che senso stanno per bombardare? Ste cose non e' che succedono cosi'... Nei film c'e' un crescendo di tensione, una nota di sottofondo che accompagna il cambio di registro, un'inquadratura stretta che fermi l'attimo tragico, il pericolo che incombe, le vite sospese, la corsa verso il bunker, il dolore, la sofferenza, quel che l'e'.
Invece niente. Resto impalato.
"Stanno per bombardare" dice Nada.
La guardo. Evidentemente in casa non c'e' un bunker, altrimenti ci saremmo gia' fiondati li'. Mancando il piano A, e' placido che non esistano neanche ne' il piano B ne' il C.
Non ci resta che affacciarci al balcone del primo piano. Intanto evitiamo che le bombe finiscano esattamente dove erano finite quelle che le avevano precedute e che avevano sventrato il retro della casa. E se va bene capiamo anche qualcosa.
Dopo 10 secondi il rumore dei jet si fa roboante. Sono tre e vengono da sinistra, cioe' da sud. Volano a quota bassissima e proprio quando sono all'altezza di casa Ghamloush sganciano tre bombe, una a testa.
La villetta di Jbeil e' costruita su un poggio, stretta tra il fianco una collinetta, alle sue spalle, e una piccola vallata che si apre davanti nel quale il panorama e' fatto di rilievi piccoli, morbidi e con poca vegetazione.
Le tre bombe cadono li', davanti ai nostri occhi, a poche centinaia di metri. 
Siamo salvi, almeno per ora.
Corro al bagno, dove Antonio e' sotto la doccia e non ha sentito nulla. 
Corro nella cameretta, dove Daniele sta ripetendo coi bimbini Ghamloush il verso della mucca, della gallina e della pecora. Neanche lui ha sentito niente.
L'indomani torniamo a Beirut, e da casa del nipote reietto chiamo i miei, per rassicurarli che se hanno sentito parlare di un bombardamento israeliano sul sud del Libano non devono preoccuparsi, perche' io sono vivo.
Daniele prova a spiegare ad un perplesso madonnaro di Baalbek che non può comprare souvenir  

Quattro anni dopo, durante un viaggio in Patagonia, mi imbattero' in una ragazza israeliana. Non ne ricordo il nome, perche' quando si era presentata ero a letto con un febbrone. Ero reduce da due giorni di trekking in Cile - sotto il nevischio del Torres del Paine - nel quale mi ero incamminato con una t-shirt e un k-way e nel quale mi ero perso. Erano seguite 48ore da incubo, la maggior parte delle quali trascorse nel terminal del Calafate dove ero rimasto bloccato perche' il bus in arrivo da Puntarenas era entrato nella struttura proprio quando il torpedone in partenza per il nord stava lasciando l'autostazione. E visto che non avevo i soldi per dormire da qualche parte ne' le energie per fare in autostop anche il percorso inverso, mi ero accampato nella struttura, in attesa che l'indomani mattina qualcosa o qualcuno mi portasse altrove. Nel frattempo avevo trascorso la notte circondato da ubriachi molesti e ne ero uscito fingendomi ubriaco e molesto a mia volta. 
Ma insomma, dopo il trekking, il freddo, le notti insonni e il cibo scarsissimo, quando finalmente ero arrivato a Puerto Madryn ero un cencio. Come al solito senza neanche un'aspirina appresso. La ragazza israeliana che aveva visto quel cadavere nella sua camerata s'era prodigata per riportarmi in vita a colpi di medicinali e brodini. Dopodiche' mi aveva accompagnato anche nella penisola Valdes, dove avremmo cercato di vedere le balene. In attesa della barca, avevamo camminato lungo la spiaggia e li' mi aveva rivelato che nell'estate del 1999 prestava servizio militare nell'aviazione israeliana e che si occupava in particolare delle operazioni nel nord del Paese.
Sapevo che tutto quello che succede da quelle parti e' avvolto in un mistero fitto, a maggior ragione se di mezzo ci sono stranieri e/o obiettivi sensibili. Ma quella ragazza s'era presa la briga di raccogliermi col cucchiaino, aveva per lo meno percepito che di me si poteva fidare e soprattutto erano passati quattro anni e mezzo. Per cui ci provai.
"Mi spieghi perche' bombardaste Jbeil? Cosa c'era li'?"
La risposta per grandi linee la potevo immaginare. La contraerea di Hezbollah, un deposito di munizioni di Hezbollah, qualche rifugio di Hezbollah. Non e' che si scappava da li'. Ma considerando la reticenza di Mustafa' e il fatto che la villetta fosse stata bombardata, la curiosita' era legittima.
La ragazza israeliana fece un sospiro, alzo' il mento e le sopracciglia, si fermo' e mi guardo'.

