martedì 12 luglio 2022

Il regno del teschio di cristallo - part IV

Quando arrivammo ad Aqaba avevamo disperato bisogno di acqua e di cibo, di una doccia e di un letto. Venivamo da due notti in macchina, due in tenda e una su un tetto - non che quelle prima fossero state all'insegna del comfort - avevamo consumato le suole ed esaurito le energie. A due isolati dal golfo trovammo una stanza in una pensione della quale eravamo gli unici clienti e che forse in una vita precedente era stata una scuola o un ospedale, a giudicare dalle camere e dai lavabi quadrati in metallo nel bagno comune. L'uomo che ci diede le chiavi ci fece leggere un avviso alla cittadinanza che era stato appena emesso. "Il giorno 11 agosto, tutti gli uffici e le attivita' commerciali resteranno chiusi. In Giordania non circoleranno mezzi pubblici, mentre quelli privati potranno essere usati solo in casi eccezionali". 
In pratica il Paese si fermava, bloccato da un'eclissi solare che sarebbe durata un paio d'ore, durante le quali la Luna si sarebbe frapposta tra la Terra e la sua stella, tagliando diagonalmente l'emisfero boreale dalla Normandia all'Iran passando per l'Europa centrale, la Romania e la Turchia. Un fenomeno che per qualche decina di minuti avrebbe interessato di sguincio anche la Giordania.
Il fuoristrada che ci diede un passaggio nel Wadi Rum

Visto che l'11 agosto saremmo rimasti bloccati ad Aqaba, l'indomani ci ingegnammo per raggiungere e visitare il Wadi Rum, la valle della Luna, la zona desertica formata da valli sabbiose e particolari formazioni geologiche che il colonnello Edward Lawrence aveva descritto come 'simili ad una divinita'' e che oltre a panorami impressionanti ospita anche lupi e volpi, stambecchi e orici, petroglifi e incisioni rupestri e dei thamadeni e dei nabatei. Un'operazione che da backpackers indipendenti, senza mezzi di trasporto e con pochi soldi fu piu' facile a dirsi che a farsi. Prendemmo prima un bus, poi camminammo finche' rimediammo un primo passaggio. Quindi ci facemmo adottare da un gruppetto di stranieri che aveva affittato due fuoristrada e grazie a loro vedemmo archi e formazioni rocciose a sazieta'. Dopodiche' trovammo un passaggio verso l'ingresso del parco, un altro verso la strada principale, da dove salimmo su un bus che - mentre il sole tramontava - ci riporto' nella scuola/ospedale di Aqaba nella quale trascorremmo la notte.
L'eclissi non oscuro' il cielo, ne' lo annebbio' o lo velo'. Non si vide ne' si percepi'. Se non avessimo saputo che in quel momento la luna stava passando tra il sole e la Terra e se non ci fossimo sforzati di scrutare verso l'alto attraverso il filtro degli occhiali, non ci saremmo accorti assolutamente di nulla. Eppure quel giorno la Giordania si paralizzo'. Ad Aqaba non circolarono auto, la gente rimase sigilata in casa a poltrire e per noi fu complicato anche solo trovare qualcosa da mangiare. Le zelanti e allarmate autorita' locali imposero anche l'accensione dei lampioni per tutto il giorno. Uno spreco senza precedenti e senza motivo. Il governo aveva talmente sorvadimensionato la portata dell'eclissi, che l'11 agosto 1999 Aqaba non solo non piombo' nel buio, ma fu illuminata come mai prima nella sua storia. Trascorremmo la mattinata passeggiando per le vie vuote della cittadina strappata da Lawrence d'Arabia ai turchi e vedemmo il castello ottomano. Poi ci allungammo in spiaggia, l'unica del Paese, dove eravamo soli e da soli ci venne la balzana idea di tuffarci in mare. L'acqua era bassa, limpida e tiepida, ma stracolma di ricci. Passamo la serata, l'ultima insieme, a toglierci la spine da sotto i piedi. L'indomani ci salutammo.  
