venerdì 1 luglio 2022

Il vecchio e il mare

Quello per Cuba era un charter organizzato da un tour operator. E non partiva da Fiumicino, ma da Malpensa. La notte precedente andai ad una festa di laurea nel comprensorio dell'Olgiata, la gated community di Roma, poi tre amici compagni d'universita' mi accompagnarono alla stazione Termini e all'1 di notte presi l'espresso per Milano centrale. Quindi proseguii in bus per l'aeroporto e mi imbarcai sul volo Eurofly con un biglietto staff gentilmente offerto da mia sorella che doveva ancora farsi perdonare quei 21 giorni filati di lavoro per presenziare al suo matrimonio. 
Cuba era una delle destinazioni servite dalla compagnia per la quale lavorava da un paio di anni e si era attivata in prima persona. Quando aveva emesso il tagliando, la collega della biglietteria si era accorta che ci sarebbe stata una forbice tra l'aeroporto di arrivo - il Juan Gualberto Gomez - e quello di ritorno, il Maximo Gomez. 
"Come fa tuo fratello ad andare da Varadero a Ciego de Avila?", le aveva chiesto, piu' allarmata che interessata.
Mia sorella aveva risposto che quello non sarebbe stato un problema.
Fuochino.
Il problema non sarebbero stati quei 400km, ma tutto quello che ci sarebbe stato tra il punto di arrivo e quello di partenza. Quei chilometri sarebbero intanto diventati piu' del doppio e mi avrebbero proposto situazioni grottesche: mi sarei ritrovato a mangiare e bere quel che capitava, a fare l'autostop in un Paese nel quale era altamente vietato e a dormire ovunque, anche questa pratica vietata. Ovunque e con chiunque. 
L'aereo atterro' a Matanzas verso il tramonto. I passeggeri del charter vennero caricati su pulmini diretti verso uno dei villaggi turistici di Varadero, distante mezz'ora scarsa. Rimasi solo, nel piazzale dell'aeroporto, scoprendo tardivamente che i mezzi di trasporto per l'Avana erano legati agli aerei in arrivo. Essendo finiti i voli di linea, erano finiti anche i collegamenti. Se non volevo passare la notte nel parcheggio dovevo attivarmi. Mi incamminai verso la via Blanca, l'unica autostrada di Cuba, e appena mi affacciai sulla striscia di asfalto, un furgoncino di una squadra di basket accosto'. 
"Sali" mi disse furtivamente l'uomo alla guida. A Cuba l'autostop era severamente vietato, rischiavamo entrambi una multa salata, se non peggio. Due ore dopo, senza avermi chiesto dove fossi diretto, l'uomo mi fece scendere sul lungomare della capitale. Ormai era tarda sera. Il Malecon era vuoto e inquietante. Senza anima viva in giro e blandamente illuminato, prendeva vita a intervalli regolari, quando un'onda fuori controllo sbatteva con forza contro il frangiflutti, s'impennava erigendo un muro d'acqua e poi si schiantava al centro della strada, bagnando l'ampio marciapiede ed entrambe le carreggiate, emettendo un urlo nel silenzio. In giro non c'era nessuno e io non sapevo dove andare. Se a Cuba erano le 10 di sera, poi, in Italia erano le 4 del mattino. Dalla festicciola all'Olgiata erano passate trenta ore e a quel punto ero bollito. 
Studiai la mappa. Uno degli hotel indicati in zona era l'Ambos Mundos, celebre perche' negli anni Trenta Ernest Hemingway ne era una assiduo frequentatore e perche' tra le sue mura aveva cominciato a comporre Per chi suona la campana. Hemingway all'epoca sborsava 1 dollaro e mezzo a notte, adesso per una stanza ne servivano 30 volte tanti. La mia disponibilita' era molto piu' vicina a quella di Hemingway che a quella degli avventori contemporanei, ma decisi comunque di incamminarmi in quella direzione con lo zaino in spalla e probabilmente un'ascella poco raccomandabile. Due isolati piu' in la' vidi le luci di un locale, nel quale una decina di persone giocavano a biliardo buttando un occhio verso un televisore che trasmetteva una partita di baseball giapponese. Fingendo interesse, mi accomodai su una poltrona in pelle, poggiando lo zaino a terra. Dopo un po' mi avvicinai al bancone e mi rivolsi al barista.
"Sai mica dove posso passare la notte?", gli chiesi.
Lui ci penso su e alzo' il telefono, poi mi richiamo' al bancone.
"Posso portarti a casa di mia madre - mi disse - ma devi aspettare che io finisca il turno".
Il turno fini' dopo il match di baseball, quando anche l'ultimo avventore aveva lasciato il locale. Il barista chiuse i conti, abbasso' la serranda e poi mi invito' a seguirlo sul retro. Sbucammo in una viuzza buia, e buia era anche la sua enorme autovettura, una delle novantamila Cadillac che circolano sull'isola. Ero sfatto di sonno, ma dovevo fingere di poter disporre delle mie facolta' per non sembrare troppo indifeso.
