giovedì 26 agosto 2021

Orinoco flow

L’aria umida dell’alba è intrisa di cemento e carbone quando il señor Hugo ferma l’utilitaria ad un incrocio della periferia di Ciudad Guayana per farmi salire. Fra una chiatta e una foratura, prima di mezzogiorno mi racconta la sua vita. Ha fatto l’autista e la spia, s’è sposato due volte e per i suoi sei bambini ha scelto solo nomi italiani. Marinella, Silvana, Dino, Carlo Alberto, Marcello, Ornella. Neanche lui sa spiegarsi perché. Ora lavora nella laguna di Guri, la gigantesca figlia artificiale della diga eretta a 100km dal punto in cui il Caronì imbrunito dai sedimenti organici s’immette nel giallo paglierino dell’Orinoco. Il bacino alimenta la seconda centrale idroelettrica del mondo, una macchina programmata per produrre 10 milioni di kW/h, l’equivalente di 300mila barili di petrolio. Quando arriviamo a Tucupita, sul parabrezza brilla ancora la chiazza rossastra del volatile che ci si è schiantato contro. Saluto e mi guardo attorno. I manifesti dichiarano perentorii che el delta esta con Chavez. A 750 chilometri da Caracas, la propaganda non ha orecchie per il dissenso né il senso del pudore. Alla periferia dell’impero pare che il golpe di tre mesi fa sia stata un’architettura mediatica filo-occidentale e che la marcia di protesta della prossima settimana sarà un flop. Invece parteciperanno due milioni di persone, un rio de gente. Alle soglie della foresta amazzonica, le informazioni dal resto del mondo filtrano anestetizzate e confuse. Sembra tutto superfluo. L’euro è così fresco che nessuno si fida di quelle banconote vivaci, il dollaro è talmente forte sul bolivar che neanche le banche accettano i miei biglietti verdi. Dopo due notti ospite di una famiglia cilena di Puerto Ordaz, sono obbligato ad accettare il cambio in nero proposto da un tappezziere libanese. Ho bisogno di moneta locale per contrattare con un pescatore di nome José Gregorio. La sua imbarcazione è la tipica canoa ricavata da un tronco scavato. Per scivolare nel delta dell’Orinoco, la curiara – come la chiamano qui - è il miglior mezzo. Anzi, l’unico. Capelli ingrigiti e muscoli lucidati, Gregorio carica la barca con una tanica di gasolio, un secchio di manioca e uno di pesce secco, quindi fa salire la moglie - dal broncio proporziale ai tradimenti digeriti - e una giovane indigena. Il pescatore le bisbiglia che per lei lascerebbe la consorte. La ragazza abbassa lo sguardo. Esistono curiare da cinquanta posti, quella di Gregorio ne ha quattro. E l’ultimo è il mio. Il secondo fiume più lungo del Sudamerica zampilla dal massiccio della Guayana, descrive un arco ellissoidale cinque paralleli sopra l’equatore, sfiora l’Auyan Tepuy - la montagna del diavolo – da cui precipita per 979 metri il salto Angel, la cascata più alta della Terra, e alle porte di Barrancas si divide in 40 bracci principali. Quindi si espande per la superficie del Piemonte e dopo 2140km si insinua nell’oceano Atlantico per un fronte ampio 370. La tierra de gracia avvistata per primo da Colombo è un dedalo di isolotti rigogliosi formati dai sedimenti trasportati a valle in quantità così massicce che fra qualche secolo un istmo congiungerà Trinidad al continente sudamericano. Il clima del delta è tropicale, la temperatura media di 27° e l’umidità tanto elelvata che ogni anno piovono fino a 2 metri e mezzo d’acqua. Una quota non irrilevante la assorbo io, quel giorno. E’ qui che scondo Dafoe si arenò Robinson Crusoe. Ed è qui che Alonso de Ojeda, il primo esploratore a risalire l’Orinoco, nel 1499 decise di battezzare l’intera regione Veneciola, piccola Venezia. Da cui, appunto, Venezuela. Da allora, incuranti della scoperta dei giacimenti petroliferi e pressocché insensibili alle sirene del turismo, gli indigeni Warao – letteralmente ‘il popolo delle canoe’ – hanno continuato a vivere su palafitte circondate da ninfee e mangrovie e a trarre il loro sostentamento dal wirinoko, il ‘luogo dove si rema’. La leggenda vuole che siano gli eredi del progenitore universale, l’etnografia che siano migrati dal cuore della giungla, l’antropologia che siano organizzati in base ad una struttura sociale piramidale guidata da capi-villaggio, sciamani e sacerdoti, la cronaca che lottino quotidianamente con caimani e anaconde, rabbia e tubercolosi, piranhas e trafficanti di droga. Sono ventottomila, e pur vivendo in un ecosistema arricchito da più di mille specie di uccelli e nel quale le maree spingono fra i canali grandi quantità di pesce marino a beneficio di scimmie, rettili e toninas, i delfini d’acqua dolce, i Warao disdegnano la caccia. Gli adulti, che insegnano ai bambini prima a nuotare che a camminare, coltivano la palma moriche, una pianta selvatica da cui ricavano frutta, bevande, pane, legno e fibre per realizzare gli oggetti di vimini, i vestiti e le amache. Gli abitanti di un villaggio me ne offrono una per la notte, quando la temperatura del delta dell’Orinoco sprofonda, lo spazio si riempie di legioni di zanzare grosse come ragni e io, per un attimo, rimpiango il cemento. (tratto da Ulisse n.294 - Febbraio 2009)

