sabato 16 luglio 2022

L'ultima crociata - part II

Daniele ed io all'assalto del Qasr Ibn Ma'an, il castello di Palmyra 
Allestiti in due capusole di cemento spartane e illuminate da luce una fioca, i due posti di frontiera di Aboudieh erano separati da poche centinaia di metri e dalle sponde del fiume al Kabir. Un corso d'acqua, citato da Flavio Giuseppe nel primo libro dei Maccabei, che gli antichi greci chiamavano Eleutherus, che un tempo faceva da spartiacque tra l'impero Tolemaico e quello Seleucide e che adesso segna il confine tra Libano e Siria. Ma che in quella sera del primo agosto1999 segno' piu' banalmente il momento nel quale la Dodge di Shamir inizio' a singhiozzare e sobbalzare in modo sinistro. Eravamo avvolti nel buio e stretti tra i canneti, ma quel poco che si vedeva nell'abitacolo mi fece capire che l'autista che ci aveva caricato a Tripoli con la promessa di portarci al Krak des Chevaliers stava smanettando col cambio e con la frizione, pestando l'acceleratore a vuoto per poi inserire marce basse. Cosi' facendo, la vecchia Dodge procedeva boccheggiando a strappi.

Negli ultimi 5 anni avevo passato piu' tempo al volante di un'auto che davanti alla TV, avevo guidato fino alla Slovenia e all'Andalusia, nell'A112 avevo fatto l'amore e una volta ci avevo anche dormito dopo un concerto. Insomma, quello era il mio habitat. "Ce sta a prova'" sentenziai. Dopo una pantomina di qualche minuto, la Dodge si sgionfio', Shamir mollo' un pugno sul cruscotto e scese imprecando in arabo. Avvolto nella kefiah emise il verdetto. "L'auto non va".  Era chiaro che stesse fingendo. Quel che non era chiaro era perche' avesse inscenato quel guasto, quali fossero le sue intenzioni e soprattutto come potessimo uscirne. Nel farlo, dovevamo ballare sul filo della determinazione e della condiscendeza, cercare di fargli insomma capire che non eravamo sprovveduti ma anche che non cercavamo lo scontro. Erano passate le 10 di sera, eravamo appiedati nella campagna siriana e quando c'eravamo fermati sul ciglio della strada, la Dodge era stata accerchiata da un nugolo di ombre. Tra quei figuri, potevano celarsi impiccioni, bricconi occasionali o loschi sodali dell'autista. Nel fazzoletto di territorio siriano appena oltre il confine libanese, la condiscendenza poteva passare facilmente per malleabilita', che verso mezzanotte poteva sapere tanto di vulnerabilita'.
Eravamo stanchi, frustrati e un po' allarmati, ma non era il caso ne' di sembrare impauriti ne' di tirare troppo la corda.

"Hai detto che ci porti a Qalat al Hosn e ci porti a Qalat al Hosn", insistemmo. Con un'intensita' inversamente proporzionale al numero di persone che si accalcavano attorno alla macchina quando ci fermavamo. Shamir ribadi' che non poteva farci nulla. E lo disse con la faccia da impunito e un pizzico di finta contrizione. Gli veniva facile, visto che un po' dispiaciuto lo era davvero. Era dispiaciuto di averci caricato a Tripoli per quattro denari, era dispiaciuto di non aver trovato altri passeggeri, forse era dispiaciuto di essersi giocato la serata e magari anche perche' quel giochino rischiava di fargli bruciare la frizione. "Non possiamo proseguire, ma vi assicuro che a destinazione vi ci porta un bus. E non dovete pagare altro", chioso'.

Nel frattempo avevamo raggiunto un'arteria piu' illuminata, il che ci consentiva di vedere i volti della dozzina di siriani che si accalcavano su di noi ogni volta che la Dodge tirava il fiato e noi ne uscivamo. Proprio in quell'istante si fermo' un minibus con a bordo una ventina di persone. "Questo va al Krak des Chevaliers", disse Shamir. Era il caso di tenere alta la guardia ma di abbassare toni e pretese. L'autista del furgoncino confermo', ci prese a bordo gratis e noi facemmo buon viso a cattivo gioco. Alla frontiera, il nostro guidatore aveva avuto uno scambio con un altro uomo. Col senno di poi, in quel momento aveva escogitato il piano per per sbolognarci sul primo bus di passaggio e proseguire per Tartus o tornare in Libano. L'unica possibilita' che gli restava per farlo senza restituirci i pochi soldi che gli avevamo dato era quella di inscenare un problema meccanico. Accettammo. E verso mezzanotte arrivammo ai piedi dell'aspra e imponente struttura che 8 secoli fa ospitava fino a 4mila crociati sulla strada verso la Terra Santa.

