domenica 3 luglio 2022

The Billionaire

Baja Sardinia 2000, con un vecchio compagno di scuola nel frattempo diventato bravino a calcio 

Mollai l'agenzia stampa 9 mesi dopo il viaggio in Medio Oriente. Quando ero partito per Beirut avevo lasciato la Rotopress sull'orlo del fallimento. Forte del mio contrattino di collaborazione che prevedeva che venissi pagato - poco - per quattro giorni a settimana, avevo fatto lo zaino e avevo salutato, sapendo che al rientro l'azienda in procinto di rilevare l'agenzia stampa avrebbe analizzato una per una le posizioni di tutti i dipendenti. E che io sarei stato l'ultimo della lista. 

Il nuovo editore decise di assorbire la vecchia struttura, inizialmente appoggiandosi ai suoi uffici di via Emanuele Filiberto per poi gradualmente cambiare organigramma, nome e sede, trasferendo la redazione in uno splendido edificio di via del Plebiscito con vista su piazza Venezia.
Quando rientrai da Israele, i colleghi a tempo indeterminato mi dissero che avevano illustrato la mia situazione al nuovo proprietario e che potevo considerarmi a bordo della neonata creatura, battezzata Chilometri e inserita come punta di diamante nella galassia del un gruppo editoriale Vespina. Non solo sarei salito a bordo, ma avrei ottenuto una promozione e sarei stato impiegato a tempo pieno, sei giorni a settimana. 
Prima di ricominciare a trottare, mi regalai una coda d'estate, qualche giorno in Sicilia dove ritrovai i miei, Daniele e gli amici di sempre. 
La prima domenica di settembre ero abile e arruolabile. 
In mattinata avevo seguito una partita del campionato di Eccellenza che avevo raccontato tramite le frequenze di una radio locale e della quale avrei scritto per il Corriere dello Sport. 
A seguire mi aspettava un turno lungo in redazione, fino alla chiusura di mezzanotte. Essendo retribuito ancora il famoso poco, mi concessi il lusso di arrivare in ufficio dopo una sosta per il pranzo. 
Al citofono sentii un po' di freddezza. Entrando in redazione - invece - fui proprio travolto dal gelo. 
Provai a riscaldare l'aria con qualche aneddoto siriano, ma non sortii effetti. Anzi. 
Non lo sapevo, ma mi stavo dando la zappa sui piedi.
Il nuovo capo, Massimo Perrone, era stato scelto per le sue incredibili capacita' giornalistiche miste ad un cinismo e una durezza leggendari nell'ambiente. Professionalmente era un'enciclopedia dello sport, un computer, una macchina. Umanamente era il figlio illegittimo di un Goebbels autistico e di Gozer il Gozeriano. 
Per lui e per l'editore, Giorgio Dell'Arti, poi, noi transfughi Rotopress eravamo una manica di sciamannati, la cricca di ignavi che aveva contribuito ad affossare una storica agenzia stampa. Ai loro occhi andavamo addrizzati e instradati o - in alternativa - terminati. Sentendo puzza di bruciato, un paio di giornalisti piu' esperti di me cambiarono casacca.
Date quelle premesse, il fatto che mi fossi presentato sul lavoro ad inizio settembre, con cinque minuti di ritardo e che avessi anche il sorriso sul volto, faceva di me una specie di rasta da educare con le buone, ma soprattutto con le cattive.
E Massimo era specializzato nelle cattive.

I matrimoni dei colleghi erano le uniche occasioni in cui si usciva dalla redazione prima che facesse buio
Ogni mattina sulla nostra scrivania trovavamo il suo rapporto su quanto prodotto il giorno precedente. Massimo era specializzato in lettura rapida dei giornali, conclusa la quale incrociava quanto emerso su tutte le testate nazionali con quanto prodotto dal suo team, cioe' noi, e metteva tutto nero su bianco: i buchi clamorosi e gli eventuali scoop ripresi dai quotidiani meritavano uno spazio ad hoc in prima paginanel suo rapportino. In quelle successive si entrava nel dettaglio del lavoro di ognuno, dal quale venivano estrapolati e messi in bella evidenza le idee, la realizzazione delle stesse, i refusi e le tempistiche. Se eri arrivato un minuto prima dell'ANSA beccavi una pacca sulla spalla. Se il lancio dell'agenzia Chilometri era arrivato 10 secondi dopo e conteneva pure due refusi e un'inesattezza, potevi fare testamento. Oltre al rapporto quotidiano, che Massimo stampava in varie copie e che faceva trovare sulla tastiera di ognuno, c'era poi un atteggiamento intransigente e inflessibile. Nel mio caso condito con un surplus di cattiveria.