Di fatto, pero', me la facevo nelle mutande, anche perche' questa casa di mamma non arrivava mai.
E anche quando arrivo', sembro' il set di un film horror. 
Una massiccia e decadente magione d'epoca coloniale, con un portone enorme e un corridoio talmente alto e largo da sembrare quello di una caserma. Rudy accese le luci e alla sinistra comparve una ampia cucina, completamente sottosopra. Li' abitava la madre e li' avrei passato la notte. 
"Vado a dormire a casa mia, tu accomodati pure nella prima stanza a sinistra. Ho avvisato mamma che ti avrei portato qui, ma adesso e' andata a dormire. Domattina dille di chiamarmi", mi disse. 
Dopodiche' si congedo'.
La stanza era proporzionata e in linea con tutto il resto: quadrata, spaziosissima, con un letto a due piazze tra due sponde di legno nero. Un armadio a muro del secolo scorso e tre grandi specchi. Mi vidi riflesso. Le occhiaie erano talmente profonde che vidi un panda. Non avevo fatto in tempo a chiedere dove fosse il bagno, ma una volta dentro la stanza non avevo nessuna intenzione di uscirne per andare in avanscoperta. Mi feci un autoscatto, poi tolsi i pantaloni e mi accomodai sul letto, piombando immediatamente nel sonno.
DRIIIIN! DRIIIIN!
Qualche ora dopo ripresi coscienza, scosso dal trillo violento del classico telefono anni Cinquanta in bachelite: nero, con quadrante rotativo e una cornetta da tre etti, che rimbombava nel corridoio. Nessuno rispose. Tra le pesanti tende filtrava la prima luce dell'alba, dovevano essere le cinque di mattina. L'apparecchio riprese a tuonare con la stessa rabbiosa insistenza. 
"Chi e' chiama a quest'ora?", pensai. "E perche' la signora non risponde?". 
Come e' possibile che quello squillo greve - accentuato dall'eco del corridoio - abbia tirato giu' dal letto me che ero in coma, ma non svegli la madre del barista? 
DRIIIIN! DRIIIIN!
Il telefono suono' ancora, fece un terzo e un quarto giro. Nessuno rispose. Io col cavolo che uscii dalla stanza, e rimasi a lungo col dubbio che la vecchia esistesse davvero o che fosse ancora in vita. 
"Trascorrero' il resto della vita in un carcere cubano con l'accusa di aver ucciso nel sonno la signora", pensai.
Il dubbio evaporo' solo alle 8, quando cedetti al richiamo della vescica e uscii alla ricerca di un bagno trovando anche la signora. Era mediamente sopresa, ma sicuramente piu' riposata di me. Quel che non trovai fu del cibo, e visto che non mangiavo da 15 ore e che chiaramente quella casa non era un albergo, dovetti procurarmene altrove.

A Cuba vigevano due sistemi paralleli: quello per locali e quello per stranieri. In quello per locali le transazioni si pagavano in peso cubano; in quello per stranieri veniva accettato il dollaro americano o in alternativa il peso convertible, una valuta parallela introdotta dal governo dell'Avana, scambiata alla pari col dollaro USA ma spendibile solo sull'isola. I turisti avevano esclusivamente accesso ai dollari e ai pesos convertibles ritrovandosi a maneggiare i pesos cubanos del pueblo solo per comprare souvenir dai venditori ambulanti sulla spiaggia. Di base pero' la valuta utilizzata dagli stranieri era un insieme non coincidente con quello dei locali, come del resto le vite - che restavano ben distinte e separate. 
Gli stranieri potevano dormire solo in strutture attrezzate, ossia resort di proprieta' straniera, hotel cubani oppure le cosiddette casas particulares, le abitazioni private adibite a bed and breakfast, i cui proprietari erano dei rari esponenti della classe media dell'isola, considerati dei privilegiati perche' in grado di accedere ai dollari americani, ma non per questo esenti da responsabilita' e da pesanti imposte sui profitti. Anzi. Ottenere una licenza per ospitare gli stranieri nelle casas particulares significava sborsare una somma consistente al momento dell'ottenimento del permesso, poi un fisso annuale e infine una percentuale molto alta sui profitti, su ogni straniero ospitato della casa particular. Un modo per limitare l'offerta ma anche per disincentivare i trasgressori. Chi investiva per restaurare la propria casa e adibirla a bed and breakfast, sborsava parecchio per la licenza e sganciava al governo anche un fisso annuale, non avrebbe chiuso un occhio di fronte all'emergere del mercato nero, era piu' probabile che lo denunciasse. Anche per questo, a Cuba certe norme erano difficilmente aggirabili.       