Questa in realtà è la cittadella di Aleppo, non il Crac des Chevaliers 

Il castello - inizialmente curdo - fu occupato dai cavalieri dell'ordine di S.Giovanni in Gerusalemme, da quelli di Rodi e di Malta nel 1099, durante la prima spedizione per liberare il Santo Sepolcro, e nei due secoli successivi fu fortificato divetando un avamposto imprescindibile in tutte le crociate. Cosi' facendo, vide alternarsi condottieri dai nomi che piu' medievali non si puo'. Tipo Baldovino e Goffredo di Buglione, Boemondo di Antiochia a Tancredi d'Altavilla. Accanto alla fortezza in tempi piu' recenti era sorta la cittadina di Hosn (il castello, appunto) nella quale c'era un'unica struttura ricettiva - l'hotel Baibar - ben oltre le nostre magre disponibilita' economiche. Non potendo permetterci una camera tripla e non essendoci dei dormitori, contrattammo uno spazio nel parcheggio antistante l'albergo per piazzare la tenda oltre all'uso del bagno pubblico nella hall. Eravamo partiti la mattina da Beirut e, passando per Baalbek, Bcharre', la valle di Kadisha, Tripoli e la disavventura con la Dodge di Shamir, eravamo arrivati a destinazione piuttosto provati, oltre che lerci. Tolta una patina di polvere prendemmo subito sonno. Nonostante la tenda fosse piantata su un basamento di cemento e nonostante avessimo dovuto mettere fuori i tre zaini, che' dentro c'entravamo giusto noi tre. 


L'indomani ripresi coscienza per primo. Era piena estate, e in quelle condizioni si cominciava a fare la sauna nelle prime ore dell'alba. Senza un materassino, poi, la schiena strillava. Misi la mano fuori e presi la prima bottiglia che trovai. Una Coca-Cola acquistata sulla strada fra Tripoli e la frontiera, quando c'eravamo liberati delle ultime lire libanesi. Il primo sorso ando' giu' spedito. Il secondo molto meno. Tra la lingua e i denti sentii un nugolo di pezzettini. 

"Qualcuno ha comprato i biscottini al cocco e poi li ha sputazzati nella bottiglia", pensai. 
Il terzo sorso era troppo pieno di corpi estranei per pensare che fossero davvero pezzettini di cocco finiti inavvertitamente prima nella bottiglia e poi nella mia bocca. Aprii gli occhi. Nel liquido marroncino galleggiavano centinaia di formiche moribonde, ma talmante dopate di zuccheri da agitarsi per aggrapparsi alla vita. Di notte avevano preso d'assalto gli zaini che avemo lasciato accanto alla tenda e avevano pure trovato il modo di praticare un suicidio di massa nella Coca Cola.
L'effetto del primo narghile' alla mela su Daniele

Il pasto successivo fu peggiore. Dopo aver visitato il castello dei crociati prendemmo un minibus per Homs e - in attesa di quello successivo per Aleppo - comprammo quel poco che offriva uno spaccio vicino alla fermata: nel mio caso una confezione di corned beef, un blocco salato di carne di manzo in scatola che probabilmente gia' faceva ribrezzo quando era stata infilata nella sua lattina giallastra, ma che aveva trascorso gli ultimi anni sullo scaffale di una drogheria nei pressi dell'Oronte, il fiume ribelle, e che aveva assorbito tanto di quel calore da aver assunto il sapore del pancreas di un dromedario. Ne mangiai due bocconi e cosi', quando la sera arrivammo ad Aleppo, ero praticamente a digiuno.
Di Aleppo amammo tutto.

La cittadella, il souq piu labirintico e profumato del Medio Oriente, il Kawkab hotel col vecchio fac-totum Ehlu, il bagno alla turca in pendenza e il letto singolo sul quale ci allungammo dopo aver diviso un materasso in Libano e una tenda sotto il castello dei crociati. Amammo la suggestione magnetica della basilica di San Simeone, lo scheletro delle mura erette attorno ai resti della colonna di 15 metri in cima alla quale 1600 anni fa un eremita figlio di pastori si ritiro' per pregare, scrivere e dispensare consigli tanto ai devoti quanto alla Chiesa. Visto che non riusciva ad isolarsi dal mondo, Simeone aveva deciso di fuggire in verticale, perciò trascorse 37 anni, fino alla sua morte, su un pilastro del quale oggi non rimane che una pietra ovoidale e una pellicola di Buñuel. Di Aleppo amammo le serate a base di inebrianti e innocenti narghile' alla frutta, di pane e hummus, di pasticcini al miele e te', di domino e di briscola in tre. E la storia che contribuiva a raccontare. 
Un'ora a nord-ovest di Aleppo si trovano le rovine della basilica di S.Simeone lo stilita  - Qal'at Sim'an - costruita attorno ai resti della colonna sulla quale visse l'eremita e che ora e' ridotta a poco piu' di una pietra perche' nel corso dei secoli i fedeli hanno sviluppato la tradizione di portarne via un pezzetto

