Il panorama è desolato in tutti i sensi. La Libia è il sedicesimo Paese del mondo per estensione e il centunesimo per popolazione, sei milioni di persone occupano una superficie grande sei volte l'Italia. Sparpagliare tutti i pugliesi e i calabresi tra Gibilterra e il vallo di Adriano per vedere l'effetto che fa. Quanto a densità solo Australia, Mongolia e Namibia stanno peggio. O meglio, considerando che i pochi che ci sono producono un migliaio di morti l'anno sulle strade e disseminano i lati di rifiuti niente affatto biodegradabili. Il bello è che di questo immenso vuoto solo l'1% è coltivabile; il resto è pietrisco punteggiato di pietre puniche, greche, romane e bizantine ma pur sempre pietre. E il territorio è accuratamente evitato dai fiumi: lungo i 1770 chilometri di coste non si trova una foce neanche per sbaglio. In un posto così, con zero corsi d'acqua, la definizione di scatolone di sabbia è anche generosa. Ecco perché, cacciato re Idris con la rivoluzione del 1° settembre '69, Gheddafi ha messo in agenda la soluzione del rompicapo vitale: i libici abitano su un'isola di sale stretta fra il mare e il deserto nella quale non hanno futuro. E lo ha risolto a modo suo, costruendo l' "ultima meraviglia dell'uomo", il Great man-made river (qualche volta chiamato il Great made-man river, che suonerebbe come 'Il Grande fiume fatto-uomo' volendo proprio bada' al capello), il progetto destinato ad estrarre l'acqua dolce dalle falde sotterranee del Sahara per condurla fino alla fertile fascia costiera. L'opera è stata però inizialmente accantonata perché il colonnello aveva altri impegni. Nei primi 10 anni di governo ha avuto per esempio da fare per confiscare i beni degli oltre 20mila italiani e per sfrattare gli americani da Wheelus Field, una delle più grandi basi militari del Mediterraneo, per beccarsi con gli ulema su Corano e shari'a e per scolarizzare il 99% dei ragazzi, per dotare ogni villaggio di strade e di corrente elettrica e per costruire supermercati statali al posto dei suq e 200 mila alloggi al posto delle capanne. Assicurando così alla Libia il primo posto al mondo per consumo di cemento pro capite.
Parallelamente, visto che la sabbia era oggettivamente poco ricettiva agli stimoli della sua (tutta sua) 'Terza Teoria Universale', Gheddafi s'è fatto bandiera e promotore del panarabismo, e per sette volte ha cercato di unire la Libia agli altri Stati dell'area. Ma da Nasser in giù trovato solo pacche sulle spalle e porte chiuse. Così, fallita la via diplomatica, ha imboccato quella della forza. Fra il '72 e l'84 ha speso in armamenti 500 miliardi di lire - quattro volte più dell'Italia - acquistando 111 caccia Mirage dalla Francia, 380 blindati Cascavel dal Brasile, 80 Scud, 250 MIG e 2500 carri armati dall'Unione Sovietica, dilapidando il 10% del PIL garantito dal petrolio per armare fino ai denti un esercito di mercenari pakistani, palestinesi, siriani e nordcoreani, ma finendo puntualmente per prendere schiaffi anche in guerra. Persino dal Ciad. Così ha ripiegato sui finanziamenti ai gruppi indipendentisti di mezzo pianeta e sulle minacce di usare 'l'arma distruttiva assoluta' se Israele non fosse stato fatto sparire dalla carta della Terra, ma ha ottenuto solo che la Libia finisse diritta dritta sulla neonata lista degli Stati canaglia. Appena eletto, poi, Reagan ha trovato nella cassetta della posta un messaggio che più o meno recitava: "E' mia speranza che durante la vostra amministrazione i pellerossa vedano riconosciuti i loro diritti, perché nel recente passato i pellerossa mi hanno inviato lettere chiedendo il mio aiuto e perché la maggioranza degli indiani è di origine libica. Io spero di avere un giorno l'opportunità di mostrarle sia le missive sia i reperti archeologici che provano l'origine libica dei pellerossa". Firmato Muammar Gheddafi. Il quale è passato perciò in fretta dall'etichetta di "soggetto bizzarro affetto da stati psicologici limite" (Jerrold Post, capo della divisione politico-psicologica della CIA) a quella di "pirata, ciarlatano, barbaro pazzoide, cane matto" (Ronald Reagan reprise) a quella di "cancro da estirpare a tutti i costi" (Alexander Haig, Segretario di Stato Usa). Anche a costo di fargli pagare gli attentati terroristici di matrice siriano-palestinese - come quelli della discoteca di Berlino e dell'aeroporto di Fiumicino - con il bombardamento che nella notte del 15 aprile 1986 devasta Tripoli con sommo sollievo dei media americani (il New York Post titola 'Gheddafi, beccati questa').