Eppure, in un modo o nell'altro, a Cuba utilizzai solo pesos cubanos. E per tutta la prima settimana non dormii ne' in resort, ne' in hotel ne' in casas particulares. Dormii illegalmente tra le quattro mura di cubani conosciuti per caso e che mi ospitarono a titolo gratuito. Rimediai anche dei passaggi in auto - anche quelli fuorilegge per gli stessi motivi di cui sopra, per proteggere i tassisti. In pratica camminai sul filo dell'illegalita' e mi ritrovai a vivere un'esperienza sui generis sull'isola. Anzi sulle isole. 
Consumai il primo pasto in uno dei comedores improvvisati ed estemporanei che sorgevano all'Avana nelle case e nelle strutture nelle quali i propretari si ritrovavano con del cibo in eccesso, da smaltire. A quel punto accanto alla finestra del piano terra veniva appesa una pizarra, una lavagnetta, sulla quale i titolari - anche in quel caso con licenza - scrivevano il menu', un lista brevissima di quel che si poteva mettere in vendita. In genere il minimo indispensabile. Dopo aver dormito nella casa della mamma di Rudy, la mia colazione fu a base di due fette di pan con mantequillla, pane e burro, che spinsi giu' con del caffe' solubile versato in acqua discutibile.     
L'Avana mi tratto' cosi' per tre giorni. Feci base a casa della signora, coprendo ogni giorno a piedi i 10km che mi separavano dal centro e gettando uno sguardo superficiale ai luoghi frequentati dagli stranieri - dall'Ambos Mundos alla Bodeguita del Medio. Provando alla fine una specie di fastidio di fronte all'industria costruita attorno ai simboli di quel Paese. Il turismo ne sfruttava l'immagine esotica e alternativa a basso prezzo, fregandosene di difendere la dignita' e l'identita' cubana ma comunicando all'ospite quello che l'ospite voleva sentirsi dire, non la propria essenza. Non che l'ospite fosse aperto e interessato, anzi. Era un teatrino nel quale gli attori mettevano in scena esattamente quel che il pubblico voleva vedere e al termine del quale gli spettatori andavano via forti delle loro certezze confermate dai fatti e gli attori uscivano appena piu' ricchi ma in fondo piu' cinici e disincantati, probabilmente piu' distanti sia da se stessi che dai visitatori. Un meccanismo e un effetto collaterale tipico dell'industria turistica, soprattutto nei Paesi pittoreschi, con un'immagine consolidata all'estero, che non hanno la forza scio-economica di rinunciare a mettersi la maschera per compiacere chi arriva da fuori coi soldi.
Se quella e' una stortura comune a tutto il mondo, dopo alcuni giorni mi convinsi che la vera contraddizione di Cuba era altrove. La vera dicotomia, il Paese la viveva al suo interno. La societa' era spaccata orizzontalmente, in base all'anagrafe, sulla base dei principii-guida della gente. Da una parte le vecchie generazioni, contente di essere cresciute in un Paese diverso, nel quale istruzione e copertura medica erano garantiti a tutti e dove - secondo uno slogan - non c'erano bambini di strada e nessuno motiva di fame. I cubani maturi, almeno quelli che erano rimasti sull'isola e che non erano andati a cercare fortuna sul continente, erano fieri dell'opposizione ideologica agli Stati Uniti, ma ancor di piu' lo erano dei valori intrinsechi al loro popolo, quelli imposti dall'alto e che col tempo erano diventati parte integrante della cultura e della mentalita' imperante, e pur di difendere quell'unicita' orgogliosamente rivendicata erano disposti a pagare il prezzo dell'isolamento geopolitico e del mancato sviluppo.
 
Dall'altra parte i giovani, che di quelle medaglie al petto non sapevano cosa farsene. Che erano molto piu' simili ai giovani occidentali di quanto non fossero simili alla generazione dei loro genitori e dei loro nonni. E che anzi, essendo entrati in contatto con il mondo esterno e sentendo le ideologie di cui il loro Paese era simbolo sconfitte dalla Storia, avrebbero preferito sognare di mangiare ad una mensa imbandita con le stesse leccornie di cui disponevamo noi figli dei vincitori. Nel giro di una generazione l'ideologia e gli ideali rivoluzionari avevano fatto spazio a valori tipicamente capitalisti e realizzarsi, per i giovani cresciuti dopo la fine della Guerra Fredda, significava esaudire desideri tipici del neo-liberismo: comprare casa, acquistare una macchina e viaggiare, in quest'ordine.
Nelton era tendenzialmente giovane, anche se non di primissimo pelo.  
Mi si avvicino' sul traghetto per la Isla della Juventud. 
Dopo tre giorni all'Avana, avevo deciso che non mi sarei accontentato di vedere la periferia di quel Paese, ma che sarei voluto andare alla scoperta dei posti nei quali non si vedevano ne' gli stranieri ne' le trappole allestite per loro. Il turismo e' un potente motore di sviluppo dell'economia, ma e' anche una forza autodistruttirice. Porta infrastrutture, ma crea barriere. Porta investimenti, ma distorce il rapporto con gli ospiti. All'Avana mi ero sentito una persona con la quale la gente aveva voglia e interesse a relazionarsi solo finche' non mettevo piede nel centro. Una volta finito nella rete della rotta turistica, improvvisamente venivo visto e trattato come un oggetto del desidero, un pollo da spennare o un bancomat. Non sapevo piu' se chi mi si avvicinava lo faceva per conoscermi o per spillarmi qualcosa. 
