Daniele era un amico d'infanzia. Talmente intimo che suo fratello Giancarlo aveva dormito decine di volte con me e centinaia di volte con mia sorella.
Prima che amici, eravamo insomma una specie di parenti acquisiti, anche se eravamo separati da 500 chilometri, 5 anni e un giorno.
Se non era lui a chiamarmi il 27 maggio per farmi gli auguri, ero io a cercarlo il 28.
Quell'anno toccava a me, perche' il piccolo Daniele diventava maggiorenne.
Nei due mesi intercorsi tra la telefonata di auguri di Daniele e il volo Roma-Istanbul-Beirut avevo infatti conosciuto un muratore libanese. Bassam si era affacciato un sabato mattina alla finestra della mia camera - al sesto piano di un palazzo avvolto nelle impalcature. Si era messo a prendere misure e segnare tracce, e visto che c'era a rispondere alle mie domande.
Il secondo giorno, dopo un'altra colazione a base di manaish, zatar e royal rumble con le uova sode, i Ghamloush si riversano nel furgoncino Toyota con l'adesivo CH e annunciano che ci dirigiamo verso sud per visitare il porto di Sidone e il souk di Tiro ma soprattutto per andare a Jbeil.
"Per il compleanno ho chiesto ai miei di lasciarmi venire in viaggio con te. Dove vai quest'estate?", mi chiese.
"Vado in Medio Oriente. Siria, Giordania, Israele...Forse anche in Libano".
Lui non batte' ciglio, si limito' a riferire la bozza dell'itinerario ai genitori e ad ottenere la loro approvazione: quello sarebbe stato il regalo per i suoi 18 anni.
Piu' che coraggio o fiducia in me, quella di Daniele era beata ingenuita'.
Che lo avrebbe spinto a celebrare la maggiore eta' con una serie di riti di passaggio, dalle bombe israeliane al raggiro alla frontiera con la Siria, dalla notte sul tetto della moschea all'ingresso a Petra scavalcando il muro di cinta.
Due mesi dopo quella telefonata partimmo, facemmo scalo a Istanbul e atterrammo a Beirut a tarda sera. Li' Daniele mi rivelo' che "in realta' immaginava Istanbul come Beirut e Beirut come Istanbul".
Cioe' pensava e sperava di ritrovarsi in una citta' ricca di moschee, palazzi, torri e panorami mozzafiato. Invece l'avevo trascinato in una metropoli illuminata da qualche fuoco acceso sui marciapiedi e con gli edifici crivellati di colpi, se non completamente sventrati.
Il fatto di arrivare in piena notte, non aiuto' a rompere il ghiaccio.
Nell'ascensore che ci portava al quarto piano di un palazzo nel quale avremmo trascorso la prima notte, sgancio' una miscela a base di anidride carbonica, metano, idrogeno e azoto molecolare, i prodotti scartati dal suo giovane stomaco dopo aver processato e fermentato il kebab ingurgitato qualche ora prima sul Bosforo.
Un ordigno allo zolfo del quale in altre circostanze Daniele sarebbe andato fiero e del quale mi avrebbe mostrato il potenziale combustibile e pirotecnico, oltre che pestilenziale.
Li' per li' pero' non eravamo soli.
A condividere l'esiguo spazio vitale in quell'ascensore di Beirut c'era Antonio Pazienti da Monteverde Vecchio e c'era soprattutto Mustafa'.
Ovvero l'uomo che per i successivi quattro giorni ci avrebbe scarrozzato completamente gratis in giro per il Libano.
L'uomo che s'era preso la briga di venirci a prendere in aeroporto e che ci aveva trovato una sistemazione (gratis pure quella) a casa del nipote reietto in quanto gay non dichiarato. Dove noi tre avremmo trascorso un paio di notti appiccicati in un letto matrimoniale.
Mustafa', la cui biografia comprendeva un paio di guerre sanguinose e un conflitto permanente con Israele, la cui indiscussa autorita' era sintetizzata dal soprannome - mokhtar, sindaco - era un anziano e di poche parole. Non ne aveva bisogno.