martedì 17 agosto 2021

L'arbitro

(omaggio la neonata Rivista Romanista col mio contributo all'ultimo numero della sua progenitrice, Rosso&Giallo)

Lunedì 22 luglio 2002
La caccia a Byron Moreno comincia al di là del puente Rumichaca, la colata di cemento che collega la Colombia della guerriglia in vacanza alla Repubblica del dollaro imposto agli indigeni. Appena metto piede in Ecuador, cerco "el tipo que saco Italia del Mundial", come dice la signora sul bus per Ibarra, prima che l'aiuto-autista mi scarichi in mezzo alla strada perché non ho il biglietto. Qui lo conoscono bene, Moreno l'intoccabile: il Governo di Quito ha preso ufficialmente le sue difese contro le critiche italiane e ne ha fatto un simbolo dell'orgoglio del primo produttore mondiale di banane. Me lo dicono anche i poliziotti che esplorano ogni anfratto del mio zaino alla ricerca di polverine colombiane da esportazione. E che invece trovano solo mutande sporche.

Martedì 23 luglio
Il calzolaio di Ibarra e la fruttivendola di Otavalo confermano che il rigore per la Corea e l'espulsione di Totti erano sacrosanti, che Moreno è un ottimo arbitro oltre che una persona squisita e che è stata l'Italia a sbagliare l'approccio alla partita. Sarà. Ma in mezzo a tante certezze, non ce n'è uno che mi sappia dire dove viva. Così mi devo rivolgere alla federcalcio ecuadoregna, la FEF. Sull'elenco di Guayaquil compaiono due pagine di numeri col trappolone a monte: da quando è stato pubblicato il tomo, il prefisso è cambiato - da 04 a 042 - e senza la soffiata di un dipendente dell'ufficio postale di Ibarra potrei continuare a provare e riprovare per giorni senza ricevere risposta. In realtà basta perdere un'altra ora per capire che il problema non è neanche il prefisso. E' proprio il numero della sede della FEF ad essere sbagliato. Per scovare quello buono, mi rifugio nell'unica officina Andinatel di campagna, lungo la salita che porta a La Esperanza. Dalla FEF locale - Stato di Imbabura - una signorina mi detta il numero di Guayaquil, quello giusto. Chiamo una, due, tre volte. Niente. Il telefono potrebbe essere staccato o spento. Oppure semplicemente occupato. O forse inesistente. Non lo sanno nemmeno loro: in tutti i casi il segnale è lo stesso.
Mercoledì 24 luglio
Il mercatino di Otavalo è una meraviglia di colori, ma ho capito che se voglio trovare Byron Moreno devo andare a Quito. Ivan, un ventenne che trascorre metà della sua vita attiva alla reception dell'ostello Selva Alegre - 5 dollari al giorno per letto, doccia quasi sempre calda e vista sul Cotopaxi innevato - dice che l'arbitro vive a Quito, ma che adesso è a Guayaquil per ricevere un premio. Del resto è stato l'ecuadoregno che ai Mondiali ha fatto più strada e se lo merita. Ivan aggiunge che da quando è rientrato dall'Oriente, Moreno chiede 5000 mila dollari per rilasciare interviste. Scrivo al direttore: "Mi sono rimasti 73 dollari, ti puoi occupare del resto?".