La spallata è dura e obbliga il colonnello, che fra le macerie ha perso una figlia adottiva, ad un cambio di rotta. Il patto che lo lega ai libici o almeno a quelli che sopravvivono alle sue epurazioni d'altra parte si basa su una relativa prosperità in cambio di una spericolata politica di grandezza e della tortura rappresentata dalla lettura del Libro Verde, il Vangelo dell'uomo moderno. Ma quando agli insuccessi militari si aggiunge il crollo delle entrate petrolifere, a Gheddafi non resta che riconciliarsi con i vicini bistrattati (Egitto, Marocco, Giordania, Kenya, Liberia, Gabon, Costa d'Avorio, Senegal, Zaire - e ne dimentico sicuramente altrettanti - accusati di essere 'agenti dell'imperialismo') per trasformarsi da militante del panarabismo a sostenitore della meno compromettente causa africana. Tanto il nemico resta lo stesso, l'Occidente. E per mantenere la coerenza basta continuare a pretendere dall'Italia un congruo risarcimento per i danni del colonialismo e della guerra (a suo dire la scia di sangue lasciata da Hitler è nulla in confronto a quel che hanno combinato Giolitti, Mussolini e Graziani fra Tripolitania e Cirenaica), aggiungere al conto l'annessione di Venezia e delle Tremiti ("la maggior parte dei loro abitanti è di origine araba e libica" ipse dixit) e sparare anche un paio di missili su Lampedusa. Tanto l'Italia dipende dal petrolio di Misurata e continua a vendergli la maggior parte dell'arsenale militare. Insomma, il manico è dalla parte del colonnello. Perciò l'Italia è anche l'unica che continua a fare affari con lui nonostante l'embargo che dopo gli aerei abbattuti a Lockerbie e nel Teneré lasciano la Libia isolata dalla comunità internazionale per un decennio intero. Quegli anni Novanta in cui Gheddafi consolida il potere autocratico e repressivo nella Jamahiriya - lo Stato delle masse - decapitando i dissidenti (la metafora politica va presa abbastanza alla lettera), completa la metamorfosi da fallita guida del mondo arabo a capofila del movimento panafricano, fraternizza con Mandela, accatta il 7% della Juventus e una bella fetta di Unicredit e fa giocare il figlio scemo, Saadi, due partite in serie A. Una con il Perugia di Gaucci e una con l'Udinese di Pozzo. I casi della vita.
E visto che c'è, anche per inaugurare quel benedetto grande fiume artificiale. Completato in 23 anni dai coreani della Dong, realizzato grazie al lavoro di 13.000 persone, alla produzione di 574.000 tubi di cemento armato dal diametro di 4 metri, all'utilizzo della più alta concentrazione di camion al mondo e soprattutto all'esborso di qualcosa come 30 miliardi di dollari, il sistema raccoglie le acque dalle falde fossili dell'oasi del Fezzan con pozzi profondi anche 1000 metri e secondo la propaganda locale si snoda per buoni 20.000km. Quando il 1° settembre '96 il colonnello apre le paratie, l'acqua rovescia i tombini (molti dei quali ancora di epoca fascista) e riempie le piazze di Tripoli fra il tripudio generale. Insomma, oggi le città della costa hanno finalmente acqua dolce e l'agricoltura può cavare sangue dalle rape del deserto. Il problema è che quando le falde saranno svuotate, del mitico fiume artificiale resteranno solo tubazioni con incisi i versi del Libro Verde. Secondo gli esperti potrebbe accadere fra 50 anni, più o meno in concomitanza con l'esaurimento delle scorte di greggio. Per allora questo Gheddafi sarà storia, ma il potere potrebbe essere finito nella mani del figlio Seif Al-Islam. Quello che come il padre - secondo l'archeologo che mi illumina su Leptis Magna - soffre degli stessi vizietti di Berlusconi. E ha reso Valeria Marini l'italiana più famosa in Libia. Roba da cominciare ad emigrare prima che spuntino gli eredi.
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