E non parlando alcuna lingua al di fuori dell'arabo, anche volendo con noi non avrebbe potuto esprimersi.
Dopo tre piani alle prese con quel proiettile a gas sparato da Daniele, il cui fetore cresceva in misura proporzionale ai piani e all'imbarazzo, persino Mustafa' cerco' rifugio in un angolo dell'ascensore.
E dopo aver disperatamente cercato in un'intercapedine qualche avanzo di aria incontaminata, sbatte' con forza due volte la mano aperta contro le pareti dell'ascensore.
Che arrivo' a destinazione poco prima che svenissimo tutti e quattro.
Daniele, Antonio, Mustafa' ed io.
Uno dei tanti check point lungo le strade libanesi |
Tempo 10 minuti, io mi ero convinto che andare in Libano sarebbe stato fattibile e lui aveva trovato il corriere che avrebbe portato alla sua famiglia uno zaino pieno di regali.
Come mister Mchemwa, due anni prima di mister Mchemwa.
Solo che invece di riportare indietro cibo, Bassam mi rifilo' otto chili di roba, che fui costretto a catalogare per ragioni di sicurezza. Mica per altro.
Nell'Invicta che imbarcai a bordo della del volo della Turkish c'era un campionario di chincaglierie che comprendeva anche una torre di Pisa in miniatura e una palla di plastica con il Colosseo e la neve artificiale.
Il tutto era destinato a suo suocero Mustafa', il quale mi avrebbe fatto da Cicerone nei Paese dei cedri.
Anzi CI avrebbe fatto da guida, visto che oltre a me c'erano Daniele e Antonio, quanto di meglio la vita mi avesse e avrebbe offerto sul piano delle amicizie.
Un pescatore al tramonto sul lungomare di Beirut |
(Tratto da Ulisse - Dicembre 2008)
La fettuccia rossa serpeggia anarchica sul linoleum prima di incocciare un cubo di formica, opaco come la vetrata che svela la notte di Beirut. Nessuno straniero in fila. Il doganiere sfoglia il mio passaporto, sbadiglia, e mormora qualcosa al collega.
“Dove vai?”,mi chiede.
“A casa di un amico”, rispondo.
“Come si chiama?”.
“Mustafà”.
“Mustafà… E poi?”.
“Boh… Mustafà”.
All’ufficiale scappa un ghigno e non riesco a dargli torto.
Là fuori ci saranno decine di migliaia di Mustafà, ma purtroppo l’unica cosa che so dell’uomo che mi aspetta nel parcheggio è il nome di battesimo.
Che poi chissà se si dice battesimo, trattandosi di un musulmano.
Il cognome avrei dovuto chiederlo a Bassam, l’omino olivastro che a metà giugno aveva scavalcato la finestra della mia camera e si era messo a scavare tracce sulle pareti, sostenendo che se volevo conoscere il Libano lui sapeva chi faceva al caso mio.
Suo suocero Mustafà - all’occorrenza sindaco, coltivatore terriero e accompagnatore di businessmen sauditi - aveva un tetto da offrirmi.
Il muratore non aveva finito di formulare la proposta che avevo accettato, e un mese dopo ero atterrato all’aeroporto internazionale.
“Sai almeno dove abita?”, insiste l'ufficiale dell'aeroporto di Beirut.
Con lo sguardo minaccio di raccontargli i dettagli dell’antefatto, lui intuisce il pericolo e in un attimo mi ritrovo fuori, nel piazzale, quindi a bordo di una macchina che si fa largo tra le ombre, dopodiche' chiuso nell'ascensore della morte con Daniele, Antonio e Mustafa'. E infine incastrato nel letto matrimoniale messo a disposizione del nipote e l'indomani mattina a far le presentazioni a casa Ghamloush.
Perche' nel frattempo me lo sono fatto dire, il cognome di Mustafà.
