La moschea Grand Al Husseini era stata eretta nel 1924 - per volonta' del re Abdallah I - sui resti di uno dei templi musulmani piu' antichi di Amman, un edificio religioso inaugurato dal califfo al-Khattab nel 640 e considerato il primo esempio architettonico del genere nella storia del regno di Giordania. In quello stesso 1924 venne eretto il primo dei due minareti: alto 13 metri era - ed e' - una delle costruzioni piu' visibili e riconoscibili del centro di Amman. Dal tetto dell'hotel Zahran, oltre che visibile e riconoscibile, era quasi abbracciabile. I due edifici erano attigui, il minareto si poteva toccare.
L'omino che ci aveva mostrato la stanza di zinco prese atto del fatto che preferivamo unirci agli homeless e ci indico' una pila di materassini sottili come trapunte. Ne prendemmo uno a testa e li trascinammo nell'angolo piu' lontano rispetto alla moschea. Il resto dello spazio era occupato da una ventina di persone senza fissa dimora, delle quali non sapevamo fino a che punto potevamo fidarci.
Ci sistemammo accanto alle ringhiere con vista sul una delle arterie della capitale giordana, piazzammo gli zaini tra noi e il vuoto e ci infilammo nei sacchi a pelo. Non per il freddo, ma per frapporre uno strato tra noi e quel condensato di germi sui quali avremmo trascorso la notte.
Devastati dalla ultime due in tenda e con addosso l'insolazione di Palmyra, prendemmo subito sonno.
Dai tempi di Bilal l'Abissino, agli inizi del settimo secolo dopo Cristo, fino agli anni Venti del Novecento, il richiamo della preghiera era sempre stata un'operazione casereccia: l'adhan era a carico di un gentiluomo - il muezzin - che Ariosto chiamava talacimanno, il quale saliva su per il minareto, si affacciava da un balconcino e ricordava cinque volte al giorno ai fedeli che era giunto il momento dell'orazione. Approfittandone anche per rammentare loro qualche precetto fondamentale. Anzi, gridandolo a squarciagola. Negli anni Trenta, nelle moschee comparvero i primi altoparlanti, i quali da una parte facilitarono la vita dei muezzin, dall'altra pero' la complicarono dannatamente a chi abitava nei pressi dei minareti.
E' stato calcolato che l'adhan puo' durare fino a 5 minuti e raggiungere l'intensita' di 88 decibel, laddove 90 corrispondono al passaggio di un treno e all'azione di una motosega.
Noi quel minareto avremmo potuto toccarlo con mano. Invece fu lui a schiaffeggiare noi.
L'adhan del salat al fajr, il richiamo della preghiera che corrisponde al crepuscolo, ci sfondo' i timpani alle 4 di mattina, nel mezzo della fase Rem. Poi si placo'. Appena riprendemmo sonno, gli altoparlanti del minareto ci seviziarono di nuovo le orecchie. Poi si acquietarono, illudendoci ancora. E li' l'urlo registrato ci mise il carico, massacrandoci le ultime gonadi intatte e lasciando una traccia talmente profonda che anche "Allahu Akhbar" e "Mohammed" divennero dei mantra di Daniele.
Del resto uno dei passaggi recita: "Pregare e' meglio che dormire".
Quando finalmente ci decidemmo ad alzarci, gli altri senzattto si erano ormai dispersi per Amman.
Noi li seguimmo, e in un paio d'ore vedemmo quello che c'era da vedere nel centro cittadino. La tappa successiva sarebbe stata quella di Jerash, ma prima buttammo giu' un piano d'attacco per il proseguo del viaggio. Io avevo davanti a me piu' di due settimane, Daniele almeno una, mentre Antonio sarebbe ripartito da li' a tre giorni proprio da Amman. Ci restava poco tempo per vedere il Paese. A parte Jerash, Petra e il castello di Kerak, poi, le principali attrazioni giordane erano fuori mano, richiedevano insomma un proprio mezzo di trasporto per poter essere viste in un lasso di tempo cosi' contenuto. Decidemmo pertanto di affittare un'auto. Avremmo dovuto stanziare piu' di quanto previsto dal nostro budget, ma il mezzo privato ci avrebbe consentito di girare la Giordania e avrebbe permesso ad Antonio di rientare ad Amman in tempo per il volo. Avremmo potuto ammortizzare la spesa dormendo in macchina: eravamo in tre, ma non poteva essere mica tanto peggio della tenda o del tetto della moschea.