Giovedì 25 luglio
Quito è forse la più bella fra le capitali sudamericane, ma dopo una giornata a passeggio per il centro sono costretto a tumularmi nell'Andinatel più vicina all'ostello. Che poi proprio vicina non è. E comunque il telefono della FEF di Guayaquil e di Quito continua a rispondere col solito tono sordo. Cambio strada. Sull'elenco di Quito figurano sei Byron Moreno. Quello che cambia è l'appellido - il cognome materno. Li annoto tutti. Garcés, Herrera e Sevillano rispondono gentilmente "esta equivocado", Luna è uno studio medico, Calvache e De la Torre squillano a vuoto. Cacchio. Dove andrebbe a parare lo scaltro reporter rampante in una situazione del genere? Boh. Probabilmente si aggrapperebbe al principio della solidarietà fra colleghi. Corro fuori e chiedo in prestito la prima copia di Ultimas Noticias che trovo in un negozio. Cinque minuti di attesa e poi... "Parla Santiago Estrella, redazione sportiva. Darìo Castaldo? ... sì, mi pare di aver già letto il tuo nome (sì, sì...). Segnati il cellulare di Mauricio Muñoz, addetto stampa della FEF a Guayaquil e chiamami quando vuoi". Seguro. Prima però chiamo Muñoz. "Buenas tardes - gli dico dopo aver atteso che uscisse dalle acque del Pacifico e prendesse il telefonino dalla mano della moglie - sono un giornalista italiano e sto cercando Byron Moreno". Moreno rientra a Quito domani sera, Muñoz promette di contattarlo e di chiedergli se è disposto ad incontrarmi. Domani mi farà sapere. Bene. Intanto salgo sull'ultimo bus per Baños e me ne vado con gli amici a sfidare pioggia e sterrati preamazzonici in mountain bike. E a scoprire che in Ecuador non ci sono solo Andinatel. Sul bus conosco due tizi: Jaime, che ha studiato in Italia e Francia, si dice appassionato di archeologia e sostiene che Rimini sia più bella di Roma, e il suo compare Fernando, sociologo, che appunta su un biglietto da visita il nome di un suo amico che potrebbe aiutarmi. 
Si chiama Juan Leo Reyes e fa il giornalista a Radio La Red.
Venerdi' 26 luglio
Lo scenario è magnifico ma la bici è difettosa, e il pranzo a base di banane fritte e mais tostato lascia una sete immonda che placo solo con un boccale di acqua torbida presa da un rubinetto di campagna. In compenso anche a Baños trascorro mezza giornata in un'officina Andinatel. Muñoz si fa un po' desiderare, poi al quarto tentativo conferma di aver contattato Moreno e passa la palla a Luis Castro, il suo braccio destro a Quito. Castro ha il cellulare costantemente staccato, ma alla fine mi perfora il timpano con la sua vociona rauca. Ribadisce che Moreno arbitra domenica il big match del campionato tra Nacional-Barcelona e che già domani sera potrebbe essere a mia disposizione. La conferma me la può dare solo domani nel tardo pomeriggio, ma siccome comincio a crederci, decido di mollare gli altri e di ripartire il giorno dopo di prima mattina per Quito, con la benedizione di Antonio, Daniele e Giancarlo e con la camicia blu del Bela, l'ultimo arrivato.