11 agosto 1999 - a mezzogiorno il cielo di Aqaba si oscuro' in questo modo
Daniele prese un taxi verso il porto, da dove si sarebbe imbarcato per Nuweiba, in Egitto, per poi raggiungere il fratello. Io partii qualche minuto dopo e mi diressi verso il Wadi Araba, la valle d'origine fluviale che taglia il Negev dal mar Morto al golfo di Aqaba e che segna il confine naturale tra Giordania e Israele. Il posto di frontiera era distante poche centinaia di metri in linea d'aria e una decina di chilometri via terra. 
I confini terrestri tra due Stati rappresentano quanto di piu' complesso e affascinante possa offrire il viaggio. Il fatto che una nazione A finisca qui, dove inizia il territorio di una nazione B, non e' praticamente mai determinato da fattori assoluti, oggettivi e univoci. L'Asia e' grande una volta e mezzo l'Africa, ma ospita meno Stati sovrani (49 contro 54). L'Europa e l'Australia hanno dimensioni molto simili, solo che l'Australia e' un unico Stato confederato, mentre l'Europa e' spezzettata in piu' di 45 staterelli, tutti piu' piccoli del New South Wales. 
Bella forza, si dira'. Una e' un'isola e l'altra e' la costola di un continente. 
Peccato che Madagascar e Nuova Guinea abbiamo dimensioni paragonabili, solo che una e' un'isola-nazione, mentre l'altra e' divisa a meta' tra Indonesia e Papua, nazioni che si completano con centinaia di altre isolette. La Groenlandia, che e' piu' grossa di entrambe, e' una nazione costitutiva del regno di Danimarca, mentre il Borneo - che e' la terza isola al mondo per superficie - e' addirittura suddiviso in tre entita' statuali: Indonesia, Malesia e Brunei. 
Idem per Sri Lanka e Hispaniola: stessa area, solo che uno e' uno Stato insulare, mentre l'altra e' un'isola spaccata tra Haiti e Repubblica Dominicana. E ancora: la Polinesia Francese e' composta da 188 isole e 5 arcipelaghi sparpagliati su 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati nel Pacifico, tutte facenti capo ad una cosiddetta collettivita' d'oltremare che dipende, appunto, dalla Francia. Su una superficie molto simile, il mar dei Caraibi ospita una trentina di Stati, una quindicina dei quali indipendenti e sovrani, piu' centinaia di isole che appartengono geograficamente ad altri Paesi (Roatan all'Honduras, Cozumel al Messico, Margarita al Venezuela e via dicendo) e altre ancora che sono possidimenti d'oltre mare amministrativamente dipendenti da Stati in qualche caso lontanissimi (Guadalupa e Martinica alla Francia, Aruba e Curacao ai Paesi Bassi, le Cayman e Montserrat al Regno Unito ecc). 
In totale nei Caraibi ci sono 1300 isole facenti capo a 34 Paesi diversi. Le Filippine, al contrario, contano 7000 isole, cinque volte il numero di quelle dei Caraibi, ma sono tutte sotto il governo di Manila, anche se al loro interno non mancano etnie, lingue e religioni diverse. Se la questione e' complessa quando si tratta di isole, diventa ancora piu' contorta quando i confini geografici e identitari sono piu' confusi e sfumati.
Di base non e' solo la geografia e non e' solo la componente etnico-linguistica a determinare il punto in cui finisce un Paese e ne comincia un altro. Altrimenti il Canada e gli Stati Uniti sarebbero una cosa sola, e magari anche tutto quel che va dal Messico alla Terra del Fuoco. A stabilirlo e' quel gomitolo fittissimo di eventi e circostanze che chiamiamo Storia. Dipanare quel gomitolo significa ricostruirla, risalendo a tutti quegli arabeschi che hanno portato allo status quo attuale, in base al quale oggi esiste un confine che fino a ieri passava altrove oppure che non c'era proprio. 