Mustafàtra le rovine di Byblos, accanto alla moglie e ad una delle figlie |
Mustafà è il pater familias di una dinastia che abbraccia tre generazioni di cugini coniugati coi cognati e di nipoti sposati coi vicini di casa. Più che un albero genealogico, una matassa di parentele intrecciata con divorzi, affidamenti e convivenze a distanza di oceani.
Ogni mattina la stirpe si riunisce davanti ad un piatto di manaish con zatar e si cimenta in singolar tenzoni a base di uova sode – tanto vince sempre il nonno - poi s’incastra nel furgone di famiglia.
E noi tre ci accodiamo.
Con 730 auto ogni mille persone, il Libano è lo Stato col più alto numero di vetture pro capite al mondo. E con 358 abitanti per km2 su una superficie pari a quella dell’Abruzzo, è anche il più densamente abitato del Medio Oriente. L’incrocio dei due dati genera un traffico selvaggio, scandito da regole che col codice stradale c’entrano poco. Al volante ci vuole pazienza e fatalismo. Virtù endemiche in una regione che è stata nel mirino di fenici e francesi, passando per assiri, persiani, greci, romani, arabi, ottomani ed inglesi, e connaturate ad una Repubblica che riconosce 18 confessioni e in Parlamento ne rappresenta la metà. Un Paese talmente tribolato che una specie di inquietante monolite di cemento zeppo di carri armati sovietici viene chiamato “monumento alla pace”.
Armato di pazienza e fatalismo, fra un cocomero e un sorpasso avventato, un check-point e un’esercitazione dei militari siriani nella valle della Bekaa, Mustafà ci guida alla scoperta dei patrimoni dell’Unesco del suo Paese.
Il primo giorno andiamo a Jeita per visitare una grotta e a Jbeil per camminare tra le rovine di Byblos, un agglomerato sorto nel neolitico, che nel 4500 avanti Cristo era un villaggio di pescatori, che sarebbe diventato uno dei principali centri fenici e che con i suoi 9 millenni di storia è una delle se non la più antica città del mondo abitata con continuità.
Al ritorno a Beirut ci concediamo una passeggiata sul lungomare, la Corniche, che fra yacht club, luna park e alberghi di lusso ospita anche una capanna abbarbicata di fronte ai faraglioni conosciuti come gli scogli dei piccioni che incorniciano la discesa del sole nel mar Mediterraneo. Secondo la Lonely Planet, quello gestito da Abdallah in canottiera e' il bar più microscopico della Terra.
Ma col tempo ho capito che la Lonely Planet ne spara parecchie.
Il figlio di Abdallah, io, Daniele, Abdallah e Antonio |
Che alle nostre orecchie suona para para a Jbail, ma che e' un altro mondo.
Jbeil e' il paesino nel quale ci sono dei resti romani e quelli di un insediamento del neolitico.
Jbeil e' la cittadina nella quale Mustafa' e' nato e della quale - almeno ci dicono - e' stato sindaco.
Jbeil e' un agglomerato con poche migliaia di abitanti, quasi tutti sciiti e quasi tutti imparentati con Mustafa'.
Nonostante questo, prima di arrivare a destinazione, Mustafa' mi prendere da parte e con l'intercessione della nipote che parla meglio inglese - Nada - mi mette in guardia.
"Non dire a nessuno che la destinazione finale del tuo viaggio e' Israele. A nessuno".
"Ma non sono parenti tuoi? Soprattutto non sei tu a fare da garante per me?", chiedo - leggermente allarmato dal suo sguardo - sempre tramite Nada.
Dei tre io ero l'unico che avrebbe chiuso il cerchio andando in Israele. Antonio si sarebbe fermato in Giordania e da li' sarebbe rientrato a Roma. Daniele sarebbe passato dalla Giordania all'Egitto, dove avrebbe raggiunto suo fratello Giancarlo (quello delle decine di notti nel letto con me e delle centinaia con mia sorella), che lavorava in un villaggio turistico sul Mar Rosso.