Prima di farci consegnare le chiavi dell'auto, pero', prendemmo un bus per Jerash, che in epoca Imperiale era stato uno dei principali centri romani del Medio Oriente. La visita fu breve, e anche se in teoria tutto quello che vedemmo non avrebbe dovuto avere il sapore della novita', in realta' ci sorprese. Lo schema urbanistico dell'eta' di Traiano e Adriano - il decumano e il cardo massimo in splendio stato di conservazione - l'arco di trionfo e soprattutto il Foro, apparentemente l'unico nel mondo romano di forma ovale, facevano di Jerash uno splendore, non a caso la seconda meta turistica della Giordania.
Ci restammo meno di quanto avremmo voluto solo perche' la contrattazione per l'affitto della Hyundai era stata all'arma bianca. Pur di spuntare un prezzo piu' basso, ci eravamo impegnati a riportare la macchina nella capitale entro 72 ore: per questo andammo a Jerash coi mezzi pubblici, per poi rientrare ad Amman prima della chiusura del concessionario. Presa la macchina, sgasammo verso est e appena fece buio uscimmo dalla pista di asfalto e parcheggiammo nel deserto.
Dopo aver visto il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi (i mantra di Antonio comprendevano citazioni di Kant, di Proust e di Colpo Grosso), abbandonai la lotta e mi accomodai sui sedili posteriori della Accent, mentre i miei compagni di viaggio dormirono all'addiaccio, noncuranti del crollo della temperatura. Dopodiche' dovettero farsi bastare un pacchetto di biscottini a colazione per rimettersi in sesto dopo la notte stesi sul pietrisco del deserto giordano. Deserto che in mattinata tagliammo prima verso est, verso l'Iraq, poi verso ovest, verso la Cisgiordania, e infine verso sud, verso il Mar Rosso. In mezza giornata facemmo tappa in tre dei palazzi fortificati costruiti dagli Omayyadi tra il settimo e l'ottavo secolo, prima della rivoluzione abasside che rese piu' inclusivo l'impero guida del Medio Oriente. Ne visitammo uno in pietra basaltica nera, l'Azraq, uno piccolo, curioso, ricco di affreschi sotto le volte, l'Amra, e uno grosso e squadrato, il Kharaneh. Dopodiche' altre 5 ore di strada ci separavano da Petra. Lungo il percorso, sostammo davanti al castello crociato di Karak e rischiammo grosso quando tra un wadi e l'altro incrociammo una pattuglia della polizia nel momento in cui alla guida c'era Daniele, che con i suoi 18 anni, 3 mesi e 10 giorni ovviamente la patente non ce l'aveva. Arrivammo a Petra in serata, in una drogheria comprammo acqua e cibo e - senza l'assillo di trovare una sistemazione per la notte - ci dirigemmo al piccolo trotto verso l'ingresso del sito.
Fondata attorno al V secolo a.C. dagli Edomiti, successivamente occupata da Assiri, Babilonesi, Persiani, Seleucidi e Romani, Petra aveva vissuto il periodo di massimo splendore sotto i Nabatei e aveva vissuto il suo apice attorno al primo secolo dopo Cristo, quando l'insediamento all'epoca chiamato Raqqa' - in aramaico La Variopinta - era stato abitato da 30mila persone. Ribattezzata dopo che la dominazione di Alessandro Magno aveva portato all'ellenizzazione della lingua e dei costumi, Petra aveva poi subito un destino simile a quello di altre famosissime meraviglie del mondo antico come Machu Picchu e Angkor Wat, Tikal e l'esercito di terracotta. Era stata cioe' inghiottita dall'ambiente circostante, e la sua memoria era stata risucchiata nell'oblio.