Roberto Maida, detto Topino. Figlio d'arte e collega a Chilometri
Per mesi Massimo mi tolse il sonno e la serenita', mi fece campare col fiato sul collo mettendo i puntini su qualsiasi i e non lasciandosi mai andare a mezzo complimento o rinoscimento, neanche quando i risultati erano dalla nostra. Una volta mi chiamo' a tarda sera del mio unico giorno libero per cazziarmi. A chi quel giorno mi avrebbe sostituito, non avevo spiegato come recuperare il programma del giorno seguente degli Europei under 16 di scherma in corso di svolgimento a Losanna. Il punto non e' che si trattasse solo di scherma, figuriamoci. Ne' che si trattasse di Europei. Ne' che fossero under 16. Ne' che non si parlasse dei risultati, ma del programma del giorno dopo. Il punto e' che a chi mi avrebbe sostituito non glielo avevo spiegato perche' semplicemente non c'era modo di saperlo. Neanche chiamando in Svizzera come facevo tutte le sere, quando a stento riuscivo a rimediare i risultati della giornata stessa. Probabilmente corretti. Tra l'altro con un'attendibilita' tale che i quotidiani si affidavano a nostri dispacci per ricavare quelle informazioni. Ma la macchia della mancata informazione circa il modo per reperire il programma del giorno seguente degli Europei under 16 di scherma diede a Massimo il destro per rovinarmi anche l'unica serata di corta.
L'ennesima torta a base di sterco che ingoiai nell'inverno tra il 1999 e il 2000.
Allo stesso tempo, Massimo fu un impareggiabile maestro di lavoro e di giornalismo e da lui imparai tantissimo, piu' di quanto avrei mai potuto all'Universita'. Allo stesso tempo dimostrai passione e abnegazione, mi feci un mazzo quadrato e non presi mai topiche clamorose. Anzi, contribuii spesso a far finire gli articoli di Chilometri sulle testate nazionali, dal Corriere della Sera alla Gazzetta dello Sport. 
Durante una serata alcolica coi colleghi (che lo fecero bere appositamente) Massimo si lascio' sfuggire che con me era stato particolarmente ingiusto. 
Non per questo mi chiese mai scusa e ne' cambio' mai impostazione, ma col tempo cambio' atteggiamento e fece parlare i fatti. 
A febbraio mi assegno' rubriche piu' prestigiose della scherma e del tiro con l'arco, cioe' il tennis e la pallavolo. A marzo mi affido' la responsabilita' di coordinare due team di giornalisti che si occupavano di motori, affermando che avrei io potuto insegnare molto a quei ragazzi, visto che ero un giornalista
Il che nel suo gergo era una via di mezzo tra il giuramento templare e una dichiarazione d'amore. A maggior ragione perche' quei colleghi masticavano una materia che io conoscevo a stento ed erano anche piu' grandi me.
Fu l'ultimo atto in qualita' di mio capo: da li' ad un mese infatti avrei lasciato Chilometri.
Il trattamento subito aveva influito, ma molto di piu' avevano influito altri fattori: lavoravo sei giorni a settimana, chiudendo la redazione il sabato e la domenica notte e aprendola il lunedi' mattina. Mi restava una giornata libera, spesso il martedi', quando piu' che fare vita sociale o studiare mi aggiravo per casa in stato vegetativo. 
Oltre agli amici, relegati nei ritagli di tempo, anche l'Universita' stagnava. 
I ritmi, poi, erano infernali: per assistere al matrimonio di mia sorella sul lago Maggiore, per poter godere di 72 ore di liberta' per andare e tornare da Sesto Calende, avevo dovuto lavorare 21 giorni consecutivi.
Aprile 2000, Cinciallegra si sposa
Quando gli comunicai la mia decisione, Massimo rilancio' e mi offri' un contratto da praticante: il jackpot dei giovani giornalisti, l'anticamera del professionismo con un compenso finalmente dignitoso. 
Ci pensai per qualche giorno. 
La prospettiva lavorativa faceva gola, lo stipendio anche, ma entrambi non lo erano abbastanza da decidere di stravolgere la gerarchia delle priorita'. 
