La fettuccia rossa serpeggia anarchica sul linoleum prima di incocciare un cubo di formica, opaco come la vetrata che svela la notte di Beirut. Nessuno straniero in fila. Il doganiere sfoglia il mio passaporto, sbadiglia, e mormora qualcosa al collega. “Dove vai?”. “A casa di un amico”. “Come si chiama?”. “Mustafà”. “Mustafà… E poi?”. “Boh… Mustafà”.. All’ufficiale scappa un ghigno e non riesco a dargli torto. Là fuori ci saranno decine di migliaia di Mustafà, ma purtroppo l’unica cosa che so dell’uomo che mi aspetta nel parcheggio è il nome di battesimo. Che poi chissà se si dice battesimo, trattandosi di un musulmano. Il cognome avrei dovuto chiederlo a Bassam, l’omino olivastro che a metà giugno aveva scavalcato la finestra della mia camera e si era messo a scavare tracce sulle pareti, blaterando che se volevo conoscere il Libano lui sapeva chi faceva al caso mio. Suo suocero Mustafà - all’occorrenza sindaco, coltivatore terriero e accompagnatore di businessmen sauditi - aveva un tetto da offrirmi. Il muratore non aveva finito di formulare la proposta che avevo accettato. E un mese dopo ero atterrato all’aeroporto. “Sai almeno dove abita?”. Con lo sguardo minaccio il doganiere di raccontare i dettagli dell’antefatto. In un attimo mi ritrovo fuori. Mustafà è il pater familias di una dinastia che abbraccia tre generazioni di cugini coniugati coi cognati e di nipoti sposati coi vicini di casa. Più che un albero genealogico, una matassa di parentele intrecciata con divorzi, affidamenti e convivenze a distanza di oceani. Ogni mattina la stirpe si riunisce davanti ad un piatto di manaish con zatar e si cimenta in tenzoni a base di uova sode – tanto vince sempre il nonno - poi s’incastra nel furgone di famiglia. E io mi accodo.
Con 730 auto ogni mille persone, il Libano è lo Stato col più alto numero di vetture pro capite al mondo. E con 358 abitanti per km2 su una superficie pari a quella dell’Abruzzo, è anche il più densamente abitato del Medio Oriente. L’incrocio dei due dati genera un traffico selvaggio, scandito da regole che col codice stradale c’entrano poco. Al volante ci vuole pazienza e fatalismo. Virtù endemiche in una regione che è stata nel mirino di fenici e francesi, passando per assiri, persiani, greci, romani, arabi, ottomani ed inglesi, e connaturate ad una Repubblica che riconosce 18 confessioni e in Parlamento ne rappresenta la metà. Insomma, armato di pazienza e fatalismo, fra un cocomero e un sorpasso avventato, un check-point, un’esercitazione siriana nella valle della Bekaa e un raid aereo a sud*, Mustafà mi guida alla scoperta dei patrimoni dell’Unesco del Paese. Byblos, che già nel neolitico era un villaggio di pescatori e che con i suoi 9 millenni di storia è la più antica città del mondo abitata con continuità, le meravigliose rovine di Baalbek, quel che resta dei cedri di Bcharré - culla e tomba di Kahlil Gibran – e i monasteri maroniti della valle di Kadisha. Ma anche del porto di Sidone, del suk di Tiro, delle grotte di Jbail, di un trapezio di cemento zeppo di carri armati sovietici chiamato “monumento alla pace”, e della Corniche di Beirut, il lungomare che fra yacht club, luna park e alberghi di lusso ospita anche il bar più microscopico della Terra: una capanna abbarbicata di fronte ai faraglioni che incorniciano la discesa del sole nel Mediterraneo e gestita da tal Abdallah. Infine, all’alba del quinto giorno, proseguo verso la Siria. Mustafà mi lascia davanti alla grande moschea di Tripoli, e bofonchiando un saluto affettuoso mi propina l’ennesima anguria. Riparato dalle fronde di un sicomoro lo ringrazio con un timido shukran e ingurgito controvoglia. In tutto questo tempo non c’è stato verso di fargli capire che il cocomero mi fa proprio schifo.
(tratto da Ulisse n.292 - Dicembre 2008)
*per le due o tre persone alle quali non ho ancora raccontato la storiella delle bombe, l'appuntamento è con il libro prossimamente in un uscita nelle migliori salsamenterie.