Per secoli le sue meraviglie erano diventate parte della quotidianita' dei beduini locali, che bivaccavano nelle grotte scavate nella roccia finche' Petra non era stata riportata all'attenzione occidentale solo nel 1812, grazie a Johann Burckhardt, un orientalista svizzero-tedesco convertito all'Islam. Prima di morire a 33 anni, logorato della dissenteria e delle febbri, Burckhardt aveva esplorato il Medio Oriente - dalla Nubia alla Siria - documentando Abu Simbel e Dongola, traducendo Robinson Crusoe in arabo e diventanto un apprezzato giurista e conoscitore del Corano. Nonostante la sua testimonianza postuma, Petra era comunque rimasta isolata per le difficolta' incontrate dagli esploratori dell'epoca a superare la diffidenza delle tribu' del deserto. Solo nel 1929, l'Impero britannico era riuscito ad organizzare una vera spedizione archeologica.
Le sfide di tiro al bersaglio tra Daniele e Antonio |
Bastava dare un'occhiata al piazzale antistante l'entrata per capire che Petra era diventata la gallina dalle uova d'oro della regione. Un pavimento in pietre lavorate, curate, pulite e perfettamente incastonate, luci al neon, un hotel quattro stelle e nessuna spazzatura in giro. La biglietteria, la prima struttura autenticamente turistica che vedessimo in quel viaggio, faceva sapere che l'ingresso costava 25 dollari americani - ovvero 45mila lire. Piu' del nostro budget giornaliero, peraltro gia' eroso dall'affitto dell'auto. Mentre una famiglia di turisti arabi scattava le foto davanti all'ingresso, scrutammo il cancello. Era alto un paio di metri e non era sorvegliato. Volendo, qualcuno avebbe potuto scavalcarlo. Rischioso si', ma per nulla difficile. Sul lato destro, il cancello finiva contro il muro di cinta dell'albergo. A sinistra, invece, il muro piegava, seguendo il perimetro esterno del sito archeologico. Piegava e declinava, perche' l'accesso al cuore di Petra avveniva a piccoli passi, con un lungo camminamento in discesa, e perche' alla sinistra dell'ingresso si apriva una piccola vallata. Il buio non ci consenti' di capire ne' quanto fosse profonda, ne' cosa ci fosse in fondo al dirupo, ma basto' sporgersi per capire tre cose: il muro non era costruito a strapiombo, ma tra i mattoni e la vallata c'era un piccolo camminamento e il muro stesso diventava presto un parapetto che costeggiava la rampa d'accesso. Nel giro di pochi passi, si passava dai due metri e mezzo del muro all'altezza del cancello a due metri, poi ad un metro e mezzo e poi ancora ad un metro scarso d'altezza. Insomma, incamminarsi lungo il muro esternamente rispetto al sito e camminare lungo il ciglio della vallata, significava mettersi nelle condizioni di scavalcarlo agevolmente ed entrare a Petra senza passare per la biglietteria.