Avevo percio' guardato la mappa e deciso di esplorare l'isola a sud dell'isola, un posto del quale anche la Lonely Planet faceva fatica ad individuare motivi di interesse. 
A me tanto interessavano le persone, non le cose. Cercavo un posto nel quale non si sarebbe ricreata la dinamica tra il turista che ha bisogno di un servizio e il locale che si prodiga per fornirlo. La' dove non si prevede che arrivino turisti, non solo mancano le infrastrutture, ma manca soprattutto il motivo scatenante che porta le citta' a predisporsi alla ricezione e l'atteggiamento che porta gli abitanti di un posto a vederti come un turista e a comportarsi di conseguenza.
Agli occhi di chi accoglie il viaggiatore occasione, lo straniero e' una persona preziosa perche' e' una novita' carica di storie e aneddoti, e da coccolare perche' potrebbe essere l'unico forestiero che gli abitanti di un posto al di fuori delle rotte turistiche vedranno per giorni, se non per settimane o mesi. 
Quindi i locali rappresentano per te che viaggi una scoperta tanto quanto tu rappresenti una scoperta per loro. In questo modo si crea un rapporto di un mutua attrazione, nel quale l'interesse e' prettamente umano. Ognuno ha la reponsabilita' e l'onore di raccontare all'altro un altro mondo, il proprio mondo. Spesso si crea la magia della scoperta e il fascino dell'ignoto e a questo si aggiunge la responsabilita', l'intensita' e in qualche caso l'emotivita'. Il viaggio crea legami forti.
Dall'Avana presi un bus per Surgidero di Batabano, un villaggetto di pescatori dove dovetti mostrare il passaporto per acquistare il biglietto del catamarano per Nueva Gerona, il capoluogo dell'isla de la Juventud. Ero assorto nella lettura di un saggio sulla diaspora cubana in Florida, quando Nelton si avvicino' e mi rivolse la parola. 
"Scusa se ti disturbo... perche' hai dovuto tirare fuori il passaporto? Sei straniero?", mi chiese. 
Alto, dinoccolato e impacciato, un naso adunco che gli induriva i tratti e che contrastava con lo sguardo timido. Aspirante scrittore, aveva pubblicato due racconti brevi, l'ultimo dei quali - El Viaje - aveva ottenuto due riconoscimenti e gli era valso un invito ad un seminario di artisti locali che si era a tenuto la settimana precedente a Varadero. A 29 anni, Nelton Perez Martinez s'era goduto il suo primo momento di gloria, coinciso con la prima vacanza della sua vita, e stava rientrando a casa inebriato.
Quell'esperienza aveva alimentato i suoi sogni, piccoli e grandi, ma gli anche aveva sbattuto in faccia l'ingiustizia di cui era fondamentalmente vittima. In base alla vita che gli era toccata, quel che per lui era l'eccezione per molti era la norma. Me compreso. Forse anche lui avrebbe potuto trasformarla nella norma, quella mia normalita', ma intanto gli occhi malinconici tradivano il profondo senso di ingiustizia e la ferita che si portava appresso da sempre. 
"Sei straniero?", mi chiese. 
Gli spiegai da dove venivo e gli dissi per sommi capi dove andavo. 
Non fui preciso perche' non lo sapevo neanche io, dove stavo andando. 
"Perche' non vieni a stare da me, stasera?", mi propose. 
Il problema non era tanto la densita' della popolazione nell'appartamento dei Perez Martinez, quello lo scoprii dopo. Il primo nodo da sciogliere era quello del porto di Nueva Gerona, dove c'erano agenti di polizia e dove difficilmente sarei passato inosservato, con il mio zaino in spalla. Sarebbe bastata la domanda "Dove vai a dormire stanotte?" per mettermi nei guai. Anzi metterci, visto che Nelton insisteva per ospitarmi a casa sua.
"Dari'o... quando hai tirato fuori il passaporto, io e gli altri passeggeri in coda dietro di te ci siamo domandati perche' dovessi mostrare un documento. Ti avevamo sentito parlare castigliano sull'autobus e pensavamo che fossi cubano".
Se lallero.
Il mio spagnolo era decente, dopo tre viaggi nella penisola iberica e uno in America centrale, ma il mio vocabolario era limitato, la mia faccia era tutt'altro che caraibica, il mio accento per niente latinoamericano e il mio Invicta non aveva nulla di cubano.          
"Facciamo cosi'... se ci fermano diciamo che sei un amico venuto a trovarmi dall'Argentina", propose Nelton.
Gia' meglio. Ma l'altro pericolo, ancora piu' subdolo, era quello rappresentato dai titolari di casas particulares di Nueva Gerona. Su quel traghetto ero l'unico straniero e verosimilmante anche l'unico turista. Su quell'unica potenziale fonte di guadagno si sarebbe potuta scatenare una rissa tra licaoni. 
