I ricordi erano le immagini surreali di un incubo. Il buio sfumato da una lunetta impertinente, il rauco sferragliare del treno sui ponti, il binario 4 della stazione, l’insegna Бeoгpaд, l’intervento della milizia, il fermo. Poi l’accusa, l’interrogatorio, le minacce, i fucili. Fino a Dimitrovgrad, frontiera bulgara. Era una sera d’estate del ‘95, il mondo non conosceva ancora l’orrore di Srebrenica, ma per l’Occidente Belgrado era già l’unica responsabile di un’orribile guerra fratricida. Per me - da allora – era stata soprattutto un rischio più grande dei miei 19 anni. Così ora, dopo il settimo smembramento territoriale della ex Jugoslavia, ora che l’ex città-guida degli slavi del sud si è riscoperta una metropoli sempre meno sostenuta dalla Russia, ora che la capitale del Paese non allineato e della Terza Via si limita a trascinare uno staterello che non vedrà mai più il mare, era il momento di tornare all’ombra della Sveti Sava, la cattedrale ortodossa più imponente del mondo. Dove temevo di trovare una Belgrado rabbiosa e impotente, svuotata di energie e di speranze. E dove invece ho trovato l’orgoglio dell’ennesima rinascita. E tanta bellezza. Fondata 2500 anni fa da una tribù celtica, gli Scordisci, conquistata da romani, bulgari, unni, ostrogoti, ottomani, austro-ungarici e nazisti, distrutta 40 volte e battezzata in 13 versioni diverse, la città bianca del III millennio è un salotto accogliente di giorno e un turbine di vitalità di notte. Subito ti sorprende. Poi, lentamente, ti seduce. Solo 15 anni fa il costo della vita cresceva 2.839 volte al mese, e per tenere testa al più grave fenomeno inflazionistico mai registrato si stampavano banconote da 500 miliardi di dinari; oggi la Banca Mondiale scommette su un potenziale di crescita tremendous. Solo dieci anni fa, 80 giorni di bombardamenti della Nato sventravano il quartier generale delle forze armate di Milosevic e scavavano cicatrici sulla pelle dei serbi; oggi il Financial Times la elegge città del futuro dell’Europa meridionale. C’è chi la definisce la nuova Praga, per le 13 gallerie d’arte, per i caffé dei borghesi bohémiens di Skadarska, per i 9.000 fra concerti, mostre, spettacoli e opere teatrali che organizza annualmente, per la vitalità di Kneza Mihailova, la strada pedonale dello shopping e delle birrerie, dei gelati e dei pop-corn, per la fortezza Kalemegdan, dalla cui altura si scorgono le acque della Sava confluire nel Danubio. E per le discoteche, i pubs, i ristoranti dai nomi singolari come “?” e le decine di musei. Belgrado ne dedica uno ad Ivo Andric, il poeta nazionale premio Nobel nel ’61, e uno al maresciallo Tito, Josip Broz. Bosniaco il primo, figlio di un croato e di una slovena il secondo, come se la storia recente non fosse riuscita a tranciare il cordone ombelicale con i vicini. Sloveni, croati, montenegrini, bosniaci e macedoni rappresentano il 40% degli stranieri che annualmente visitano Belgrado (seguono gli italiani, con 20.000 arrivi e il 6% del totale), la cui presenza aumenta del 20% ogni stagione. Per riceverli, in città sono spuntate decine di strutture alberghiere e trenta nuovi ostelli. Uno sorge proprio davanti alla stazione ferroviaria, dove mi affaccio per dare un calcio a quei ricordi lì e dove un poliziotto mi blocca, proprio sul binario 4. Vuole spiegazioni. Ho la coscienza limpida, stavolta. Eppure estraggo i documenti teso come un lampione. L’uomo in divisa mi domanda perché parlo russo, perché scatto foto, qual è il mio lavoro, perché ho tutti quei timbri sul passaporto e soprattutto dove vado. “In Kosovo” rispondo. “Quello non è un posto per stranieri” replica secco. Poi solleva il berretto dagli occhi e ridacchia: “Non è mica come Belgrado”.
(tratto da Ulisse n. 290 - Ottobre 2008)
(tratto da Ulisse n. 290 - Ottobre 2008)