Sabato 27 luglio
Ivan mi accoglie raggiante. Intanto perché sono l'unico ospite del Selva Alegre, poi perché se sono tornato a Quito significa che posso intervistare Moreno e rimediare quella dedica che garantirà a lui un montòn di turisti e a me un piatto di ceviche offerto dal ristorante dell'ostello. Esco dal Selva Alegre mentre il sole tramonta e in un vicino comedor divoro il solito pollo con riso e patate. Il cellulare di Castro è sempre spento. Quando finalmente lo accende, mi dice che per oggi non si fa niente ma che domani - dopo la partita - Byron Moreno è disposto ad incontrarmi. Posso buttarmi nella lunga notte di Quito. Domenica 28 luglio
Arrivo allo stadio Atahualpa con un cerchio alla testa e con una tessera da pubblicista che per la perizia con cui viene controllata potrebbe essere anche quella dell'Atac. Nella cabina di Hoy la Radio va in onda una specie di Tutto il calcio minuto per minuto. Conduce Vicente Salgado, che annuncia la presenza in tribuna di "Darìo Cristaldo, periodista español". Ogni tre minuti lo interrompe tal Miguel, che arrota l'ugola per citare a manetta tutti gli sponsor della trasmissione, dalla catena di fast food "Mr. Pollo" alla Hyundai. E siccome due cartelloni della casa automobilistica coreana troneggiano pure a bordo campo, indago. 
Scoprendo che da quest'anno le auto in questione sponsorizzano buona parte dei club ecuadoregni, versando nelle casse di ognuno la bellezza di 40mila dollari. Che qui significa un quinto del monte-ingaggi dei club. Intanto arriva Castro, vecchia volpe del giornalismo locale con qualche vuoto di memoria. Mi devo ripresentare. Quindi scendo in tribuna: Moreno è al rientro dopo i Mondiali nippo-coreani, si becca l'ovazione dei 14mila presenti non fa danni e il primo tempo finisce 1-0 per gli ospiti di Guayaquil. 
Nell'intervallo vengo rimorchiato dall'inviata del giornale Hoy ai Mondiali. Martha Cordova mi corrompe con un panino e una coca e ascolta le mie perplessità su Fifa e arbitraggi. Poi scrive tutt'altro. Cioè, a meno che io non fossi ancora sotto l'effetto della vodka della sera precedente, 'Byron Moreno es el personaje mas popular de Italia' io non credo di averlo mai detto. Eppure lei ci apre il pezzo a tutta pagina. La chicca gliela fornisco comunque ad inizio ripresa, quando l'ala del Nacional si tuffa in area e l'arbitro nemmeno lo ammonisce. Scatto in piedi. "Perché non lo ha espulso come Totti?" chiedo in giro. Lei sghingnazza e prende appunti. 
Alla fine il Nacional pareggia e Castro mi conferma che alle 5 chiamerà in ostello per comunicarmi l'ora dell'appuntamento con Moreno. Poi mi mostra il probabile luogo dell'incontro: uno stanzione dello stadio che somiglia tanto ad una sala delle torture. "Darìo!". Appena ne esco, mi ferma l'ennesimo giornalista. "Sono Juan Leo Reyes - mi fa - dopo che vi siete incontrati sul bus per Baños il mio amico Fernando mi ha parlato di te e mi ha detto che oggi ti avrei trovato qui". Accipicchiolina come è piccolo il mondo. Grazie per la disponibilità - gli dico - ma per l'intervista ormai non dovrei più aver problemi.

Come torno nella cabina di Hoy la Radio, Salgado mi mette una cuffia in testa e un microfono in mano. E' uno dei pochi anti-moreniani in circolazione per cui con una mia testimonianza in diretta va in brodo di giuggiole. Tant'è che mi intervista in chiusura di trasmissione per un quarto d'ora, durante il quale si infervora per la scarsa tolleranza e per i metodi stupidamente duri di Moreno. Poi mi chiede il numero di cellulare e mi propone di intervenire dall'Italia come opinionista per un contenitore calcistico che comincerà ad autunno. Si', ma intanto accompagnami in ostello, ché mi hai fatto perdere un sacco di tempo. Salgado esegue, e salutandomi mi dà il suo numero. Non lo dice chiaramente, ma sull'affidabilità di Castro mi sembra scettico. Siamo in due. Infatti alle cinque non succede niente. Né alle cinque e dieci. Né alle cinque e un quarto. Dall'ostello non si posso chiamare i cellulari, non mi resta che correre all'Andinatel. Castro risponde e mi dà il numero di casa Moreno. Non ha interceduto. Figuriamoci. Mi dice di contattarlo personalmente ed eseguo. Ma Moreno non risponde. "Sta guardando il posticipo pomeridiano - mi rassicura Castro - chiamalo a fine partita".

E' il quinto minuto del secondo tempo, mi dice Pietro Marsetti - di padre italiano - che a 35 anni ha praticamente archiviato la carriera da calciatore professionista e si è messo a gestire un'officina telefonica Andinatel. Odia Byron Moreno, che pompando un referto gli ha fatto saltare quasi una stagione per squalifica, e possiede un televisorino col quale segue la partita, aggiornandomi sul conto alla rovescia. Quaranticinquesimo. Ore 18.15. Chiamo casa Moreno. Niente. Niente. Niente. Telefono a Castro. Risponde una voce di donna. "E' in riunione, può richiamare tra... 40 minuti?". Porca puttana, Castro s'è dato. Cazzo. Chiamo Salgado. Non puo' fare niente, ma mi consiglia di chiamare Roberto Machado, uno dei trenta giornalisti che in mattinata ho incrociato allo stadio. Bene, dopo però. Prima provo con Radio La Red. Cinque minuti di pubblicità al telefono, poi ottengo il numero di Juan Leo Reyes. Per fortuna è a casa. E ha il cellulare di Byron Moreno. 
Lo scrivo a caratteri cubitali. 
E digito. 
Dall'altro capo del filo una vocina pigola: "Ah, sì, buonasera, molto piacere - mi dice el tipo que saco l'Italia del Mundial -. Aspettavo una chiamata del signor Castro alle 5 (Anch'io...). Purtroppo ormai sono fuori città. Domani mattina mi devo sottoporre alle visite mediche, ma ci possiamo incontrare alle 16 nella sede dell'associazione arbitri. Due ore possono bastare per l'intervista?".

