In America Latina il fenomeno dei cartoneros non è nuovo, ma l'aumento esponenziale di chi si è ridotto così è una fra le conseguenze più dirette della crisi economica. Trovare il modo di vederli all'opera e sentirli di persona era tra le priorità della mia venuta in Argentina. Riuscire a consacrare loro qualche scatto decente era l'unico modo per infarcire la tesi fotografica di testimonianze forti.
Come preannunciato dal responsabile delle ferrovie, sul foglio è specificato che posso filmare, fotografare e intervistare i cartoneros. E considerando che nei prossimi giorni ho l'agenda piena come era un tempo la mia pancia, decido di andare oggi stesso.
Mi vesto di tutto punto: maglietta grigia col buco sotto l'ascella destra, jeans mangiucchiati da un cagnaccio di Avellaneda e Asics bruciate dalla marmitta del Sì di Ilario Melis, ergo datate 1992. Così passo inosservato sia alla stazione di Retiro sia sul treno che porta a José Leon Suarez, il sobborgo di Buenos Aires dal quale i 400 cartoneros della baraccopoli di Carcoba si riuniscono ogni sera alle cinque e mezza per "andare a lavorare'' - come dicono loro - nelle zone più benestanti tipo Colegiales. Che poi è benestante un corno.
Sceso dal treno regolare, attraverso i binari, mi presento ad uno dei poliziotti messo lì per evitare disordini, sfodero il passepartout e mi tuffo tra i cartoneros. Cerco Daniel, il protagonista di un reportage di Raitre, per portargli i saluti di Stefano Bianchi, il giornalista che lo aveva seguito per un giorno, e soprattutto per pararmi il culo. "Daniel è a casa con l'appendicite" mi dicono la moglie Norma e la figlia, che rispetto al servizio andato in onda ha la pancia di 5 mesi. Non so quanti anni abbia, la ragazza, ma visto che i genitori hanno trent'anni, lei deve essere una precoce.
Abbandonato a me stesso, mi incammino sulla banchina finché un tipetto sdentato come tutti gli altri, con il cappello calato sugli occhi come tutti gli altri e appestato come tutti gli altri mi prende sotto il braccio e mi spinge da una parte, non prima di avermi mostrato una tessera della TBA. Falsa. "Con questo foglio puoi salire sul treno - fa sornione, aprendo il mio passepartout e leggendo la mia autorizzazione -. Ma per scendere, devi collaborare".
"Vuoi che carico un carrello pure io?" rispondo.
Certe volte il silenzio è d'oro. E questa era una di quelle. Roberto Carlos (si chiama cosi', a meno che non mi ha preso per i fondelli pure lui) mi mette una mano sul petto e aggiusta il tiro.
Quiere plata.
Il fatto che io sia al verde non gli fa venire neanche l'ombra di un senso di colpa. Anzi, lo autorizza ad alzare il tiro.
Così non mi resta che chiudere il sipario sulla versione sfacciata di me stesso per inaugurare la sceneggiata napoletana. Protagonista unico è uno studentello italiano squattrinato in cerca di documentazioni e che non è lì per lucrare sulle disgrazie altrui.
Del resto non sono mica più idiota di quanto il fatto che mi sia messo in questa situazione possa far intuire: già ho combattuto con me stesso (e con tutti gli argentini dell'ostello, per l'esattezza) la battaglia della ragione per andare a Leon Suarez e per portarmi dietro la macchina fotografica. Mica vado a portarmi pure i soldi.
Le tasche vuote testimoniano in mio favore: Roberto Carlos alza bandiera bianca e mi passa prima a Christian El chino e poi a Miguel, gli altri capobranco. Ma il trattamento del gruppo è sempre lo stesso, anzi peggiora.
Alla prima domanda ''Puedo sacarve una foto?'' invece di replicare con un garbato, semplice e monosillabico ''No'', due ragazzi appoggiati ai loro carrelli si alzano in piedi e mi fanno assaggiare il loro alito miasmatico. Quando mi stanno per stampare la meritata pizza in faccia, Miguel li ferma garantendo per me. Sono 'roba' sua.
Il treno parte puntuale da Leon Suarez verso Colegiales e il ritornello ricomincia."Vuoi fare una foto?" riprende Miguel.
"Be', insomma... sai com'è... siccome di economia non capisco una mazza, sulla tesi di laurea devo almeno allegare qualche foto per dimostrare che la mia ricerca sul campo l'ho fatta".
La versione della storia è talmente vicina alla realtà che quasi quasi Miguel la beve. "Sappi che tutti quelli che sono venuti qui prima di te hanno lasciato almeno 100 dollari di mancia'' risponde.
Lo so bene, pure il giornalista della Rai ha fatto così. Ma io non ho niente. E per dimostrarlo faccio per spogliarmi. Oltre allo zainetto con la macchina fotografica, addosso ho la tessera studentesca, una penna, un block-notes, 20 pesos scamuffi e il biglietto da visita dell'ostello, ma giusto per il rimpatrio della salma.