E' vero che facevo quel che avevo sempre desiderato fare, cioe' sostentarmi col giornalismo, ma questo non implicava mai l'altro aspetto della vicenda che bambino avevo sempre associato al mestiere e per il quale avevo intrapreso quel percorso, cioe' il viaggio.
"Secondo te... continuando cosi', Chilometri mi mandera' mai agli Australian Open?", chiesi a Massimo dopo che per l'ennesima volta i giornali nazionali avevano pubblicato (senza firmarlo) un mio pezzo, una cronaca ragionata e romanzata di quanto stava avvenendo a Melbourne. Un resoconto che avevo redatto all'alba italiana, seduto ad una scrivania affacciata sull'Altare della Patria.
"Per quanto mi piacerebbe dirti di si', temo di doverti dire di no", confesso' Massimo col suo solito fare severo ma onesto. Ma stavolta con una puntina di umanita' che non avevo mai notato prima.
Festeggiando con le patatine del distributore l'ultima chiusura notturna
Quella fu la goccia.
Il paradosso non e' tanto che la vita mi avrebbe portato per vie estremamente traverse a seguire una qundicina di edizioni degli Australian Open, a volte come unico giornalista italofono a Melbourne. 
Il paradosso fu che chi mi sostitui' occupandosi di tennis per l'agenzia stampa Chilometri, fini' per essere inviato tutti gli anni a coprire tutti i tornei dello Slam in loco. Compresi, appunto, gli Australian Open.
Nel frattempo avevo deciso: praticantato o meno, me ne fregavo della prospettiva di diventare un giornalista professionista a 24 anni. Per quello c'era, eventualmente, tempo.
Volevo riprendermi un pezzo di vita sociale, finire l'Universita' e viaggiare.
"Se continuo a condurre questa vita non trovero' mai una ragazza", aggiunsi.
Cosi', nella seconda meta' del 2000 lasciai l'agenzia stampa che mi aveva svezzato e grazie alla quale ero diventato giornalista pubblicista, accettai alcune collaborazioni flessibili con un mensile, con un quotidiano e con un service editoriale, ripresi in mano i libri di Scienze della Comunicazione e soprattutto andai all'estero tre volte nel giro di 6 mesi. 
Prima pero', feci un salto in Sardegna. Sempre per lavoro.
Sotto certi aspetti dopo aver lasciato Chilometri fui piu' impegnato di prima: un ex collega Rotopress mi propose di collaborare con il quotidiano Leggo, per il quale cominciai a scrivere di costume e societa', un altro mi inseri' come redattore nel mensile Rosso&Giallo, un altro ancora mi chiese di scrivere testi per cataloghi pubblicitari, un altro ancora mi apri' il mondo della radio. Lo stesso Massimo, mosso da sensi di colpa, mi propose un ruolo di responsabilita' a Chilometri, una collaborazione esterna limitata alla domenica sera. 
E per il disturbo mi fece avere il triplo di quanto prendevo prima. 
Dissi di si' a tutti e parallelamente ripresi a frequentare La Sapienza. Ma soprattutto accettai l'offerta di un service nel quale tutto sembrava un po' campato in aria, ma dove il compenso era accettabile e l'impegno garantiva una certa liberta'. 
Una delle prime inizative nelle quali fui coinvolto fu il varo del sito internet di Francesco Totti.
Niente di piu' facile.
Checco ed io eravamo nati a 4 mesi esatti di distanza. Tra la casa della mia famiglia - a via Caulonia 15 - e quella della sua famiglia, a via Vetulonia 18 - c'erano 400 metri.
A sei anni ci eravano ritrovati nella scuola calcio della Fortitudo e nello stesso istituto elementare, la scuola Manzoni. Il cancello era di fronte al suo portone, per cui se arrivavo con qualche minuto di anticipo sulla campanella ci ritrovavamo a giocare insieme a calcio anche prima dell'inizio delle lezioni. Quando d'estate la Manzoni e la Fortitudo chiudevano, poi, ci incrociavamo a villa Scipioni. Oppure nella parrocchia di Santa Caterina da Siena, dove cominciammo a frequentare anche il catechismo.
Non eravamo amici, ma ci incrociavamo dappertutto. 
Al punto che quando in quinta elementare partorii il giornalino di classe, una delle prime interviste del primo numero fu a lui, a Francesco Totti.
