i anni fa, 80 giorni di bombardamenti della Nato sventravano il quartier generale delle forze armate di Milosevic e scavavano cicatrici sulla pelle dei serbi; oggi il Financial Times la elegge città del futuro dell’Europa meridionale. C’è chi la definisce la nuova Praga, per le 13 gallerie d’arte, per i caffé dei borghesi bohémiens di Skadarska, per i 9.000 fra concerti, mostre, spettacoli e opere teatrali che organizza annualmente, per la vitalità di Kneza Mihailova, la strada pedonale dello shopping e delle birrerie, dei gelati e dei pop-corn, per la fortezza Kalemegdan, dalla cui altura si scorgono le acque della Sava confluire nel Danubio. E per le discoteche, i pubs, i ristoranti dai nomi singolari come “?” e le decine di musei. Belgrado ne dedica uno ad Ivo Andric, il poeta nazionale premio Nobel nel ’61, e uno al maresciallo Tito, Josip Broz. Bosniaco il primo, figlio di un croato e di una slovena il secondo, come se la storia recente non fosse riuscita a tranciare il cordone ombelicale con i vicini. Sloveni, croati, montenegrini, bosniaci e macedoni rappresentano il 40% degli stranieri che annualmente visitano Belgrado (seguono gli italiani, con 20.000 arrivi e il 6% del totale), la cui presenza aumenta del 20% ogni stagione. Per riceverli, in città sono spuntate decine di strutture alberghiere e trenta nuovi ostelli. Uno sorge proprio davanti alla stazione ferroviaria, dove mi affaccio per dare un calcio a quei ricordi lì e dove un poliziotto mi blocca, proprio sul binario 4. Vuole spiegazioni. Ho la coscienza limpida, stavolta. Eppure estraggo i documenti teso come un lampione. L’uomo in divisa mi domanda perché parlo russo, perché scatto foto, qual è il mio lavoro, perché ho tutti quei timbri sul passaporto e soprattutto dove vado. “In Kosovo” rispondo. “Quello non è un posto per stranieri” replica secco. Poi solleva il berretto dagli occhi e ridacchia: “Non è mica come Belgrado”.domenica 5 ottobre 2008
Balkan Express
i anni fa, 80 giorni di bombardamenti della Nato sventravano il quartier generale delle forze armate di Milosevic e scavavano cicatrici sulla pelle dei serbi; oggi il Financial Times la elegge città del futuro dell’Europa meridionale. C’è chi la definisce la nuova Praga, per le 13 gallerie d’arte, per i caffé dei borghesi bohémiens di Skadarska, per i 9.000 fra concerti, mostre, spettacoli e opere teatrali che organizza annualmente, per la vitalità di Kneza Mihailova, la strada pedonale dello shopping e delle birrerie, dei gelati e dei pop-corn, per la fortezza Kalemegdan, dalla cui altura si scorgono le acque della Sava confluire nel Danubio. E per le discoteche, i pubs, i ristoranti dai nomi singolari come “?” e le decine di musei. Belgrado ne dedica uno ad Ivo Andric, il poeta nazionale premio Nobel nel ’61, e uno al maresciallo Tito, Josip Broz. Bosniaco il primo, figlio di un croato e di una slovena il secondo, come se la storia recente non fosse riuscita a tranciare il cordone ombelicale con i vicini. Sloveni, croati, montenegrini, bosniaci e macedoni rappresentano il 40% degli stranieri che annualmente visitano Belgrado (seguono gli italiani, con 20.000 arrivi e il 6% del totale), la cui presenza aumenta del 20% ogni stagione. Per riceverli, in città sono spuntate decine di strutture alberghiere e trenta nuovi ostelli. Uno sorge proprio davanti alla stazione ferroviaria, dove mi affaccio per dare un calcio a quei ricordi lì e dove un poliziotto mi blocca, proprio sul binario 4. Vuole spiegazioni. Ho la coscienza limpida, stavolta. Eppure estraggo i documenti teso come un lampione. L’uomo in divisa mi domanda perché parlo russo, perché scatto foto, qual è il mio lavoro, perché ho tutti quei timbri sul passaporto e soprattutto dove vado. “In Kosovo” rispondo. “Quello non è un posto per stranieri” replica secco. Poi solleva il berretto dagli occhi e ridacchia: “Non è mica come Belgrado”.
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