Dipanarlo significa sapere che per una Germania che si unifica ci sono venti Paesi che nascono dalla frammentazione di altre entita' statuali, perche' fino a 100 anni fa la normalita' era rappresentata dagli Imperi mentre oggi si riconosce il principio dell'autodeterminazione dei popoli. Almeno entro certi limiti, altrimenti domani l'Europa si ritrovebbe con 100 Stati - tra i quali la Catalogna, la Lapponia e la Transnistria - mentre l'Asia ne germinerebbe altri 300. 
E soprattutto finche' i popoli che si vogliono autodeterminare non si scontrano con Russia o Cina, Turchia o Israele, perche' in quel caso son dolori. 
Ad ogni modo, le frontiere sono la fotografia dell'insieme degli eventi che ha portato anche un confine a passare proprio oggi proprio li'. Pertanto i confini sono la sintesi della Storia e raccontano storie. 
Il paradosso, ma anche la riprova del loro essere entita' contingenti e non spontanee, quasi convenzionali, e' che l'uomo deve farsi carico della loro salvaguardia. Proprio a cavallo di dove oggi passa una linea di frontiera, infatti, gli abitanti di due Paesi confinanti un tempo interagivano molto piu' di quanto non possano fare oggi e spesso piu' di quanto facciano con il centro del loro Paese d'appartenenza. 
La Storia ha tracciato una linea proprio laddove l'identita' di una Nazione e' meno definita e dove i suoi cittadini meno si riconoscono nell'identita' tipicamente nazionale. Una linea tracciata dove le persone sono talvolta piu' simili ai loro dirimpettai d'oltre confine che con quelli della capitale del loro Paese. Proprio li' l'autorita' centrale compare d'emblee e impone la propria presenza. Senza andare troppo lontano, penso all'AltoAdige, ai Paesi Baschi, all'Alsazia, alla Pomerania. Tutti posti i cui abitanti si trovano al di qua' a causa dei ghirigori della Storia, ma che in un mondo ideale sarebbero cittadini di altri Stati. Penso allo Xinjang, il Turkestan orientale, o al Kurdistan. 
Insomma, attraversare le frontiere consente si' di apporre un timbro sul passaporto e di piantare un'altra bandierina a completamento della propria mappa del mondo, ma permette soprattutto di tastare con mano quel che narrano i manuali di storia, di geografia e di antropologia. 
Quasi sempre, poi, le frontiere costituiscono un momento di tensione, oltre che di riflessione. 
Intanto perche' non e' sempre facile raggiungerle e poi perche' non e' scontato attraversale senza aver prima dovuto fare i conti con la burocrazia, con le leggi o con la voglia dei doganieri di affermare il loro potere assoluto rendendoti la vita difficile. 
Poi spesso io ci metto del mio, perche' anche quando ho i documenti in ordine subisco il fascino dei posti in cui e' vietato scattare foto per motivi di sicurezza, e che quindi non sono visti e stravisti. 
Una foto, sia pure fessa, per immortalare quei luogi proibiti, ogni tanto mi scappa.
Alle frontiere, insomma, succede sempre qualcosa.
Esausti nel centro di Elat
Quel che successe alla frontiera tra Giordania e Israele fu che riapparve Daniele. 
Il traghetto per l'Egitto quel giorno non partiva, per cui non gli restava che fare il giro largo per raggiungere Sharm el Sheik via terra. Quel che accadde fu che i controlli giordani furono sommari e che quelli israeliani durarono una mezz'oretta, nulla a fronte delle 3 ore di interrogatorio che mi dovro' sorbire all'aeroporto di Ben Gurion. E successe che appena messo piede in Israele, ci scontrammo con una realta' diversa da quella che avevamo lasciato. Il centro di Eilat distava 6 chilometri dal posto di frontiera. Trasporti pubblici non ce n'erano, l'unico taxi non si degno' neanche di farci un preventivo - tanto era chiaro che non avessimo sheqel - e non trovammo un passaggio neanche a implorarlo. E dire che lo implorammo, perche' la temperatura media ad agosto nella punta meridionale del Negev tocca i 40 gradi, e quel 12 agosto '99 non fece eccezione. A differenza della sfacchinata di Petra, la passeggiata fu in linea retta e tutta piatta, ma a differenza di Petra il sole incoccio' senza concederci ombre e soprattutto in spalla avevamo gli zaini. Sul mio, poi, c'era anche la tenda.