Una bagarre che spacciarmi per el amigo de Buenos Aires difficilmente avrebbe sedato. E poi sarebbe bastato che qualcuno a bordo avesse fatto la spia per farci crocifiggere in sala mensa.     
L'aliscafo attracco' al porto a tarda sera. 
Seguii Nelton sforzandomi di far finta di camminare al suo fianco, come se conoscessi la strada, e di tenere la testa alta, ma evitando accuratamente di incrociare sguardi. Nel piazzale antistante al molo c'erano decine e decine di persone, ma vidi solo sagome. Svoltato l'angolo, tirai un sospiro. Nelton abitava alla periferia della cittadina costruita dai coloni americani nel 1830, in un edificio di quattro piani all'interno di un comprensorio modesto e malmesso, dipinto di celeste molti ma molti anni prima. Soprattutto, essendo un 29enne sognatore, non aveva il becco di un quattrino e viveva con tutta la famiglia - padre, madre, sorella e nonno - in un appartamento di 50 metri quadrati con un unico bagno spoglio, all'interno del quale c'erano un lavabo, una ritirata e uno specchietto appeso al muro con un chiodo. Tutta la casa, in realta', era spoglia. Gli unici oggetti non strettamente necessari erano degli animaletti di vetro. Non erano un vezzo ne' un hobby, ma il frutto del lavoro del padre, impiegato in una fabbrica che produceva quei piccoli soprammobili. Il padre era anche l'unico membro della famiglia, l'unico in quella casa, con un lavoro a tempo pieno.    
Quando arrivammo era tardi e la famiglia aveva gia' cenato. 
A noi, affamati, servirono quel che era rimasto: un piattone di uova e platanos fritti, annaffiato con dell'acqua di rubinetto di un bel beige opaco. Nelton non aveva avuto modo di avvisare i genitori dell'arrivo dell'amico argentino, ma fui comunque accolto con favore. 
"Meglio comunque non dare troppo nell'occhio", convennero tutti. 
Bastava che uno solo dei coinquilini dello stabile avesse un parente con la licenza per ospitare turisti e la mia presenza a sbafo a casa di Nelton avrebbe fatto scandalo.         
Finita la cena, vinsi le reticenze e mi sciacquai al bagno, dove invece della doccia c'era un cassettone pieno della stessa acqua appena bevuta e al quale si attingeva con un un secchiello. Feci comunque attenzione a sprecarne il meno possibile - tanto era freddissima - e poi mi unii al resto della famiglia, tutti e cinque allignati sul divanetto e ipnotizzati di fronte a una telenevola venezuelana. 
Rimasi poco, e con la stessa ritrosia dissi che avrei volentieri guadagnato il letto. Nelton mi mostro' la stanza nella quale avrei passato la notte: era piccola e disordinata, e le sponde dei due letti al suo interno quasi si toccavano. Mi sistemai in quello ad una piazza sotto la finestra e crollai. 
Poi pero' - durante la notte - una sensazione fastidiosa mi fece svegliare di soprassalto.       
Alle mie spalle, nel letto, sentii una presenza. Una sensazione confermata in rapida successione da quello che sembrava essere un piede, poi da quella che pareva proprio una gamba e infine da quello che certamente era un braccio. Mi rigirai. Ad un palmo dal mio naso c'era il nonno. Il nonno di Nelton. Risi al pensiero di quante volte mi avessero chiesto (nulla in confronto al numero di volte in cui me lo avrebbero chiesto in futuro) con quante donne avessi fatto sesso in viaggio. Zero era e zero sarebbe rimasto per i successivi 20 anni abbondanti. In compenso potevo dire di aver dormito e di aver condiviso un letto singolo con nonno Perez. Non una, ma due notti. Del resto quell'appartamento sarebbe stato piccolo per due persone - noi eravamo in sei, e casomai ero stato io a prendermi il letto del abuelo. Per fortuna, il nonno non russava e non si agitava nel sonno. E compatto e pacioso com'era era sempre meglio di Nelton, che si era tenuto il letto suo tutto per se'. Giustamente.  
L'indomani facemmo autostop per raggiungere playa Bibijagua, una spiaggia dalla quale si intravedevano degli isolotti e passeggiando lungo la quale Nelton mi racconto' della sua vacanza-premio a Varadero, di quanto quell'esperienza lo avesse segnato e di quanto fosse piu' convinto che mai di voler scrivere per vivere e vivere per scrivere. O qualcosa del genere.
Poi, prendendo un altro passaggio da un camion, facemmo tappa ai resti di una prigione. 
Di quel passo, prima o poi mi toccava. Tanto valeva farsi una cultura.