Manufatto geopolitico del XX secolo, prodotto del divide et impera occidentale fra le due guerre mondiali, tappeto verde per i rilanci di Regno Unito e Francia nel gioco d’azzardo mediorientale, palcoscenico delle vite da film della regina Zenobia e di Lawrence d’Arabia, nei millenni la mezzaluna fertile a ovest del Tigri ha attirato civiltà che hanno lasciato testimonianze spettacolari della loro dominazione. Dagli hittiti agli egiziani, dai persiani ai bizantini, dagli ottomani ai mongoli. In Siria questo bendiddio si traduce nel triangolo tra Aleppo, Damasco e Palmyra. Cosi', dopo 48 ore ad Halab, prendemmo un bus per Hama e poi un altro per Tadmor, dove arrvammo mentre faceva buio, in tempo per sistemare la tenda tra le meravigliose rovine della sposa del deserto, la città dei datteri e – appunto - delle palme, quella che i romani non furono mai del tutto in grado di conquistare.
Nelle distese un tempo insanguinate dalla ferocia del Saladino, le estati sono segnate dalla lotta all’afa e agli insetti. Nel primo caso l’alleato si chiama chai, ed e' nella giornata successiva che scopriamo che il tè aromatizzato offerto da beduini e dai contadini ad ogni angolo e ad ogni oasi abbia effettivamente il suo perche'. Dopo aver girato da soli lo splendido sito archeologico, decidemmo di salire verso il castello arroccato scenograficamente in cima alla collina che fa da spettacolare sfondo a Palmyra. Il Qasr Ibn Ma'an e' un cartolina vivente e rappresenta un richiamo troppo forte. Peccato che ci fossero 40 gradi e che i liquidi scarseggiassero. 
Quando arrivammo in cima eravamo vicini al collasso.
Ci salvarono un pugno di ragazzetti locali, dei frangipanini che scesero e risalirono con l'acqua. "Quella non vi aiutera'. Provate questo, piuttosto", ci dissero poi degli anziani della zona, offrendoci il loro te' versato in bicchierini di vetro. Era talmente bollente che non riuscimmo a tenere i continitori in mano, ma effettivamente caldo com'era alzo' immediatamente la temperatura corporea e rese meno traumatico il contrasto fra la nostra epidermide e la calura del deserto. La saccarina fece il resto.
Palmyra vista dalla cima del castello
La sera stessa lasciamo Palmyra e costeggiammo il Badyiat ash sham, il deserto orientale, la distesa di sassi percorsa da carovane di pellegrini che dall'Asia Minore si dirigono verso La Mecca. Alla nostra sinistra non c'era traccia di esseri umani per centinaia di chilometri. Quando il bus si fermo' per una sosta tecnica, nella baracca nella quale mangiammo un boccone, cercando di schivare l'assalto delle mosche, compariva la scritta in arabo Benvenuti in Siria, anche se il confine iracheno distava 160km. Tanto per cambiare, arrivammo a Damasco col buio. 
Damasco, la moschea degli Omayyadi
Il fatto che non avessimo cellulari, che internet praticamente non esistesse e che l'unica fonte di informazioni fosse la guida Lonely Planet non aveva mai costituito un grosso problema fino a quando il primo alberghetto preso di mira era quello buono. Lo divenne, nel caso di Damasco, visto che nel quartiere nel quale ci sistemammo non c'erano alimentari aperti e avevamo finito l'acqua. Quella sera la disperazione mi porto' ad entrare nell'unica bottega illuminata in zona, quella di un macellaio, e a chiedergli di darmi gentilmente qualcosa, qualsiasi cosa. La bottiglia col suo qualsiasi cosa, conteneva un qualcosa di liquido vagamente giallognolo e limaccioso. Per poco non mi ci strozzai. 
Daniele, Antonio e l'abbiocco omayyade
Appunti per il diariodiviaggio con la t-shirt Rosolina Po 
Un tempo definita ‘la perla tempestata di diamanti’, per suoi i parchi e i suoi giardini, la città che contende ad altri centri del vicino oriente il titolo di abitato più antico del mondo nel 1999 era un agglomerato variegato, zeppo di parabole, che ospitava un terzo di tutti siriani piu' minoranze curde, cristiano-maronite, armene e circasse, e ancora centinaia di migliaia di profughi iracheni e persino genti che si esprimevano in aramaico, l’antica lingua della Bibbia. A Damasco si respirano la Bibbia e il Corano, ma i precedetti tramandati dallo stile di vita nomade si toccano con mano.
Primo fra tutti, l’accoglienza verso lo straniero. Non ci sorprese, insomma, che due figli di kashkash, gli allevatori di piccionici invitassero subito nel loro cortile per sorseggiare insieme te' alla menta e per far gorgogliare pipe piene di tabacco alla mela. Leggermente di piu', invece, ci sorprese 
il fatto che Hossein e il suo amico si tenessero la mano in pubblico. Un'abitudine forse figlia illegittima dei costumi sessuali della regione e dei rapporti umani e fisici inesistenti tra uomini e donne, ma che comunque col tempo scopriremo essere all'ordine del giorno, in Medio Oriente. E soprattutto non essere ne' un comportamento stigmatizzato in quanto sconveniente ne' considerato in se' indice di omosessualita'. Che pure esiste e viene rispettata piu' di quanto si possa immaginare. 
Il giorno seguente visitammo 
la moschea degli Omayyadi, il luogo sacro che custodisce la testa di Giovanni il Battista e nel quale – primo Papa della storia – Karol Wojtyla di lì a poco si toglierà le scarpe in segno di rispetto verso i fratelli musulmani. Dopo una gita a Maalula dettata in parte dalle indicazioni della guida e molto da quelli che diventano i nostri mantra (con Daniele ogni parola veniva  storpiata duventando un feticcio dotato di vita propria, da Scopation wagon a Topo-talkie, da Bcharre Qalat-al-Hosn, da Palmyra a Maalula - mentre Antonio nel frattempo era diventato Scapigliato, anzi ScapigliEto), tornammo a Damasco a bordo dell'ennesimo bus sul quale campeggiavano due foto: quella del presidente, il vecchio Hafez Assad, ormai quasi 70enne e leone piu' di nome che di fatto, e quella del figlio Bashar, la cui testa piccola in cima al collo lungo lo faceva sembrare un'oliva su uno stuzzicadenti, piu' che uno statista. 
Maalula, uno degli ultimi posti al mondo nei quali si parla l'aramaico occidentale
Il culto della personalita' dei leader nelle giovani nazioni mediorientali era un materia di studio, soprattutto in epoche i passaggio di potere e di consegne. Il fatto che Siria e Giordania stessero contemporaneamente per voltare pagina rendeva la questione ancor piu' delicata. Chiuso il capitolo Siria, era proprio in Giordania che eravamo diretti. Stavolta, per evitare sorprese ci mettemmo in marcia nel primo pomeriggio, ma le formalita' doganali alla frontiera andarono per le lunghe e arrivammo ad Amman solo quando il sole era già tramontato.