Lunedì 29 luglio
"Darìo, telefono". Alle 6 di mattina Ivan bussa alla mia porta. Stanotte in teoria ho il bus per Guayaquil, perché domani si vola alele Galapagos. E io sono sparito da tre giorni... saranno i miei amici che si chiedono che fine abbia fatto, penso. Macché. E' Radio La Red. Il prezzo da pagare per il cellulare di Moreno è un'intervista di venti minuti all'alba con Pablo Montenegro, prolisso e ingessato pro-moreniano che introduce ogni domanda scandendo: "Que pensa Darìo Castaldo, de la revista rosso i gallio - rojo y amarillo - ...". Darìo Castaldo pensa anzitutto che i muri di Quito chiacchierino un po' troppo, visto che Montenegro sa che alle 4 di pomeriggio incontro Moreno. Poi pensa che è meglio interpretare la parte del farlocco buonista, per evitare che Moreno ascolti e ci ripensi. Darìo pensa che la storia che l'Italia ce l'abbia con l'Ecuador è un'interpretazione volutamente vittimistica della vicenda, che in discussione non sono i limiti tecnici della nostra Nazionale ma gli errori e la malafede arbitrale. E che infine può rappresentare un pretesto per l'uditorio, ma siccome Darìo Castaldo de la revista rosso y gallio non è nessuno e sta esternando in calzoncini e maglietta dalla reception di un ostello da 5 dollari alla periferia ovest di Quito, interpretare il suo castigliano autodidatta come sentimento del popolo italiano rischia di craere un falso storico. 
"Hasta luego a todos los ecuatorianos". Chiudo. Quindi infilo per il terzo giorno di fila la camicia blu del Bela ed esco per accaparrarmi una copia di Hoy
Altro che citazione: Martha Cordova se n'è fregata della partita e ha incentrato su di me titolo, sommario e pezzo - dalla prima all'ultima riga - sulla partita di calcio più sentita del Paese e sul primo giornale del Paese. E in più ha storpiato completamente un grappolo di frasi. Giornalisti.


L'omelia di Byron Moreno Ruales inizia alle 16.30 in una stanzetta dell'associazione arbitri dello stato di Pichincha, un edificio gialloazzurro all'incrocio fra Avenida Universitaria e Avenida Bolivia. El justiciero parcheggia la sua Opel Corsa bianca e arriva accompagnato da Alison, la maggiore delle figlie, vestito con una polo bianca a strisce orizzontali verde-blù, dei mocassini lucidi e un paio di pantaloni verde pisello con l'orlo che lascia scoperti i calzini bianchi. Stringe mani ma non sorride a nessuno. Il mese di vacanze fra New Jersey e Miami e le abbuffate di hamburger gli hanno messo addosso altri due chili. Si siede ad un tavolo di vetro, tra quattro mura di un celestino sporco interrotto solo da una bacheca con alcune coppe. Sotto la finestra, un divano con le gambe rotte. Mentre gli squilla il cellulare, prende in mano una copia di Hoy, il giornale sul quale Martha Cordova confronta la caduta in area di un giocatore del Nacional di Quito - che ieri Moreno non ha neanche ammonito - con l'episodio che è costato il cartellino rosso a Totti. 
Chiusa la breve chiamata, Moreno spegne il telefonino e si mette in posizione. Mani giunte, dita incrociate, gomiti sul tavolo, palpebre abbassate come le saracinesche dei negozi alle otto meno dieci, sguardo torvo, occhi puntati di fronte a sé che attraversano l'interlocutore come fosse etereo e labbra semichiuse, che ad ogni accenno di risposta schioccano.


Le piace il soprannome di giusiziere? Gli chiedo.
(ci pensa su a lungo)... Direi di sì. L'arbitro è soprattutto un giudice.