Arrivammo ad Eilat sfiniti. Dopo un paio d'ore ci salutammo davvero e Daniele riprese la marcia per coprire i 220km che lo separavano da Sharm, nella speranza di arrivarci prima del tramonto. 
Anche a me mancavano 220km, ma io andavo nella direzione opposta, verso nord. E capii subito che non ci sarei potuto arrivare prima del tramonto, perche' il bus sarebbe partito alle 9 di sera.
Questa e' stata fatta al Wadi Rum, ma qui ci sta bene
Mangiai un panino e cercai di riprendere un po' di energie con uno yogurt. Quel poco che recuperai lo mandai in fumo con gli interessi nelle 12 ore successive. 
Ero cotto quando finalmente salii a bordo del torpedone. A differenza di quelli che avevamo utilizzato in Siria e in Giordania, quel bus israeliano aveva un sapore occidentale. Pure troppo. Il controllore mi fece presente che quell'autobus era diretto a Gerusalemme e che i posti a sedere erano riservati per chi sarebbe arrivato a destinazione. Non essendo quello il mio caso, potevo sedere solo finche' a bordo non fosse salito qualcuno diretto nella citta' santa. Nel qual caso gli o le avrei dovuto cedere il posto. Lui sali' alla prima fermata. Per cui non solo dovetti abbandonare la speranza di riposare le stanche membra sul sedile, ma mi ritrovai in piedi per tre ore e mezza, con la testa che ciondolava da tutte le parti, tipo bobblehead, finche' all'1 e mezza di notte mi avvisarono che il bus mi avrebbe scaricato sulla complanare di Masada, senza uscire dalla Highway 90, la strada piu' lunga d'Israele.
La fortuna volle che di fronte alla fermata ci fosse il Masada Hostel. 
La sfortuna volle pero' che l'ostello fosse chiuso, nel senso che pur essendo perfettamente funzionante, era letteralmente sigillato. Non un concierge, non un portiere di notte, non una porta a vetri per sbirciare dentro. O per fracassare il vetro ed entrare, tanto ormai ero un fuorilegge conclamato.
Provai a suonare il campanello, ma non rispose nessuno. Il Masada Hostel era un guscio chiuso. 
L'alba sul mar Morto dalla fortezza di Masada 

Di Masada mi affascinavano la storia e la collocazione drammatiche. Il palazzo costruito da Erode - proprio quell'Erode - in cima ad uno sperone roccioso che si stagliava a 400metri di altezza sul deserto di pietra e a strapiombo sul mar Morto, il punto piu' basso tra le terre emerse. Il palazzo che dopo la caduta di Gerusalemme per mano dei Romani era stato teatro di un tragico assedio durante il quale le truppe di Lucio Flavio Silva Nono Basso sconfissero gli zeloti, ovvero gli ebrei che non si erano arresi e che finirono invece per suicidarsi in massa. Il tutto in uno scenario naturale da film, con l'altipiano sul quale sorgeva la fortezza con mura alte 5 metri e che era accessibile solo attraverso il sentiero del Serpente. 
"Talmente ripido, tortuoso, sinuoso e impervio - raccontano le cronache del primo secolo dopo Cristo - da impedire ad un soldato romano di poggiare contemporaneamente entrambi i piedi", tanto era ripido. 
L'anno precedente, non a caso, era stata inaugurata una funivia che portava i visitatori da valle fino alla cima dell'altipiano. Mio padre, nella sua prima e unica missione solitaria all'estero dell'ultimo mezzo secolo, l'aveva presa a gennaio.
Io no, ovviamente. Io feci parte dei visitatori che prendevano l'antica via e si incamminavano lungo il sentiero del Serpente. E che partivano col buio, in modo da arrivare in cima a Masada in tempo per l'alba, per vedere il sole sorgere tra le acque del mar Morto e le rovine della fortezza. 
Fin qui niente di troppo strano. 