Il Presidio Modelo era un complesso carcerario anomalo, costruito tra il 1926 e il 1928 sotto Gerardo Machado, e che poteva ospitare migliaia di galeotti. Era costituito da cinque edifici circolari disposti come i cinque denari delle carte da gioco attorno ad un caseggiato centrale. Ognuna di queste costruzioni circolari aveva al suo interno centinaia di celle senza coni d'ombra, quasi completamente scoperte, e facilmente visibili e controllabili dalla torretta di avvistamento costruita all'interno di ogni struttura. In pratica il Presidio Modelo voleva portare all'estremo il concetto di progettazione panottica, in base alla quale un unico sorvegliante puo' osservare tutti i soggetti di un'istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se sono osservati o meno.
A chi, come me, non era esperto in materia, la soluzione sembrava geniale. In realta' quella prigione doveva la sua fama soprattutto al fatto di aver ospitato i sopravvissuti all'attacco alla caserma Moncada, l'operazione condotta da Fidel Castro il 26 luglio del 1953, quando il futuro lider maximo aveva cercato di rovesciare il regime di Fulgencio Batista. Fallendo nel suo intento. Castro era sopravvissuto fuggendo nella sierra, poi - una volta arrestato - sotto processo aveva dichiarato "La storia mi assolvera'". Dopodiche' era stato rinchiuso nel Presidio Modelo sull'isla de la Juventud, allora ancora conosciuta come Isola dei Pini. Fidel, suo fratello Raul Castro e gli altri reduci del fallito assalto alla caserma Moncada trascorsero due anni nella struttura, anche se non furono reclusi nelle celle circolari, dove fino a 6mila persone vegetavano in condizioni sanitarie e igieniche precarie, senza acqua corrente o sistemi di smaltimento dei rifiuti. I ribelli vennero invece detenuti nell'ospedale della prigione, da dove riuscirono ad organizzare la futura resistenza, mettendo a punto le idee del  Movimento 26/7 o 26 de julio. Due anni dopo, nel 1955, Castro e gli altri furono messi in liberta' grazie all'amnistia disposta dallo stesso Batista, si riorganizzarono sull'isola e diedero vita all'M-26-7, al quale aderirono Ernesto Che Guevara e Camilo Cienfuegos, che diventeranno due dei principali eroi e artefici della rivoluzione. Nel gennaio del 1959 il governo filo-americano di Batista verra' rovesciato e il Movimento imporra' a Cuba quella che il governo, a distanza di 40 anni, continuava a definire la rivoluzione permanente. Un ossimoro.  
La prigione, che a discapito del suo nome aveva piu' volte dimostrato la sua inadeguatezza e la sua permeabilita', venne abbandonata nel 1967 per poi diventare un museo. Che Nelton ed io visitammo da soli per poi ritrovarci a camminare sotto il sole, affamati e assetati, alla ricerca di un comedor. L'unico in cui ci imbattemmo, fu il chioschetto allestito e gestito da una signora alla quale nel primo pomeriggio era rimasta solo una una sbobba marrone. Un liquido emulsionato con vitamina E, troppo denso per dissetare ma talmente disgustoso da far passare la voglia di mangiare. Fu il mio unico pasto della giornata. Con lo stomaco sottosopra, poi, trovammo un passaggio sul cassone di un camioncino che ci riporto' a Nueva Gerona. Da li' nell'appartamento pieno di animaletti di vetro, con il bagno spoglio, il platano fritto, l'acqua beige, il divano sovraffolato e il letto da dividere col nonno.
Il giorno seguente salutai Nelton e la famiglia. Per il favore e per il disturbo diedi loro alcune banconote. La madre si illumino' e le consegno' alla figlia, chiedendole di investirle in una spesa piu' ricca del solito, per imbandire la tavola con qualcosa di piu' nutriente dei platani fritti. A Nelton - che mi chiese se potevo lasciargli la mia biancheria, compresi i calzini bucati, diedi invece un cadeaux piu' significativo, inaugurando una tradizione cui da allora sono affezionato e restando da quel momento in poi solo coi sandali. 
Nelton mi diede una copia dei suoi libricini, El Viaje e Desvarios Magicos, quelli grazie ai quali era stato invitato a Varadero e aveva messo il naso fuori dalla sua isoletta, quelli ai quali affidava le speranze per un futuro migliore di quello cui aveva potuto ambire in quasi 30 anni di vita. Poi mi diede il contatto di Jorge, un suo amico che mi avrebbe potuto ospitare a Cienfuegos. 
Sempre, ovviamente, illegalmente.    
Da Nueva Girona rifeci il giro a ritroso, passando per Surgidero de Batabano e per l'Avana prima di arrivare col tramonto a Cienfuegos, dove avrei trascorso un paio di giorni in compagnia di Jorgito. Il quale viveva da solo in un appartamento affacciato su un canale e che aveva anche un letto singolo da offrirmi.