Appunto. Il giudice applica in modo imparziale e possibilmente onesto i principi di una legge uguale per tutti. Il giustizere è l'esecutore violento di un insieme di norme e principi che spesso si è costruito da solo.
Beh, messa così no, non mi piace.

(Si vede che l'inizio non è stato di suo gradimento. Prende in mano la copia del giornale e contrattacca)
La critica non regge, sono due situazioni molto diverse. Ieri non ho visto bene l'azione - in area c'erano parecchi giocatori - così ho chiesto al mio assistente e lui ha indicato il corner. A Seul invece ho visto benissimo: Totti ha cominciato a tuffarsi prima del contatto col difensore coreano. A termini di regolamento, l'espulsione è ineccepibile.

In Corea era a 20 metri dal pallone eppure è scattato come se il dubbio non l'avesse neanche solleticato. Non avrebbe comunque dovuto chiedere il parere dell'assistente?
Ero a 15 metri e non ho chiesto l'opinione del guardalinee perché non avevo nessuno davanti ed ho visto perfettamente.

In un'intervista, Szekely (l'assistente ungherese dell'incontro ndr) ha ammesso che non si trattava di simulazione e che Totti non andava espulso. Ha aggiunto che ha provato a richiamare la sua attenzione con il beep.
Mi stupisce che Ferenc abbia detto cose del genere. La macchinetta ha funzionato benissimo durante tutta la partita. E comunque dopo il match abbiamo rivisto il vhs fino alle 3 di notte e ci siamo trovati d'accordo su tutti gli episodi. Anche il nostro supervisore ci ha fatto i complimenti per la gestione dell'incontro.

Per curiosità, chi era?
Garcia Aranda.


(Non è il caso di fargli sapere che il personaggio in questione è lo stesso arbitro che nel 2000 trasformò il rigore di Liverpool in un calcio d'angolo).
E rivedendo l'azione che ha portato al cartellino rosso non ha avuto dubbi?
Nessuno. Il giocatore comincia a lasciarsi cadere prima dell'intervento del difensore e secondo regolamento va ammonito. La Fifa sta portando avanti una campagna radicale contro la simulazione. Di Livio ha giurato sui suoi figli che era rigore ma io sono stato irremovibile. E la conferma che avevo ragione me l'ha data indirettamente proprio Totti, che ha accettato la decisione senza replicare. Se avessi sbagliato, lui avrebbe protestato faccia a faccia. Qualsiasi calciatore reagisce, se subisce un'ingiustizia.

Non le è sembrato piuttosto allibito e frustrato?
In campo si ha sempre una percezione diversa di quel che accade. Io ho avvertito chiaramente che Totti volesse buttarsi. Dico di più: la gomitata che gli è costata il primo cartellino giallo poteva essere da espulsione, ma siccome ho avuto la netta sensazione che le sue intenzioni non fossero quelle di far male all'avversario, mi sono limitato al cartellino giallo.

Cosa sapeva di Totti prima del match?
Quasi nulla. Mi avevano detto che era la stella dell'Italia, ma degli Azzurri conoscevo solo Maldini, Vieri e Del Piero. Non lo avevo mai visto giocare, non guardo molto il calcio.

Quindi nessun pregiudizio?
Non sarebbe etico.

Le sue uniche parole prima di partire per le vacanze sono state 'ho la coscienza pulita'. Perché non ha sbagliato o perché se ha commesso errori lo ha fatto in buona fede?
Solo i morti non sbagliano. A posteriori mi sono accorto che nel secondo tempo avrei potuto ammonire un coreano per un fallo, mi pare su Zanetti.

E il fuorigioco di Tommasi?
Le nuove direttive Fifa tendono a dare maggiori responsabilità ai guardalinee. Ho fermato il gioco perché il mio assistente mi ha segnalato l'off side.

Che non c'era... Ma parliamo dell'atteggiamento: all'Italia intera il suo ha dato fastidio.
L'arbitro non è tenuto a parlare con i giocatori, deve solo interagire col capitano.

L'arbitro è anche tenuto a garantire il buon andamento di un incontro. Non ha sentito che il clima particolarmente teso richiedeva un atteggiamento diverso?
La partita era tranquilla. Gli italiani non mi sembravano più nervosi dei coreani, e se lo erano può darsi che sentissero solo la pressione di dover vincere a tutti i costi.