Sapendo che verso le 3.30 di notte qualcuno sarebbe uscito dal bunker dell'ostello e deciso ad aggregarmi lungo l'ascesa - se non altro perche' non avevo una torcia - mi stesi sul prato davanti all'ingresso della struttura ricettiva. Il terreno era abbastanza morbido, piu' del deserto giordano, la temperatura era ideale per prendere sonno, lo zaino mi faceva da cuscino. Mi rilassai. La camminata sotto al sole d'agosto, dalla frontiera fino ad Eilat e il tragitto sul bus in piedi mi avevano fuso. Il mio corpo chiedeva solo di staccare la spina.
Zzzzzz.... Zzzzzz...... Zzzzzzzzz..
Non feci in tempo a chiudere gli occhi che un nugolo di zanzare mi comincio' a ronzare attorno e a pizzicare ovunque. Madonna benedetta. Ridotto ai minimi termini, optai per il laissez faire - mi misi una t-shirt davanti alle orecchie e agli occhi e provai ad abbandonarmi lo stesso al sonno. Ma invece di pasteggiare, saziarsi, ringraziare e allontanarsi, quelle bagasce richiamarono tutto il vicinato e io non riuscii a prendere sonno. In breve, mi ridussero ad un campo di battaglia. Dovetti desistere, ripresi lo zaino e verso le 3 di notte cominciai a percorrere il sentiero che saliva a Masada. Dopo una notte insonne e con uno zaino da 15 chili sulle spalle, visto che l'ostello era sempre chiuso e non sapevo dove lasciarlo.
Per percorrere il sentiero del Serpente ci vuole un'ora abbontante. Io ne impiegai quasi due, pensando a piu' riprese che non ce l'avrei fatta. Piu' la temperatura saliva, piu' sudavo. Ma sudavo freddo, freddissimo, e annaspavo. Riuscii a stento a scattare una foto dell'alba in uno degli ultimi tornanti e poi - appena messo piede sull'altopiano - mi stesi sul terriccio e rifiatai, con la testa poggiata su un masso appuntito. La gente attorno a me penso' che ero passato a miglior vita. Quando riaprii gli occhi, dondolai tra i resti dei campi militari romani costruiti sul palazzo di Erode e degli zeloti, mangiai quel po' di yogurt avanzato dal giorno prima e mi rimisi in marcia, sapendo che quello sarebbe stato l'ultimo grosso sforzo fisico del viaggio.
Non l'ultimo momento di strizza, pero'. 
Ripassai davanti all'ostello, che nel frattempo si era animato, e salii su un bus diretto a nord. 
Di Gerusalemme vidi solo la cupola della Roccia, da lontano. Sarebbe stata l'ultima tappa del percorso e non avevo voglia di bruciarla. L'ultima parte del viaggio sarebbe stato un pellegrinaggio storico tra i luoghi dell'Antico e del Nuovo Testamento in compagnia dei ragazzi di una parrocchia di Roma.
O meglio, per loro sarebbe stato un pellegrinaggio tra i luoghi della Bibbia. Per me una visita soft di Israele, la chiusura di un cerchio geografico del vicino Oriente con la possibilita' di capire se c'era ancora margine per ricostruire il rapporto con la mia prima e unica ragazza, che un anno prima aveva detto basta.
L'appuntamento con gli altri sarebbe stato da li' a 24 ore a Nazareth. Chiaramente.
Da Masada presi un primo mezzo che attraverso' parti della Cisgiordania e arrivo' a Gerusalemme. Da li' i bus e i minibus diretti verso nord facevano il giro largo, evitando Ramallah, Nablus e tutte le localita' della West Bank a maggioranza musulmana nelle quali il risentimento per le politiche di Netanyahu e per la liberta' concessa ai nuovi insediamenti dei coloni stava montando. 
E dove sarebbe culminata un anno dopo nella seconda Intifada. 
Il bus che presi da Gerusalemme impiego' due ore ad arrivare ad Haifa. Almeno la meta' degli occupanti erano militari e almeno la meta' dei militari aveva un'arma in bella mostra. Per buona parte di quelle due ore la canna di un fucile mi sfioro' il piede sinistro. Mi basto' quel tragitto per intuire cosa comporti da una parte la sindrome di accerchiamento e dall'altra il terrore di essere costantemente sotto tiro. Poi, ad Haifa, aggiunsi un tassello. 