Piu' che un'intervista fu un infiocchettare i suoi monosillabi, visto che Checco era piccolissimo e timidissimo e si esprimeva solo quando giocava a calcio, grazie a quella zazzera bionda e a quel controllo di palla fuori dal comune.
Fino alla cresima ci vedemmo beno o male tutti i giorni, poi le nostre strade si separarono: io feci le medie alla Confalonieri, lui alla Pascoli, il Bronx di Porta Metronia. Soprattutto, nonostante il campo della Fortitudo fosse a 100 metri da casa sua, mamma Fiorella e papa' Enzo decisero che lo avrebbero portato alla Smit Trastevere, da dove avrebbe spiccato il volo verso la Lodigiani prima e la Roma poi.
Quindi anche li' prendemmo strade diverse.   
Peccato, perche' quella dei nati nel '76 nel quartiere Appio Latino era una discreta nidiata, e la Fortitudo aveva allestito una buona squadra Esordienti. Conquistammo il torneo Giardinetti vincendo ai rigori la finale col Centocelle e fummo inseriti nel girone A, quello con le societa' piu' attrezzate della regione. La prima di campionato fu al campo Gioventu' Italiana di via Lusitania, dove venne a farci visita la Lazio.
C'erano Alessandro Nesta, Marco Di Vaio e un'altra manciata di ragazzi che nel '95 avrebbero vinto il campionato nazionale primavera e poi avrebbero giocato in Serie A, da Lucchini a Franceschini. Non li vedemmo mai e ci segnarono 4 gol. Al ritorno, sotto il diluvio, a casa loro ce ne fecero 8, la meta' dei quali su azione d'angolo perche' oltre ad essere di un altro pianeta avevano pure gli scarpini adatti al fango. 
Di Di Vaio vedemmo solo il retro della maglia numero 9, Nesta non si fece neanche la doccia.
Quel giorno realizzai due cose. 
Anzi, una la capii qualche anno piu' tardi; ero andato vicino al ruolo di comprimario nel primo Totti contro Nesta della storia. Ma 17 anni dopo mi sarei potuto comunque vantare di aver giocato a calcio con un paio di campioni del mondo. 
Un'altra cosa invece la capii subito.
Tornai a casa con la consapevolezza che il calcio non faceva per me. 
Ero cresciuto con alcuni ragazzini particolarmente dotati - oltre a Francesco, in quel biennio piazza Zama aveva dato i natali al cugino Angelo Marozzini e a Giancarlo Pantano, futura meteora in B con la Pistoiese e tutt'ora amico intimo di Checco - e alla prima partita da esordiente ero andato a sbattere contro quel popo' di talenti.
Non potevo sapere che ero incappato in una mezza dozzina di futuri professionisti, un paio di quali avrebbero fatto la storia del calcio italiano. Ma prima dell'adolescenza gia' ne avevo incrociati troppi per poter davvero pensare di avere chances di emergere.
Capii insomma che se volevo entrare gratis allo stadio, mi restava solo la carriera da giornalista.
Tra i 14 e i 20 anni avevo incrociato Francesco un po' di volte in giro per il quartiere. Una volta a piazza Zama, la mattina di un derby, mentre era su un Piaggio assieme a Pantano. Li riconobbi perche' non avevano il casco. Ogni volta, un saluto e niente piu'. Tornammo a vederci un po' piu' frequentemente quando cominciai a collaborare con la Rotopress. Nel giugno del '97 mi avevano incaricato di seguire il ritiro della nazionale di calcio in vista dei Giochi del Mediterraneo. Quella guidata da Marco Tardelli era una specie di Under 21 le cui stelle erano Totti e Buffon. La sera in cui il gruppo si raduno' nel centro sportivo della Borghesiana, ero li', nella hall. Leggermente in disparte, un po' per osservare il quadretto e un po' perche' ero l'ultimo arrivato, quindi non conoscevo neanche i colleghi giornalisti.
I calciatori arrivarono alla spicciolata - Fiore, Baronio, Lucarelli, Coco, Ventola - e la sala si riempi' all'inverosimile. L'ultimo a comparire fu proprio Totti, che si mise a salutare uno per uno i membri dello staff, i compagni e gli inservienti. Tra un benritrovato e l'altro il suo sguardo incrocio' il mio. Continuo' a stringere mani, lanciando di tanto in tanto un'occhiata verso il mio angolo. Si piego' per abbracciare il figlio di un massaggiatore, abbraccio' Buffon e poi mi fisso', da una parte all'altra della sala. Alzo' un braccio, lo punto nella mia direzione e poi sparo' a tutta voce.