Oppure che la direzione della partita lasciava spazio a timori.
Quando ho visto che parlando con i giocatori le cose miglioravano, ho provato a dialogare con Vieri e Del Piero. A proposito... gran giocatore: intelligente, tranquillo e sempre lucido con il pallone tra i piedi. L'Italia ha perso perché è uscito lui.

Grazie per la disamina. La designazione di Collina per Giappone-Turchia serviva a tranquillizzare i turchi. A Seul, invece, prima quell' 'Again 1966', poi l'ammonizione di Coco e il rigore per la Corea nel giro di 5 minuti: l'impressione è che gli italiani avessero validi motivi per non sentirsi sufficientemente tutelati.
Il rigore c'era, e se il fallo di Coco lo avesse commesso un coreano l'avrei ammonito ugualmente. Dico di più: se il colpo di testa di Vieri non fosse entrato, avrei fischiato rigore per l'Italia, visto che era stato trattenuto.

Cosa ha pensato prima della partita?
Che era importante come tutte le altre.

Era teso?
Para nada. Prima del Mondiale ho arbitrato qui a Quito l'amichevole fra Ecuador e Brasile e al 90' ho annullato il gol del 2-2 agli ecuadoregni. La gente e i giornali locali mi hanno dato addosso perché quella decisione aveva negato al Paese un giorno di festa. Ma io vado per la mia strada: l'unica cosa che conta è il mio onore e l'onore dei miei figli.

Perché dopo quella partita è tornato a casa? Una bocciatura della Fifa?
No, già lo sapevo. Al mio primo Mondiale non avevo le credenziali del colombiano Oscar Ruiz e del brasiliano Carlos Simon, i miei colleghi sudamericani.

Assumendo la buona fede e limitandoci ai fatti, non ritiene che il livello degli arbitraggi al Mondiale sia stato scadente?
No, penso che la quantità di telecamere a disposizione abbia reso più evidenti gli errori commessi, che sono stati nella media.

E alle critiche per il sistema di selezione dei fischietti, come risponde?
Posso rispondere per me. Mi sono preparato al Mondiale con uno psicologo, un fisioterapista e un dietologo pagati di tasca mia. Posso dire che non ero nervoso, che mi ero preparato con tecniche di rilassamento e di respirazione, che ero tanto concentrato da non sentire neanche le grida del pubblico. Che ero al massimo delle mie potenzialità.

Il che non è garanzia di qualità. Ma comunque... non pensa che la capacità di essere più forti delle pressioni si acquisti solo con l'esperienza internazionale nel calcio che conta?
Sì, ma chi dice che nella Copa Libertadores ci siano meno pressioni che in Europa? Cinque anni fa, in pieno conflitto fra Ecuador e Perù, fui scelto per arbitrare un incontro tra il Cruzeiro e una squadra di Lima. Altro che tensioni!

Cosa mi dice di Spagna-Corea?
Che i coreani si erano spremuti contro l'Italia e correvano la metà.

E dei due gol annullati alla Spagna?
Errori umani, non potrei pensarla diversamente. L'arbitro Ghandour viene continuamente preso ad esempio nelle riunioni Fifa per la sua bravura, e il guardalinee aveva due Mondiali alle spalle.

Che coincidenza: la Hyundai sponsorizza il Mondiale e la Corea, che fino a ieri non aveva mai vinto una partita in una Coppa del Mondo, arriva in semifinale, lasciando Portogallo, Italia e Spagna con la certezza di aver subito dei torti. A voler pensare male si potrebbe azzeccare senza far peccato.
Ogni evento sportivo ha bisogno di sponsor. Non si può dubitare del risultato di una manifestazione partendo dalla nazionalità di chi la finanzia. E poi se fosse così determinante, gli Usa avrebbero dovuto vincere nel '94 grazie alla Coca Cola.

A differenza del suo omologo coreano però il presidente della Coca Cola non è anche il presidente della federcalcio Usa e un esponente di spicco della Fifa.
Quello che posso dire è che nessuno ha mai provato a corrompermi e soprattutto che nessuno può dubitare della mia onestà. Non c'è denaro al mondo che possa comprare la coscienza di un arbitro.

Cosa regala la Fifa agli arbitri designati per i Mondiali?
Praticamente niente. Un portapenne e il pallone ufficiale, oltre alla divisa di gara.

E il compenso economico?
Ad ogni partita corrisponde un rimborso da 22.500 dollari per ogni arbitro e 17.500 per ogni assistente. Più 200 dollari di diaria per ogni giorno trascorso in Corea e Giappone.