Il bus successivo, quello per Nazareth, sarebbe partito dopo altre due ore, ragion per cui sfruttai il tempo a disposizione anche per rinfrescarmi. Non facevo una doccia da Aqaba, non mi sciacquavo il viso e i denti da quasi 24 ore e necessitavo di un pit stop nel bagno del terminal. Una toilette angusta attraverso la cui porta il mio zaino neanche passava. Lo poggiai a terra, entrai e mi concessi il lusso di qualche abluzione. Quando ne uscii, ancora cotto e sempre piu' deperito ma almeno pulito, attorno al mio Invicta viola c'erano tre uomini. Uno con un metal detector, uno con un fucile e uno con un equipaggiamento per far brillare un ordigno.
"E' tuo questo?", mi chiesero i tre militari, un attimo prima di far esplodere il mio zaino. 
Areen e i suoi fratelli
Chiesi scusa per il procurato allarme. Loro no. Entrambi avevamo le nostre buone ragioni ed entrambi avevamo trascurato le buone ragioni dell'altro. Quando il quarto bus della giornata mi scarico' a Nazareth, sospirai. Poi guardai l'altimetria della cittadina dell'annunciazione e dell'infanzia di Gesu' e capii che non era mica tanto finita, quella giornata. Il monastero nel quale avrei trascorso la notte era in cima al paese e c'era ancora parecchia strada da fare in salita e con lo zaino. A meta' del percorso avevo ricominciato a sudare freddo, mi riposai poggiandomi su un muretto quando una ragazza mi vide in ambasce e mi invito' ad entrare per bere un bicchiere d'acqua e un te'. Si chiama Areen, aveva una sorella gemella e un fratellino. I tratti somatici erano mediterranei, la carnagione olivastra, parlava arabo, nella modesta casa di famiglia c'erano un passaporto israeliano, una kefiah e un crocifisso. 
Capii in pochi minuti quel che aveva provato ad inculcarmi per un lustro il professore di storia e filosofia quando alludeva alla distinzione tra popoli, stati, nazioni e etnie. 
Capii che certe vite sono davvero complesse. 
Areen era cittadina israeliana di lingua araba e di fede cattolica.
Era era un'esponente di quel 30% di palestinesi di fede cristiana e con cittadinanza dello Stato Ebraico che abita a Nazareth. Per quelli come lei il passaporto va di pari passo con la leva militare obbligatoria ma statisticamente non garantisce i livelli di integrazione dei suoi connazionali. 
Anzi, quelli come Areen nascono sapendo che vivranno situazioni di emarginazione, che saranno destinati ad essere ospiti nel proprio Paese, diversi da tutti e mai completamente a casa da nessuna parte.
Persone per le quali tral'altro Dio, il Dio cristiano, si chiama Allah.   
Areen mi scrivera' per molti mesi a venire, via email, chiedendomi di aiutarla a lasciare Israele prima che la situazione precipitasse. In quel lasso di tempo processero' tutto quanto propinato dai dieci giorni successivi. Nazareth e Betlemme, Gerico e Qumran, Tabgha e il lago Tiberiade, lo splendore di Gerusalemme e la certezza che con Paola era finita. 
Accompagnai i ragazzi della parrocchia in aeroporto: loro partirono a mezzogiorno con un volo, io avrei lasciato Tel Aviv quattro ore dopo. Tre ore e mezza delle quali passate alle prese con due soldatesse specializzate negli interrogatori dei passeggeri in partenza dallo scalo dedicato alla memoria del presidente Ben Gurion. Tutto quello che non mi era stato chiesto alla frontiera tra Aqaba e Eilat, tutto quello che non mi era stato e non mi sarebbe stato chiesto prima, durante e dopo il viaggio, me lo chiesero quelle due ragazze in divisa. 