"A DARIE', MA TE CHE STAI A FA QUA??"

La sala si giro' verso di me. Nei loro occhi il quesito di Totti era mutato: "E questo chi diamine e'?", pensarono. Troppo giovane per essere un giornalista abbastanza affermato da essere conosciuto dal neocapitano della Roma. Anagraficamente potevo essere uno dei convocati di Tardelli, ma chi? E perche' me ne stavo in disparte, con un taccuino in mano? Mi feci piccolo piccolo. Totti mi venne incontro, mi saluto' affettuosamente e mi tratto' da amico per tutto il ritiro. L'ultimo giorno, quando la Federcalcio concesse ai calciatori un turno di riposo e Checco fu raggiunto dalla famiglia, mi ripresento' anche mamma Fiorella, cercando di risvegliare in lei reminiscenze della scuola Manzoni, della Fortitudo, del catechismo alla Santa Caterina da Siena, della cresima, di villa Scipioni. Ma niente. 
Quella squadra domino' i XIII Giochi del Mediterraneo. Nella finale di Bari rifilo' 5 gol alla Turchia e Totti ne fece due.
Quella settimana non ebbe il potere di far rinascere un'amicizia che non c'era mai davvero stata, ma confermo' ad entrambi le sensazioni positive che avevano avuto sin da bambini. Abbastanza diversi da non avere punti in comune, ma sufficientemente simili da rispettarci a debita distanza. Sostanzialmente eravamo due buoni. Io piu' bravo a scuola, lui in tutto il resto. 
Cominciai a seguirlo sempre piu' con l'affetto dell'ex compagnuccio, mentre lui si rese disponibile nelle pochissime circostanze in cui cercai di far valere il nostro rapporto. Una volta lo chiamai in camera durante un ritiro pre-gara e registrammo un'intervista lunghissima mentre Gigi Di Biagio dormiva accanto a lui. 
Insomma, quando nel giugno del 2000 il service editoriale col quale cominciai a collaborare mi chiese di sovrintendere i contenuti del suo neonato sito pensai che non ci fosse nulla di piu' facile. Quando poi mi mando' un fine settimana in un resort a Baja Sardinia per presentare il portale francescototti.it ai vip in vacanza, mi domandai dove avessi sbagliato fino a quell'ora.
Quando mi presentai al Club Village Forte Cappellini, Totti fu persino contento di vedermi.
Tracorremmo insieme tre giorni. Oltre a noi c'era un altro collaboratore del service, la sua ragazza - Maria Mazza, una showgirl di Domenica In - e la di lei sorella. Nel resort della Costa Smeralda dove pero' al mare non andava nessuno, c'erano praticamente tutti quelli che comparivano almeno una volta in TV nel corso dell'anno, da Simona Ventura a Giampiero Galeazzi. Tutti quelli che mancavano, li vidi il sabato sera, quando Francesco mi chiese se avevo voglia di aggregarmi a loro, che erano invitati all'inaugurazione del Billionaire di Briatore e Naomi Campbell. Li' si' che c'erano davvero tutti. 
Entrai in quell'universo parallelo in punta dei piedi, letteralmente un passo dietro Francesco. Eppure mai prima (e mai dopo) di allora delle ragazze cosi' avvenenti mi avevano guardato con tanto interesse. Se ero li' - e per di piu' ero li' con Totti - potevo essere un calciatore. Oppure meglio ancora il figlio di un ministro o di un armatore. Comunque un ottimo partito. Io che esattamente un anno prima dormivo sul tetto di un edificio coi barboni di Amman e che pochi mesi dopo avrei condiviso il letto con un anziano cubano. Sorrisi.
Al nostro tavolo si sedettero prima Fisichella e Biaggi, poi Vieri e Inzaghi. Poi chiunque e chiunque. 
Quando verso l'una di notte inizio' la sfilata delle modelle a bordo piscina, tagliammo la corda. Prima di rientrare al resort, pero', ci fermammo a mangiare un cornetto caldo in una piazzetta di Porto Cervo e per un attimo riprendemmo il filo interrotto in quinta elementare. 
Provai a vedere se in quel giovane al quale la vita aveva regalato ogni bendiddio esisteva ancora qualcosa dello scrocchiazeppi col caschetto biondo, quello che controllava il pallone impazzito tra le radici e i pendii di villa Scipioni ma che non ti faceva pesare mai quel dono divino e che anzi preferiva regalarti un assist a porta vuota. Che tu ciccavi. 