A differenza di Damasco, la capitale giordana non ha una pianta concentrica ed e' anzi costruita su varie colline e ogni quartiere sembra scrutare gli altri da lontano, con diffidenza. Il taxi collettivo ci scarico' dalle parti del Wadi Al Srour, uno dei sobborghi piu' centrali, dove oltre alla maggior parte delle attrazioni turistiche - il teatro romano e l'Odeon, la moschea e il palazzo Omayyade - secondo la guida ci sarebbero potute essere un paio di di stemazioni adatte a noi.
In realta' Talal street non aveva nulla per le nostre tasche. Il primo hotel nel quale entrammo era troppo caro, il secondo era pieno. Anche se forse avevano una soluzione alternativa. Un omino ci accompagno' per le scale fino all'ultimo piano dell'edificio. Li apri' una porta di metallo e ci illustro' l'alternativa
Sul tetto c'era una costruzione in lamiera, un cubo zincato all'interno del quale era stata ricavata una stanza. Il nostro arabo e l'inglese dell'omino non ci consenti' di capire se quello fosse un alloggio di servizio o una sala delle torture, ma l'informazione non avrebbe cambiato la sostanza
Nonostante fosse notte, sembrava di essere entrati in un forno. La cameretta non aveva finestre, non era stata aperta da una vita e aveva assorbito il calore asfissiante dell'estate mediorientale. Era rovente, non circolava un filo d'aria e in piu' puzzava da morire. Anche volendo chiudere un occhio sulle brandine, sarebbe stato impossibile passare la notte tra quelle quattro pareti di metallo incandescente e fetente. 
"E' quasi meglio dormire all'aperto", dicemmo.
All'aperto c'era il bivacco di alcuni barboni, che in quel momento si stavano preparando ad affrontare la notte. 
Il tetto confinava con la Grand Al Husseini mosque e alcuni gia' dormivano a pochi metri dal minareto. 
Ci guardammo. 
Piuttosto che rimetterci in marcia con gli zaini in spalla alla ricerca di una soluzione alternativa, decidemmo che per una notte ci saremmo potuto accontentare. 
(fine part - 2)

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