Ecco, il punto è questo. Una cifra del genere rappresenta un vitalizio per chi vive in un Paese come l'Ecuador, nel quale gli stipendi medi raggiungono a stento i 200 dollari al mese. Con una somma del genere in ballo non c'è bisogno di corrompere nessun arbitro. Ogni direttore di gara sa che se sbaglia contro chi conta, rischia di compromettere il Mondiale successivo e la pensione integrativa. E ai Mondiali, Corea e Hyundai contavano.
Continuo a pensare che gli arbitraggi siano onesti e che la Fifa si impegni a garantire la regolarità dei suoi tornei. Inizialmente ero alloggiato nello stesso hotel degli italiani, il Riviera. In una circostanza ho anche incrociato Vieri. Poi mi hanno fatto spostare in un altro albergo. E prima della partita, l'unico dirigente con cui ho scambiato due chiacchiere è stato Carraro.

Può negare che anche solo a livello inconscio possano aver influito l'ambiente e i rapporti di forza?
Nel calcio ci sono gli errori, ma non c'è la mafia. Credo ciecamente nell'onestà e nell'integrità morale degli arbitri e il mio obiettivo nella vita è consegnare ai miei figli un cognome di cui andare fieri. Le accuse di corruzione sono assurde e la delegazione italiana ha commesso un grave errore quando ha insinuato che ho ricevuto dei soldi e un'auto da quella coreana. La mia unica auto è quella parcheggiata qui fuori.

Il cancro sta a monte. Da noi gli arbitri ricevono settimanalmente telefonate da parte di dirigenti - federali e non - e abbiamo anche imparato che per indirizzare un torneo non c'è bisogno di corrompere un arbitro. Si chiama sudditanza psicologica. L'equilibrio del sistema si regge su ricatti morali e sottintesi. In questo caso, 'se non fai bene il tuo dovere, il prossimo Mondiale te lo scordi'. Il gioco è sottile ma semplice, soprattutto quando sul piano economico una Coppa del Mondo ti cambia la vita e quando chi non deve essere danneggiato ha nome, cognome e nazionalità ben noti.
Non posso parlare di cose che non conosco. La storia delle telefonate mi suona nuova, visto che in tutta la Coppa del Mondo non ho ricevuto chiamate dai dirigenti della Fifa né ho avuto contatti con alcun esponente della federazione coreana.

Non trova strana la coincidenza che da quest'anno proprio la Hyundai sia diventato sponsor di molte squadre del campionato ecuadoregno?
E io che c'entro?

Non lo so. Ma sembra un favore in cambio di un favore.
Non credo che si debba pensar male.

Mi dica almeno cosa pensa del fatto che il numero uno dell'azienda che fa da mainsponsor del Mondiale sia anche il presidente della federcalcio del Paese ospitante.
Come arbitro non posso.

E come uomo?
(lunga pausa)... Non voglio.

Ha interrotto gli studi di Giurisprudenza per dedicarsi alla carriera arbitrale. Sa già cosa farà da grande, signor Moreno?
No. Mi piace vivere alla giornata, non pianificare. Arbitrerò finché potrò. Almeno altri 10 anni.

Che Dio ce la mandi buona.
P.s. Quella sera consegnerò ad Ivan l'autografo di Moreno, mentre lui - dimentico del giorno di chiusura del ristorante - mi lascerà senza ceviche e senza cena. Quella sera, il digiuno e lo stress accumulato mi faranno venire un capogiro prima in tram e poi nel cesso della stazione. Quella notte, mi passerà in bus grazie ad un'infermiera ecuatoriana diretta a Guayaquil. L'indomani, stramazzerò comunque sui sedili dell'aeroporto e non mi riprenderò prima dell'atterraggio alle Galapagos. Nei giorni seguenti, rinuncerò a vendere il servizio tenendolo in caldo per Rosso&Giallo, scenderò veloce versoMachu Picchu e il Titicaca, poi risalirò in un sol colpo da La Paz a Lima per anticipare di qualche giorno il ritorno a Roma. Quindi, 48 ore prima dell'uscita in edicola, quando la rivista sarà già andata in stampa, il Corriere della Sera pubblicherà la 'prima intervista' a Byron Moreno dopo il Mondiale nippo-coreano. Rosso&giallo chiuderà. E io mi attaccherò al piffero.

P.p.s. Pochi mesi dopo l'intervista, Byron Moreno è stato radiato dall'associazione degli arbitri di Pichincha.