"Se te lo dico, poi ti devo uccidere", mi disse mentre passeggiavamo sulla spiaggia di punta Delgada.

Da allora ogni tanto questa battuta me la rivendo. 
Ma nella circostanza non ho mica capito se era una battuta o meno.
I nipoti Ghamloush ci salutano dal balcone dell'appartamento di Beirut
Sopravvissuti al bombardamento israeliano di Jbeil, l'indomani tornammo a Beirut. Nell'ultima giornata coi Ghamloush, Mustafa' guido' il furgoncino verso le imperiose rovine romane di Baalbek, quindi nella valle della Bekaa, e da li' su verso le montagne che ospitano quel che resta dei famosi cedri del Libano e Bcharre' - culla e tomba di Khalil Gibran. Infine - non senza qualche problema tecnico dati i sentieri strettissimi - tra i monasteri maroniti della valle di Kadisha.
Dopo quasi 5 giorni nei quali non avevano tirato fuori una lira, Mustafa' ci lascio' davanti alla grande moschea di Trabulous, che in italiano chiamiamo Tripoli ma che non ha niente a che vedere con la capitale libica. Prima di congedarci sotto un sicomoro e di riprendere la strada per Beirut, Mustafa' bonfonchio' qualcosa e ci propino' l'ennesima anguria, che io ingurgitai di mala voglia come tutti i cocomeri che mi vengono propinati in Medio Oriente nonostante mi facciano cacare ma ai quali non posso opporre un diniego, neanche cortese.
Bcharré - sotto lo sguardo di Mustafà, Antonio cerca di capire chi caspita sia Khalil Gibran

Antonio, Daniele ed io avevamo deciso che era tempo di andare in Siria. 
Verso Qalat-al-Hosn, il Crac des Chevaliers, uno dei castelli dei crociati meglio conservati di tutta la regione. Un posto ad appena 70km da Tripoli, ma per raggiungere il quale l'unica alternativa era una trasporto privato. 

Lo trovammo subito, l'uomo sulla trentina che ci propose di accompagnarci al di la' del confine siriano e alle nostre condizioni. Shamir impose come unica condizione quella di aspettare che trovasse altri passeggeri diretti verso nord. A noi andava bene, anche perche' avremmo ingannato l'attesa girando per la citta'. A tempo debito tornammo dall'autista improvvisato, il quale non aveva rimediato nessun altro avventore diretto in Siria. 
Poco male, il sole era ormai tramontato ed era arrivato il momento di guidare verso il posto di frontiera di Aboudieh: 36 km che inizialmente Shamir percorse a ritmo lentissimo, nella speranza di incrociare qualche passeggero col quale riempire un altro sedile della sua enorme Dodge Anni Cinquanta. Poi velocissimamente, per accelerare i tempi. Infine in folle e col freno a mano tirato, fingendo un guasto meccanico per poterci mollare appena oltre il confine siriano a notte fonda.
"Ti sei impegnato a portarci al Qalat-al-Hosn e li' ci porti!" obiettammo.
Macche'.
(fine - part 1)