"Io mi fido di te, ma non si sa mai a quali orecchie possano arrivare informazioni del genere e come possano essere prese. Insomma, non so se gli altri si fidino di me", mi fa Mustafa.
Jbeil e' una delle roccaforti di Hezbollah, l'ex milizia paramilitare fondata nel 1982 durante la guerra civile e diventata gradualmente una forza anche politica, sicuramente ideologica, massicciamente finanziata dalla Repubblica Islamica dell'Iran, considerata responsabile di attivita' terroristiche dall'Unione Europea e un'organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dai suoi alleati piu stretti: Canada, Australia e ovviamente Israele.
Come tutte le cittadine che sono legate a Hezbollah, anche Jbeil al suo ingresso da' il benevenuto al visitatore con un cartello che rappresenta la foto della cupola della Roccia, il simbolo di Gerusalemme.
Il sottotesto e' "ce ripigliamm tutt chell ch'è o nuost".
Un modo per ribadire che la difesa dell'identita' musulmana della regione e' fortemente in contrapposizione, se non del tutto incompatibile, con l'esistenza dello Stato ebraico.
A differenza di molte altre cittadine del genere, pero', Jbeil e' a 5km in linea d'aria dalla fascia di sicurezza controllata dall'UNIFIL, il contingente ONU messo li' per creare una zona cuscinetto - smilitarizzata - tra Tel Aviv e Beirut e la cui i starebbe per interim. Ma che di fatto per oltre 30 anni ha pattugliato la porzione di territorio libanese occupato dalle forze di Israele.
Insomma, Jbeil e' talmente vicina a Hezbollah che Mustafa', uno dei suoi figli prediletti, non si sente libero di ospitare un 23enne saccapelista diretto verso lo Stato Ebraico perche' teme che la notizia possa provocare mal di pancia, dicerie e ritorsioni nei suoi e nei miei confronti.
E allo stesso tempo Jbeil e' talmente vicina ad Israele che la casa di Mustafa' e' stata bombardata ad inizio anno. E ne porta ancora i segni.
Il salotto e una delle stanze da letto sono state sventrate e negli ultimi mesi i Ghamloush hanno fatto ricostruire i muri, che pero' hanno ancora la calce vita, grigioscura, che contrasta nettamente con l'ocra rosa delle pareti risparmiate dalle bombe.
"Per fortuna in casa non c'era nessuno", dicono.
Jbeil, biscotti, tè e narghilè con la famiglia Ghalmoush allargata |
A Jbeil non c'e' francamente molto da vedere, per cui dopo un'oretta trascorsa a sgranocchiare biscotti e a fumare narghile' con il parentado ("Ricordati di non dire che vai in Israele.... ricordati di non dire che vai in Israele") accettiamo l'invito di due ragazzotti locali che ci propongono di unirci alla tradizionale partitella di calcio pomeridiana in quello che loro chiamano campo e che in realta' e' una piana ghiaiosa e polverosa dove se ne danno di santa ragione. Perdiamo di un gol e quando a tempo scaduto mi capita un pallone buono per il pareggio, un bestione libanese mi molla un pestone sul malleolo d'appoggio.
Io finisco a terra, la partita finisce 3-2 e non ci resta che tornare alla base.
Arrivati a casa Ghamloush, Antonio si butta sotto l'unica doccia a disposizione, mentre Daniele si rintana in una stanza a giocare coi bambini e una specie di Chicco Indovina l'Animale in versione mediorientale, mentre io rimedio da Nada il ghiaccio per la caviglia.
Mentre la ragazza apre il freezer, l'aria si riempie del suono delle sirene.
"Stanno per bombardare", mi dice.
Calmi tutti - penso. In che senso stanno per bombardare? Ste cose non e' che succedono cosi'... Nei film c'e' un crescendo di tensione, una nota di sottofondo che accompagna il cambio di registro, un'inquadratura stretta che fermi l'attimo tragico, il pericolo che incombe, le vite sospese, la corsa verso il bunker, il dolore, la sofferenza, quel che l'e'.