Il bambino di via Vetulonia aveva messo ai suoi piedi prima Roma e poi l'Italia, eppure i suoi amici intimi erano ancora quelli di sempre, da Angelo a Giancarlo, e nel jet-set mi era sembrato sguazzarci meno di altri. 
Come se quella fosse stata la parte che il destino aveva designato per lui, ma senza che lui si sentisse completamente a suo agio nel nuovo ruolo. Avevo visto in lui meno voglia di mondanita', meno ansia di presenzialismo e in generale una tendenza meno accentuata a compiacersi e a compiacere. 
Mi era sembrato nuotare meno fluidamente di altri, in quel brodo. 
"Come vivi tutto questo?", gli chiesi.
Totti sospiro', diede un morso alla pasta e mi guardo'.
"Lo so che l'80% della gente che mi gira attorno lo fa per interesse. Ma non posso farci niente".  
Fino a due mesi prima era stato un mito all'interno del raccordo anulare e un ottimo giocatore, una grande promessa, al di fuori. Dove pero' era ancora e soprattutto il Pupone, un sottoprodotto dei pro e i contro di Roma. Ma il mese precedente la sua vita sportiva era cambiata. Fino agli Europei del 2000, con la Nazionale maggiore aveva giocato una dozzina di partite - di spezzoni di partite. Non era stato neanche convocato per il Mondiale del '98, quando pure aveva 22 anni. Aveva dovuto aspettare che Baggio e Zola si togliessero di torno per poter entrare stabilmente nel giro azzurro. A Belgio e Olanda 2000 era comunque arrivato come vice Del Piero, salvo poi essere schierato un po' a sorpresa da titolare alla prima con la Turchia e aver segnato il gol qualificazione contro il Belgio. Poi, dopo un turno di riposo contro la Svezia, si era ripreso il posto da titolare nei quarti con la Romania e aveva segnato ancora. In semifinale, si era accomodato in panchina ma entrato poco prima dei supplementari e si era reso protagonista dei rigori decisivi col cucchiaio, er cucchiaio, che era diventato subito il simbolo di quella splendida cavalcata e che aveva spalancato all'Italia le porte della finale.
Il 2 luglio a Rotterdam era stato il migliore in campo in una partita tra mostri - Maldini, Nesta e Cannavaro da una parte, Zidane, Henry, Trezeguet, Vieira, Thuram e Djorkaeff dall'altra - e se Del Piero non si fosse divorato il colpo del k.o. sarebbe diventato anche il simbolo del trionfo. Invece Totti si era dovuto accontentare di essere diventato l'icona di una squadra che aveva comunque fatto emozionare, di un'Italia della quale lui emergeva come leader tecnico, scalzando Del Piero nelle gerarchie. Piu' di ogni altra cosa, EURO 2000 gli aveva consentito di togliersi i panni stretti del Pupone di Porta Metronia per indossare quelli del capofila di un movimento calcistico ai vertici mondiali. 
Al Billionaire lo avevo avvertito chiaramente, ma ancora piu' emblematica fu la scena di cui fui testimone l'indomani, nel resort di Baja Sardinia.
Scherzando ma non troppo la sera prima gli avevo infatti detto che lo avrei accompagnato da Briatore a patto che il giorno dopo, prima della mia partenza, avremmo giocato a tennis.
Pertanto prima delle 9, con 5 di sonno in saccoccia, lo andai a buttare giu' dal letto.
Il villaggio dormiva, Totti pure.
Sotto la veranda del ristorante eravamo in quattro. Tutti a fare colazione seduti allo stesso tavolo: Francesco a capotavola, io alla sua destra. Di fronte a noi due creature del Maurizio Costanzo show: Randi Ingerman e Ramona Badescu.
"Che fine hai fatto ieri? Perche' non ti ho vista al Billionaire?", la modella e attrice americana resa celebre dallo spot della vodka prese la parola, rivolgendosi alla showgirl rumena che da li' a poco sarebbe diventata una soubrette del Bagaglino. 
"Sai...non dovrei dirtelo", replico' la Badescu - "ma ho firmato un contratto con una casa di moda e l'accordo prevede che in tutte le occasioni mondane io indossi i loro abiti. Ma quelli che mi hanno dato sono terribili, per cui piuttosto che rischiare di comparire con quella robaccia inguardabile ho preferito restarmene quial resort", rivelo' la Badescu. Prima di aggiungere: "Mica mi dirai che si e' notata la mia assenza...no?".