Il tramonto da Tafilah, cittadina giordana a meta' strada tra Kerak e Petra |
"Scavalchiamo". Fu Antonio a formulare l'idea ad alta voce. Quella era l'ultima serata insieme: dopo Petra, Scapigliato avrebbe dovuto guidare a tutta velocita' per riportare la Hyundai ad Amman e da li' andare in aeroporto. Per la prima volta dall'inizio del viaggio, decidemmo quindi di concederci il lusso di una birra. E li', seduti in un locale vuoto di Wadi Musa, ci confrontammo. Antonio, acqua cheta, richiamato sempre alla prudenza per indole, come gli spesso gli capitava si scaldava in corso d'opera. Era stato lui, 4 anni prima, a cambiare i soldi in nero sul treno jugoslavo, accendendo la miccia che avrebbe portato al fermo della polizia serba a Belgrado. Daniele, che pure aveva accolto con favore ogni deviazione dalla retta via che quel viaggio ci aveva presentato, oppose un tiepido no. Io mi sedevo a meta' del guado. Era stato proprio il treno serbo a farmi scoprire il gusto per quel gioco 3D nel quale ci si immergeva in una realta' cercando di esplorarne i confini legali e comportamentali e nel quale pur essendo l'anello debole della catena si provava a mettere tutto in discussione, nel nome della conoscenza e degli effetti della vita sui propri neurotrasmettitori. In pratica l'adrenalina era diventata una delle misure della profondita' e del peso specifico dell'esperienza. D'altra parte, pero', appena 7 mesi prima ero finito in gattabuia in Tunisia per molto meno, per aver scattato una fotografia innocente. E me l'ero vista bruttarella. Negli ultimi 10 giorni, poi, tra bombe israeliane su Jbaa, auto in panne nella campagna siriana e notti all'addiaccio assieme ai senzatetto di Amman avevamo fatto il pieno di emozioni, esperienze e epinefrina.
Non sapevo se fosse davvero il caso di sfidare ancora una volta la sorte.
Invece lo facemmo. E lo facemmo pure strano. Finita la birra, guidammo verso la periferia di Wadi Musa - letteralmente la Valle di Mose' - per evitare di dare troppo nell'occhio e per non dovere avere a che fare con l'illuminazione stradale. Parcheggiammo la Accent su un greppo, dove anche le luci della cittadina erano poco visibili. Noncuranti della nottata precedente nel deserto, Daniele e Antonio si sistemarono all'aperto, salvo poi scapicollarsi dentro l'abitacolo. L'agglomerato, come molti centri mediorientali, pullulava infatti di cani randagi per proteggerci dai quali ci ritrovammo barricati dentro la macchina, circondati da animali, neanche fossimo i protagonisti di Cujo II. Dormimmo poco e male, e alle 4 e mezza suono' la sveglia. Dovevamo sfruttare il buio e non avevamo tempo da perdere. Ci vestimmo di nero - anche se questo significava indossare vari strati - e prima delle 5 eravamo nuovamente all'ingresso del sito archeologico, spalle al muro di cinta e con lo sguardo rivolto verso la vallata. L'aurora ci consenti' di intravedere tutto: la profondita', la pendenza e soprattutto il fatto che sull'altro versante, a 200 metri in linea d'aria, c'erano alcune baracche sorvegliate da cani i quali probabilmente ci videro, sicuramente ci sentirono e di fatto abbaiarono.
"Merda", pensammo. Nel biancore dell'alba, i nostri vestiti neri facevano l'effetto di un neo sulla fronte.
Il Wadi al Hasa |
Come facilmente previsto, meno di 100 metri piu' giu' rispetto al cancello d'entrata, il muro di cinta si era ridotto ad una fila di mattoni scavalcabili senza problemi. Eravamo dentro, senza esattamente sapere cosa aspettarci ne' come agire. In epoca proto-internettiana, l'unica mappa di cui disponevamo era lo schizzo della Lonely Planet, dal quale si capiva che il Khazneh, l'edificio piu' iconico di Petra, distava circa 2 chilometri e mezzo dall'entrata, la meta' dei quali stretti in un canyon quasi altrettanto celebre, il Siq. Cos'altro ci fosse esattamente tra l'ingresso e il Tesoro o se il sito fosse pattugliato, controllato da telecamere a circuito chiuso ed eventualmente dove potessimo nasconderci, furono domande che ci ponemmo solo una volta che eravamo dentro, sentendoci improvvisamente esposti ad una serie di intemperie ben peggiori di quelle che avevamo superato. Scavalcare il muro era stato come tuffarsi nell'oceano, ma adesso ci toccava sopravvivere in mare aperto. Le prime luci dell'alba illuminarono il profilo della roccia sedimentaria clastica nella quale i Nabatei avevano scavato monumenti, templi e tombe come quella dell'obelisco, accanto al Bab-al Siq Triclinium, nella quale ci rifugiammo attorno alle 5.30 di mattina, come naufraghi su quell'isoletta.