Non solo dove ero stato e con chi ero stato, ma anche come fosse composta la mia famiglia, in cosa consistesse il mio corso di laurea e il mio lavoro per l'agenzia stampa, come avevo rimediato il denaro per permettermi il viaggio. E poi perche' avevo scelto Israele, perche' la Giordania, perche' la Siria, perche' il Libano. 
Soprattutto, perche' il Libano. 
Di tutto quello che avevo fatto e visto sapevo che dovevo omettere un dettaglio: la figura di Mustafa'. Perche' quello avrebbe potuto far saltare il banco, facendomi sembrare un sospetto. 
Era il rovescio della medaglia di Jbaa, dove i Ghamloush temevano che i parenti e i compaesani mi avrebbero preso per una spia se avessi rivelato che sarei andato in Israele. 
Il doganiere libanese dell'aeroporto di Beirut mi aveva lasciato passare anche se l'unica informazione di cui ero in possesso era il nome di chi mi avrebbe ospitato. 
Le soldatesse israeliane invece non si sarebbero accontentate di sapere che si chiamava Mustafa', non si sarebbero accontentate di tutti i dati sensibili di cui ero venuto a conoscenza e probabilmente non si sarebbero neanche fatte bastare la verita'. Anzi, la verita' mi avrebbe trasformato in uno straniero che aveva flirtato con gli stessi hezbollah che l'aviazione di Tel Aviv bombardava. 
L'essere amico del nemico mi avrebbe trasformato automaticamente da sospetto a indesiderato a nemico a mia volta. Per di piu' colpevole di falsa testimonianza.
Del fatto che fossi entrato a Petra senza biglietto, scavalcando di notte, probabilmente a loro non fregava nulla, ma anche su quello era meglio sorvolare. 
Per il resto potevo permettermi di essere sincero. 
Eppure, il fatto che l'interrogatorio si dilatasse all'infinito, il fatto che si palleggiassero i ruolo di poliziotto buono e cattivo, il fatto che mi rivolsero alcune domande quattro volte, che cercassero a ripetizione di farmi cadere in contraddizione o di innervosirmi, che vivisezionassero ogni mia risposta - commentandola tra di loro in ebraico - e ogni mio gesto, per capire se il mio body language tradisse le mie mancate verita', mi fece pensare che le soldatesse qualcosa sapessero o per lo meno intuissero. 
Mi portarono anche in una stanza, dove mi fecero spogliare completamente, affidandomi per qualche minuti ad un collega maschio che ispezio' il mio corpo. Poi, quando avevo almeno ricoperto le nudita', le soldatesse mi ripresero in consegna. Analizzarono nel dettaglio ogni componente del mio Invicta viola, dallo spazzolino ai cotton fiocs avanzati, e ricominciarono la pantomina, incuranti del fatto che dovessi imbarcarmi.
Mentre una annuiva, l'altra mi fulminava con lo sguardo. Dove sei stato, perche' la Siria e la Giordania, perche' Palmyra e Petra, dove hai dormito, come hai girato, chi hai frequentato, come ti sei pagato il viaggio. 
Il fatto che mi fossi sostentato scrivendo per tre anni per un'agenzia stampa, sembrava un altro indizio a mio carico. La punta di un iceberg che avrebbero voluto sciogliere per vederci chiaro. 
Non trovando la pistola fumante, dopo tre ore abbondanti di interrogatorio le due soldatesse israeliane mi lasciarono andare. Salii sul volo per Roma spossato nel corpo ma ritemprato in tutti gli altri aspetti, sulla falsariga di come mi sentivo prima, durante e dopo ogni viaggio. 
Piu' ricco, piu' carico. Una spugna che ha assorbito talmente tanto da non poter fare altro che restituire.
Nei mesi successivi diedi tutto quel che avevo sul lavoro finche' non ne ebbi abbastanza e lo lasciai esattamente quando la carriera stava decollando.
Anche grazie a quella mezzaluna in Medio Oriente avevo capito che qualsiasi strada avessi imboccato avrebbe dovuto contemplare la possibilita' di viaggiare. 
Anche a costo di lasciare la professione che avevo sempre amato.
 
àèéìòù

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