Miguel prima si commuove, poi mi chiede tutti i 20 pesos, che sono sempre meglio della macchina fotografica.
"E poi in ostello come torno?" obietto.
Lui ci pensa su e chiudiamo per 10 pesos. Sono 3 euro e spicci. Valgono bene qualche osso intero, ci posso stare. Però il punto da superare è sempre quello di partenza: per scattare foto ho l'autorizzazione scritta della TBA e quella verbale di un delegato del treno, ma i cartoneros a bordo continuano a farsi prudere le mani solo all'idea di finire immortalati da me. Eccetto due simpaticoni - sdentati pure loro - con i quali riesco persino a parlare di politica e di calcio. Ma a parte Marcelo e l'amico suo, gli altri quierono la plata sin compromiso.
Tutto quello che riesco a scattare è una specie di visione panoramica del vagone, e visto che ho montato una pellicola da 3200 ASA, non disturbo neanche con il flash. Ma siccome gli argentini sono logorroici e chiacchieroni, qualcuno fa la spia e un tizio nerboruto - che nella suddetta foto scattata con l'obiettivo 28 occupa con la sua capigliatura nera su sfondo nero un millimetro quadrato tra un carrello e l'altro - si fa largo tra il bordello, e invece di farmi assaggiare l'alito si rimbocca le maniche e mi attacca al muro spingendo il suo carrello con una scarica di forza bruta. Prima che ribadisca il concetto, Miguel mi trascina lontano dalla portata delle sue nocche e cambiamo vagone. Che è meglio.
Da quel momento, quando Miguel mi richiede se voglio scattare foto o l'oggetto è un placido carrello inanimato o la mia risposta è una specie di pernacchia. Per nulla offensiva, comunque. Hai visto mai... Anche perché i passatempi del secondo vagone sono tre: giocare a carte, dire ''no'' alle mie richieste di foto e prendersi a cazzotti finché uno cade a terra e consente al vincitore della contesa di mollare un calcio sulla testa a mo' di chiosa. Insomma, meglio parlare di politica, di disoccupazione, di piqueteros, di patacones e di planes trabajadores con gli altri delegati del treno.
E soprattutto contare i secondi che ci separano dalla fermata Colegiales.
Per fortuna sono pochi. Esco dal convoglio stretto fra due carritos, con un dito di terra sui pantaloni e lividi ben distribuiti su tutto il corpo. Sulla banchina della stazione, un signore sgrana gli occhi e mi intercetta mentre scatto verso la biglietteria per cambiare i 20 pesos in due pezzi da 10. Mi mette una mano preoccupata sulla spalla, lo sguardo spiritato, la voce allarmata.
Sibila: ''?Donde te vas, loco!!!" sforzandosi di farmi arrivare tutta la sua inquietudine. Ma senza farsi sentire dalla fiumana di cartoneros che inonda la banchina assieme a me.
Già. E' una domanda che mi sono posto una mezza dozzina di volte solo negli ultimi 25 minuti.
Allungo la banconota da 10 pesos e saluto Miguel, ma lui mi cinge col braccio e mi propone di seguirlo per scattare foto ("tranquille", sottolinea) mentre rovista nell'immondizia.
Sto per dirgli di no quando realizzo che tutto casino dovrà pur servire a qualcosa. Sto per dirgli di sì quando realizzo che fino ad un minuto fa mi stavo cacando sotto e non sarebbe il caso di rimettermi in situazioni per così dire scomode.
Mi esce fuori una specie di 'Ni'' che lui interpreta a modo suo, trascinandomi per un paio di isolati mentre il sole è bell'e tramontato. Siamo circondati da spazzatura, carritos e cartoneros al lavoro. Qualcuno beve, altri fumano, tutti mi sguardano storto.
Confermo di essere idiota, ma solo fino ad un certo punto. Farfuglio qualcosa, tipo che non mi va di ritrovarmi a girare da solo con il buio per Colegiales, e Miguel si mette l'anima in pace. Fa per salutarmi pure lui quando compaiono Norma e la sua bimba incinta, e i tre elaborano un invito per domattina nella villa miseria di Carcoba per assistere - e ''fotografare'' (ormai Miguel ce lo aggiunge sempre) - alla suddivisione del materiale recuperato durante la notte. Se voglio, posso pure fermarmi a pranzo. "Domani cuciniamo asado'' mi fanno, sorridendo.
Farfuglio un altro ni e salgo sul primo treno per il centro. Domani pomeriggio ho in programma di andare all'assemblea di quartiere di quegli schizzati della Boca, che hanno occupato una vecchissima sede del Banco d'Italia e per far capire da che parte stanno hanno dipinto l'effige di Che Guevara. Fra l'altro un paio di isolati più in là il Boca e San Lorenzo giocano alla Bombonera per il campionato di clausura e l'aria si prevede incadescente.
Comunque vada, l'asado potrei essere io.
(tratto dalla mia inutile tesi di Laurea, AD 2003)