Jorgito e io nel suo ufficio

Da Cienfuegos proseguii per Trinidad, forse la cittadina piu' bella di Cuba, dove mi concessi mezza giornata a Playa Ancon, mezza tra i campi da zucchero della valle de los Ingenios, una cena - una volta tanto - a base di crostacei, e persino due notti in una casa particular
Trinidad, con le sue costruzioni piene di carattere, mi piacque talmente tanto che commisi l'errore di rimanerci un giorno di troppo. Mi decisi a lasciarla solo la sera prima del volo da previsto da Ciego de Avila. Per rientrare della cena a base di crostacei dovetti risparmiare sull'ultima notte, facendola coincidere con l'ultimo trasferimento. 
L'autobus notturno, pero', si ruppe prima ancora di partire. E l'autista ci chiese si scendere, tanto era tardi per poter riparare il guasto o per sperare che arrivasse un mezzo sostitutivo. Cominciavo ad avere fretta e avevo bisogno di prendere in considerazione le alternative per lasciare Trinidad e avvicinarmi a Ciego de Avila. Dopo un paio d'ore era previsto un altro mezzo per Santa Clara, una cittadina che era nella direzione opposta rispetto a quella di Ciego de Avila, ma che aveva il vantaggio di essere una delle tappe obbligate lungo la A1, l'arteria principale che taglia l'isola dall'Avana a Santiago passando per Camaguey e Holguin. Raggiungere Santa Clara significava sicuramente trovare altri mezzi per raggiungere Ciego de Avila. 
Quando spunto' il mezzo che avrebbe dovuto collegare Trinidad a Santa Clara, strabuzzai gli occhi. Era la cosa piu' simile ad un carro bestiame nella quale avessi mai messo piede. Appena lo vidi capii che la notte sarebbe stata lunga e tempestosa, e come prima cosa cercai di svuotare la vescica. Trovai un locale nel quale centinaia di cubani ballavano ritmi che non avevano nulla a che vedere con quelli scimmiottati davanti ai turisti. Il bagno era stato sommerso sotto un palmo di liquami. Mi alleggerii senza rimettere, ma non fu facile.          
Il mezzo notturno per Santa Clara era un cassone di metallo senza finestre, simile a quello per il trasporto dei cavalli. Si entrava dal portellone sul retro, dopodiche' al suo interno ci si poteva sedere su sedie di legno che ricordavano quelle in dotazione nelle scuole elementari e che erano state sommariamente inchiodate al pavimento del cassone. Per cercare di aumentare la mia stabilita', mi misi lo zaino sulle ginocchia e cosi',cercando di riposare ma senza dormire, arrivai a Santa Clara alle prime luci dell'alba. La citta' era stata sede della battaglia che aveva deciso le sorti della rivoluzione nel 1958, quando Che Guevara e Camilo Cienfuegos avevano sabotato la linea ferroviaria con un bulldozer e avevano tagliato i rifornimenti alle truppe di Batista, accelerando cosi' la caduta del dittatore. Per questo le attrazioni principali della citta' erano proprio il monumento e il mausoleo di Che Guevara. Che pero' distavano piu' di 6km dal terminal dei bus. Dovetti rinunciare e salii su un mezzo che mi avrebbe portato a Sancti Spiritus, a meta' strada tra Santa Clara e Ciego de Avila.  
Era meglio di niente. Ma purtroppo a Sancti Spiritus scoprii che la collega di mia sorella non aveva avuto tutti i torti: a breve giro di posta non c'erano collegamenti per Ciego de Avila. Motivo per cui chiusi il cerchio cubano come lo avevo aperto. In maniera illegale, facendo autostop, affidandomi al buon cuore di un salvatore occasionale. Stavolta, l'uomo che mi carico' era molto piu' teso di me. Mi rivolse la parola solo per raccomandarmi di abbassare la testa sotto il cruscotto, perche' chiaro con quella faccia smunta avrei richiamato l'attenzione della polizia. Da Sancti Spiritus a Ciego de Avila sono 75km. Da Ciego de Avila all'aeroporto Maximo Gomez altri 35. E quelli si', sarebbe stato complicato coprirli senza un passaggio in auto. E quelli si' che li coprimmo con il cuore in gola. Io perche' temevo di perdere il volo, lui perche' temeva conseguenze ben piu gravi: la strada che collegava Ciego de Avila al suo vecchio scalo aeroportuale era piccola e poco frequentata e se ci fosse stata anche solo una pattuglia, le saremmo finiti in bocca con tutte le scarpe. Che io non avevo piu', vabbe'.   
Quando arrivammo all'ultimo bivio, ad 2km dall'aeroporto, l'uomo mi fece scendere. 