Invece niente. Resto impalato.
"Stanno per bombardare" dice Nada.
La guardo. Evidentemente in casa non c'e' un bunker, altrimenti ci saremmo gia' fiondati li'. Mancando il piano A, e' placido che non esistano neanche ne' il piano B ne' il C.
Non ci resta che affacciarci al balcone del primo piano. Intanto evitiamo che le bombe finiscano esattamente dove erano finite quelle che le avevano precedute e che avevano sventrato il retro della casa. E se va bene capiamo anche qualcosa.
Dopo 10 secondi il rumore dei jet si fa roboante. Sono tre e vengono da sinistra, cioe' da sud. Volano a quota bassissima e proprio quando sono all'altezza di casa Ghamloush sganciano tre bombe, una a testa.
La villetta di Jbeil e' costruita su un poggio, stretta tra il fianco una collinetta, alle sue spalle, e una piccola vallata che si apre davanti nel quale il panorama e' fatto di rilievi piccoli, morbidi e con poca vegetazione.
Le tre bombe cadono li', davanti ai nostri occhi, a poche centinaia di metri.
Siamo salvi, almeno per ora.
Corro al bagno, dove Antonio e' sotto la doccia e non ha sentito nulla.
Corro nella cameretta, dove Daniele sta ripetendo coi bimbini Ghamloush il verso della mucca, della gallina e della pecora. Neanche lui ha sentito niente.
L'indomani torniamo a Beirut, e da casa del nipote reietto chiamo i miei, per rassicurarli che se hanno sentito parlare di un bombardamento israeliano sul sud del Libano non devono preoccuparsi, perche' io sono vivo.
Daniele prova a spiegare ad un perplesso madonnaro di Baalbek che non può comprare souvenir |
Quattro anni dopo, durante un viaggio in Patagonia, mi imbattero' in una ragazza israeliana. Non ne ricordo il nome, perche' quando si era presentata ero a letto con un febbrone. Ero reduce da due giorni di trekking in Cile - sotto il nevischio del Torres del Paine - nel quale mi ero incamminato con una t-shirt e un k-way e nel quale mi ero perso. Erano seguite 48ore da incubo, la maggior parte delle quali trascorse nel terminal del Calafate dove ero rimasto bloccato perche' il bus in arrivo da Puntarenas era entrato nella struttura proprio quando il torpedone in partenza per il nord stava lasciando l'autostazione. E visto che non avevo i soldi per dormire da qualche parte ne' le energie per fare in autostop anche il percorso inverso, mi ero accampato nella struttura, in attesa che l'indomani mattina qualcosa o qualcuno mi portasse altrove. Nel frattempo avevo trascorso la notte circondato da ubriachi molesti e ne ero uscito fingendomi ubriaco e molesto a mia volta.
Ma insomma, dopo il trekking, il freddo, le notti insonni e il cibo scarsissimo, quando finalmente ero arrivato a Puerto Madryn ero un cencio. Come al solito senza neanche un'aspirina appresso. La ragazza israeliana che aveva visto quel cadavere nella sua camerata s'era prodigata per riportarmi in vita a colpi di medicinali e brodini. Dopodiche' mi aveva accompagnato anche nella penisola Valdes, dove avremmo cercato di vedere le balene. In attesa della barca, avevamo camminato lungo la spiaggia e li' mi aveva rivelato che nell'estate del 1999 prestava servizio militare nell'aviazione israeliana e che si occupava in particolare delle operazioni nel nord del Paese.
Sapevo che tutto quello che succede da quelle parti e' avvolto in un mistero fitto, a maggior ragione se di mezzo ci sono stranieri e/o obiettivi sensibili. Ma quella ragazza s'era presa la briga di raccogliermi col cucchiaino, aveva per lo meno percepito che di me si poteva fidare e soprattutto erano passati quattro anni e mezzo. Per cui ci provai.