L'anfratto nel quale ci infilammo, era alto un metro e mezzo, ma profondo e largo abbastanza da ospitare comodamente noi tre piu' lo scheletro di un vacca. Non sapevamo se qualcuno ci aveva visto e aspettava solo che uscissimo allo scoperto per coglierci con le mani nel sacco. Il timore ci avrebbe accompagnato per tutto il giorno. Ma pensavamo, o speravamo, che da li' a poco il sito sarebbe stato preso d'assalto dai visitatori. L'anno prima, Antonio ed io eravamo stati a Tikal, dove i cancelli aprivano prima dell'alba perche' quello era il momento migliore per esplorare la rovine Maya nella giungla del Guatemala. Motivo per il quale tra l'altro ero dovuto restare a digiuno per 28 ore filate. Immaginavamo insomma che dalle 6 in poi saremmo potuti uscire e mescolarci alla folla che avrebbe preso d'assalto Petra. Ma quella si dimostro' una speranza vana. Alle 6.10 passo' una persona. Alle 6.30 altre due. Prima delle 7, poi, proprio mentre eravamo pronti ad uscire, sbuco' un uomo armato in groppa ad un ciuco. Nella grotta cominciava a fare troppo caldo per gli strati di nero e ci spogliammo. Poi prendemmo il coraggio a due mani e uscimmo allo scoperto, lasciando li' lo scheletro della vacca.
Per dare leggermente meno nell'occhio e per poter abbozzare una tesi difensiva, all'imbocco del Siq ci separammo. Io davanti, poi Daniele e in fondo Antonio. Se la security avesse fermato uno dei tre, avremmo potuto prendere tempo affermando che i biglietti ce li aveva un altro membro della combriccola. Architettai quello stratagemma, che serviva piu' altro per rallentare i battiti cardiaci, e cedetti alla tentazione di aggiungerci un dettaglio assolutamente ridondante.
Se fossi arrivato a destinazione senza problemi, avrei canticchiato la colonna sonora di Indiana Jones, per comunicare che il grosso era fatto. Quando in fondo al Siq intravidi la facciata del Tesoro, tirai fuori la Nikon e contemporaneamente intonai il ritornello di Riders March.
Non ce l'avevamo ancora fatta, anzi il dubbio che qualcuno ci stesse aspettando all'ingresso con le manette ci rimase incollato addosso fino al pomeriggio inoltrato. Ma intanto, man mano che passava il tempo e che aumentava la distanza dall'ingresso, potevamo millantare di aver smarrito i biglietti. Tanto piu' che appena ci riunimmo davanti al Tesoro, ci issammo su uno degli speroni di fronte al Khazneh e ci immortalammo alla maniera del secolo scorso, con un autoscatto a tempo e con un'inquadratura della quale non avemmo riprova fino al mese successivo, quando sviluppai il rullino. Non ci restava che goderci la visita di una delle sette meraviglie del mondo moderno, anche se a complicarlae c'era un altro fattore.
C'e' sempre un altro fattore. Nella circostanza un appuntamento in linea di massima con Giancarlo, il fratello di Daniele, nonche' mio para-cognato. Viveva e lavorava in Egitto, e quando aveva sentito pronunciare il nome di Petra, s'era impegnato a fare di tutto per raggiungerci. Peccato che nessuno di noi avesse un cellulare e che le sporadiche comunicazioni avvenissero in differita via posta elettronica. L'ultima volta che gli avevamo scritto un'email, avevamo confermato la data dell'arrivo a Petra avevamo stabilito che l'incontro sarebbe eventualmente avvenuto davanti al Khazneh, che era l'unico riferimento possibile, l'unico monumento del quale conoscessimo nome e volto.
Quel che non sapevamo, pero', era che il Khazneh e' all'imbocco, una specie di porta d'accesso ad un sito che si estende per 260km quadrati. Non sapendo neanche a che ora Giancarlo si sarebbe potuto palesare, avevamo fissato dei possibili appuntamenti ad intervalli regolari. "Ci vediamo o alle 9 o alle 10, o alle 11 o a mezzogiorno davanti al Tesoro", gli avevamo scritto.