Proseguire in auto sarebbe stato troppo pericoloso per entrambi. Lo ringraziai con la stessa profonda riconoscenza con la quale avevo manifestato gratutidine a tutti quelli che mi avevano dato una mano senza un tornaconto, senza una ricompensa, senza un motivo. E che mi avevano aiutato, ospitato, trasportato, dato da mangiare e da dormire. Di fatto salvato, senza un vero perche' se non la loro generosità spontanea, una bontà d'animo che in qualche caso forse neanche loro sapevano di avere. Senza scomodare il karma o qualcuno ancora piu' in alto, a me sembrava che dietro tutta quella serie di coincidenze fortunate che avevano scandito gli incontri di quel viaggio non ci potessero esserci solo delle coincidenze. C'era un minimo comun denominatore in tutti quegli episodi, c'era una rapporto di causa-effetto o comunque una proporzione con il modo in cui mi mettevo in gioco e mi lasciavo andare alla corrente degli eventi. Come se esponendomi al rischio attirassi energie positive, trasmettessi un amore incondizionato - perche' solo quando si ama ci si lascia andare completamente - e venissi ricompensato dagli esseri umani e dalla vita. Magari facevo solo pena e basta, ma di certo non attiravo malintenzionati e già questo era sorprendente e in controtendenza rispetto all'andamento teoricamente naturale delle cose. Piu' mi gettavo nella fossa dei leoni e piu' quelli mi coccolavano. 
Gli uomini sono fondamentalmente buoni, pensai. Ma c'era di piu'. 
Oltre all'empatia con e verso l'esterno che la dimensione del viaggio in solitario contribuiva a creare, c'erano anche una questione fisiologica e una psicologica. Essere da soli significa esporsi ai rischi ed esporsi, ancor peggio, alla sensazione di essere costantemente in pericolo. Una condizione di stress che probabilmente bene non fa, alla lunga. Ci si guarda costantemente le spalle, si deve imparare a fare lo sguardo da duro per nascondere la paura e per evitare di sembrare troppo vulnerabiliTi porti appresso sempre tutte le cose preziose e passi un sacco di tempo a sfiorare la tasca esterna del pantalone per controllare che il passaporto e il portafogli siano sempre li'. Anni prima, dormendo in una camerata di in un ostello di Chicago, non sapendo dove metterli mi ero portato tutti i miei averi sotto la doccia. Anni dopo, dormendo a Cipro in un appartamento condiviso con ceffi poco raccomandabili, dormiro' col coltello sotto il cuscino. 
Basta un attimo di distrazone per trovarsi nei guai, ed e' vero.
Ma bisogna camminare sul filo della paranoia: evitare di sembrare troppo naif senza pero' arrivare a vedere fantasmi dappertutto. E' una vita da equilibristi, ma e' l'unica via possibile. A lungo andare, sviluppi un sesto senso che ti aiuta a fiutare le situazioni, a capire quale atteggiamento puoi e devi tenere, di chi ti puoi fidare e fino a che punto puoi farlo. Secondo la scienza, mettersi in situazioni impegnative scatena reazioni neurologiche e ormonali, cioe' aumenta la vigilanza, facendo di fatto addrizzare le antenne, e in questo modo modifica la stessa fisiologia del corpo. La respirazione accelerata mette a disposizione degli organi e dei tessuti una quantita' maggiore di glucosio, tutta energia necessaria per consentire all'organismo di far fronte alle aumentate richieste legate alla condizione di stress positivo. 
Cioe' quello non cronico ma figlio di fattori esterni circoscritti nel tempo e nello spazio.     
 Insomma, ero esausto dopo giorni in cui avevo spremuto gambe e neuroni e dopo la notte insonne sul carro bestiame. Ero svuotato dalla corsa contro il tempo per arrivare a Ciego de Avila, ma completai gli quegli ultimi metri che mi separavano dall'aeroporto saltellando. Portare la pellaccia a casa dopo un'avventura del genere creava euforia. Con le ultime banconote pagai una tassa per uscire dal Paese: quel viaggio mi era costato in tutto 300mila lire, poi - dopo il check in - uscii e in attesa dell'imbarco mi sdraiai sul prato davanti all'aeroporto Internazionale Maximo Gomez. Guardai il cielo e assaporai il frutto delle ultime due settimane. Era dolce. Una scalata, una maratona, un'immersione negli abissi. Quello era stato, sul piano fisico e emotivo. Ma poi c'era anche l'aspetto culturale, quello umano, quello creativo. Mi ero riappropriato del tempo per riempiere un foglio bianco, disegnando un percorso fisico e ideale. Poi l'avevo riempito di nomi, di volti, di odori, di colori e di storie. Quella dimensione vigile e creativa, in equilibrio tra stati di ansia e di paura, di gioia e di emozione, creava dipendenza e stava diventando la mia droga. 

 
Rimasi a Roma giusto due mesi. Il tempo di raggranellare un gruzzolettetto sufficiente e poi sarei partito per Kathmandu. Dove  lo stress positivo sarebbe arrivato sottoforma di un'insurrezione popolare che mi avrebbe preso di striscio, ma che avrebbe portato al massacro di tutta la famiglia reale. 
Quando i nepalesi accesero la miccia della rivolta e scoppiarono i tumulti, io ero li'. 
Ah, oggi - per la cronaca - Nelton Barbaro Perez Martinez e' un poeta, scrittore e narratore che ha ottenuto premi in Colombia, Messico e negli Stati Uniti. 


àèéìòù

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