"Scherzi?", la rassicuro' la Ingerman, che aveva dormito poche ore e che si era alzata per seguire la sua fitness routine. "Ci siamo domandati dove fossi. Pensavamo che stessi male".
"Forse avrei dovuto addurre quella scusa" rispose la Badescu. La quale probabilmente non disse proprio addurre. "Ma con te mi sentivo di aprirmi, di dire la verita'".
"Oh cara", concluse la Ingerman. "Mi dispiace davvero tanto che non ti abbiano dato degli abiti adatti".
Seguirono 10 secondi di silenzio, durante i quali realizzai che avevo assistito ad un dialogo tra vip che si conoscevano anche senza conoscersi, che parlavano l'uno dell'altro anche senza essersi mai frequentati, le cui vite si intersecavano anche se non si erano mai incrociate. 
In epoca pre-social, con internet e la telefonia mobile ancora in fase embrionale o poco piu', era una prerogativa esclusiva dei personaggi pubblici, meglio se televisivi.
Categoria alla quale io non appartenevo, ma nella quale Francesco Totti non solo era entrato, ma dopo EURO 2000 occupava un posto d'onore.
Se Randi Ingerman aveva espresso empatia e supporto alla Badescu, il Capitano non aveva battuto ciglio. Ragion per cui la soubrette rumena senti' il bisogno di riempire quel vuoto con una postilla dalla quale si capisse che lei non era quella dei vestiti inguardabili offerti da una casa di moda per la quale lei evidentemente non era la prima della classe o che non trattava lei da prima della classe. Insomma, Totti ormai era qualcuno ed era cruciale che Ramona Badescu non facesse ai suoi occhi la figura della sfigata.
"Sai... Francesco... IN TUTTE LE INTERVISTE CHE CONCEDO, IO LO DICO SEMPRE CHE AMMIRO TANTO VOI CALCIATORI. PERCHE' NON SOLO DOVETE CORRERE...MA DOVETE ANCHE PENSARE AL PALLONE".
Risi tanto. Dentro di me, ma risi tantissimo.
Totti rimase imperturbabile. Continuo' a tenere lo sguardo e il mento bassi sulla ciotola nella quale stava risucchiando latte e cereali. Poi alzo' la testa e rispose.
"E perche'... tutti i VAFFANCULI che se pijamo?".
La Badescu sghignazzo' fortissimo. 
Io pensai che se quello alla mia sinistra si fosse chiamato anche solo Angelo Marozzini, la soubrette rumena avrebbe ruotato gli occhi al cielo e se ne sarebbe andata indignata. Sempre concesso che gli avesse rivolto la parola, visto in quei 20 minuti assieme non mi aveva neanche chiesto cosa facessi li'.   
Ero li' per giocare a tennis con un ex compagno di quartiere, uno che tecnicamente era piu' scarso di me ma che fisicamente era una bestia. E che per di piu' era animato dal sacro fuoco della competizione, quello che io avevo lasciato negli spogliatoi della Fortitudo. Sicuramente non volevo stravincere - non lo avevo mica trascinato sul campo da tennis per umiliarlo, ammesso che ne fossi capace. E non mi interessava neanche vincere. Ma non era neanche il caso che perdessi. Ne usci' fuori una partitella equilibrata, che fini' con un no contest. 
Francesco Totti era uno sportivo professionista. Uno che non accettava di farsi fare i tunnel neanche da Niccolo', il figlio duenne della Ventura e di Bettarini, a bordo piscina. Figuriamoci farsi battere a tennis da me. Pur di non uscire dal campo sconfitto, il Capitano dichiaro' finita la partita proprio quando mi apprestavo a servire per il match sul 6-4 5-3. Il telefono, che fino a quel momento Francesco aveva ignorato, squillo' per l'ennesima volta. 
"Devo proprio andare", disse Totti.
Poco male. 
Sara' anche quella predisposizione a portarlo, 11 mesi dopo, a vincere lo scudetto. 
Il service non ando' effettivamente da nessuna parte, ma nel giro di pochi mesi mi riuscii a regalare una gita in Slovacchia, un paio in Francia, un viaggetto in Nepal e soprattutto uno a Cuba. 

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