Cosi' facendo, per quattro ore ci obbligammo a fare l'elastico tra il Khazneh e tutto quello che si apriva c'era alle sue spalle. Alla fine, Giancarlo non venne. E noi camminammo come uomini degli altipiani, consumando il doppio delle energie e il triplo dell'acqua. All'una eravamo cotti, oltre che a digiuno, ma nonostante questo ci inerpicammo fino all'altra grande attrazione del sito, il Monastero - al Deir - chiamato cosi' perche' quella che probabilmente era una tomba dei Nabatei era stata utilizzata come un luogo di culto dai Romani.
Per arrivarci, bisognava camminare 3 chilometri e mezzo dal Khazneh e poi salire 800 gradini scavati nella roccia, tant'e' che i turisti meno in forma si affidavano volentieri al trasporto a pagamento offerto dagli asini. Non noi, che se non avevamo avuto i soldi per il biglietto d'ingresso e non ne avevamo per comprare da mangiare o da bere tra le mura di Petra, certo non ne avevamo per farci trasportare dai somari. Anche se sarebbe stato quantomeno consigliabile.
Quando scendemmo a valle, eravamo alla frutta: solo dal Monastero all'ingresso sono piu' di 6km di strada. Ad inizio agosto, a digiuno, a corto d'acqua, dopo una serie di notti trascorse in auto, in tenda, sotto le stelle nel deserto e sul tetto della moschea, e dopo esserci costretti a camminare per Petra il doppio di quanto dovuto alla ricerca de Giancarlo perduto, Daniele arrivo' ad un passo dallo svenimento. Si rianimo' per un frangente, quando davanti a noi una signora si sciacquo' i piedi con dell'acqua potabile e lui per poco non puni' quell'oltraggio saltandole alla giugulare. Ma pur con la spada di Damocle del dubbio che saremmo stati arrestati all'uscita, accelerammo il passo e guadagnammo l'uscita, dove Antonio ci avrebbe salutati per riportare nella capitale la Hyundai color carta da zucchero, mentre Daniele e io avremmo proseguito verso sud, salendo in fretta su un bus diretto verso il porto di Aqaba.
Mentre Daniele lottava tra la vita e la morte, tenuto per i capelli da un sacchetto di zucchero che avevo rimediato chissà dove, mi guardai attorno. Anche sull'autobus di linea giordano il ritratto del figlio era compariva accanto a quello del padre. In questo caso, però, re Hussein era passato a miglior vita 5 mesi prima. Dopo un funerale mai visto, che era riuscito a mettere insieme Arafat e Netanyahu, i presidenti di Russia, Egitto e Siria, Boris Eltsin e cinque presidenti americani, per la sua successione si era scatenato un bel casino. E non solo perché il re hascemita aveva avuto 11 figli da 4 donne diverse e una dodicesima era stata adottata dalla terza moglie. Per provare a regolare i conti e il traffico nel palazzo e nella società giordana, il figlio prescelto - Abdallah - finirà per cucinare una serie di frittate. La più clamorosa delle quali si sarebbe rivelata concedere l'amnistia ad alcuni fondamentalisti in carcere. Un modo per ingraziarsi il clero e i musulmani oltranzisti ma che porto' alla liberazione di molti terroristi, tra i quali quell'al-Zarqawi che 5 anni dopo sarebbe diventato l'emiro di Al Qaeda in Iraq. E che dopo, assieme ad Abu Bakr al Baghdadi, avrebbe fondato lo Stato Islamico, diventandone il simbolo, la mano armata e l'orrificante tagliagole.
Al Zarqawi era a piede libero, quando arrivammo ad Aqaba il 9 agosto del '99. A due giorni da un evento astronomico che monopolizzò l'interesse e la curiosità del mondo, ma che in Giordania fu vissuto come l'avvento dell'Apocalisse. L'eclissi solare.
(fine -part 3)
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