"Mi spieghi perche' bombardaste Jbeil? Cosa c'era li'?"
La risposta per grandi linee la potevo immaginare. La contraerea di Hezbollah, un deposito di munizioni di Hezbollah, qualche rifugio di Hezbollah. Non e' che si scappava da li'. Ma considerando la reticenza di Mustafa' e il fatto che la villetta fosse stata bombardata, la curiosita' era legittima.
La ragazza israeliana fece un sospiro, alzo' il mento e le sopracciglia, si fermo' e mi guardo'.
"Se te lo dico, poi ti devo uccidere", mi disse mentre passeggiavamo sulla spiaggia di punta Delgada.
Da allora ogni tanto questa battuta me la rivendo.
Ma nella circostanza non ho mica capito se era una battuta o meno.
I nipoti Ghamloush ci salutano dal balcone dell'appartamento di Beirut |
Sopravvissuti al bombardamento israeliano di Jbeil, l'indomani tornammo a Beirut. Nell'ultima giornata coi Ghamloush, Mustafa' guido' il furgoncino verso le imperiose rovine romane di Baalbek, quindi nella valle della Bekaa, e da li' su verso le montagne che ospitano quel che resta dei famosi cedri del Libano e Bcharre' - culla e tomba di Khalil Gibran. Infine - non senza qualche problema tecnico dati i sentieri strettissimi - tra i monasteri maroniti della valle di Kadisha.
Dopo quasi 5 giorni nei quali non avevano tirato fuori una lira, Mustafa' ci lascio' davanti alla grande moschea di Trabulous, che in italiano chiamiamo Tripoli ma che non ha niente a che vedere con la capitale libica. Prima di congedarci sotto un sicomoro e di riprendere la strada per Beirut, Mustafa' bonfonchio' qualcosa e ci propino' l'ennesima anguria, che io ingurgitai di mala voglia come tutti i cocomeri che mi vengono propinati in Medio Oriente nonostante mi facciano cacare ma ai quali non posso opporre un diniego, neanche cortese.
Bcharré - sotto lo sguardo di Mustafà, Antonio cerca di capire chi caspita sia Khalil Gibran |
Antonio, Daniele ed io avevamo deciso che era tempo di andare in Siria.
Verso Qalat-al-Hosn, il Crac des Chevaliers, uno dei castelli dei crociati meglio conservati di tutta la regione. Un posto ad appena 70km da Tripoli, ma per raggiungere il quale l'unica alternativa era una trasporto privato.
Lo trovammo subito, l'uomo sulla trentina che ci propose di accompagnarci al di la' del confine siriano e alle nostre condizioni. Shamir impose come unica condizione quella di aspettare che trovasse altri passeggeri diretti verso nord. A noi andava bene, anche perche' avremmo ingannato l'attesa girando per la citta'. A tempo debito tornammo dall'autista improvvisato, il quale non aveva rimediato nessun altro avventore diretto in Siria.
Poco male, il sole era ormai tramontato ed era arrivato il momento di guidare verso il posto di frontiera di Aboudieh: 36 km che inizialmente Shamir percorse a ritmo lentissimo, nella speranza di incrociare qualche passeggero col quale riempire un altro sedile della sua enorme Dodge Anni Cinquanta. Poi velocissimamente, per accelerare i tempi. Infine in folle e col freno a mano tirato, fingendo un guasto meccanico per poterci mollare appena oltre il confine siriano a notte fonda.
"Ti sei impegnato a portarci al Qalat-al-Hosn e li' ci porti!" obiettammo.
Macche'.
2 commenti:
mi dissocio dal racconto dell'ascensore.
son tutte menzogne.
Mustafà era sopravvissuto a tre guerre e tu me lo stavi ammazzando con un peto.
("Te lo peto e te lo ripeto" - Caracas, stazione della metro di Petare, AD 2002)
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