La sera del 6 aprile 1994, l’aereo che trasporta il presidente Ruandese Juvenál Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira viene abbattuto poco prima dell’atterraggio all’aeroporto di Kigali. I due Capi di Stato provengono da Arusha, in Tanzania, dove hanno appena firmato l’accordo di pace col Fronte Patriottico Ruandese, il braccio politico-militare degli esuli Tutsi. Nessuna inchiesta riesce a fare piena luce sui mandanti e sugli autori del lancio del missile terra-aria che fa esplodere il velivolo, ma le piste più battute rimandarono agli estremisti Hutu, contrari a qualsiasi riconoscimento dell’FPR, o agli stessi rappresentanti della dispora Tutsi, convinti che la situazione in Ruanda non sarebbe cambiata nonostante l’esito apparentemente positivo del vertice di Arusha. Comunque sia, l’attentato accende la miccia che scatena le violenze: col pretesto di una vendetta trasversale, all’alba del 7 aprile iniziano i massacri, orchestrati dalle milizie paramilitari Hutu e dall’esercito regolare, che prendono di mira i Tutsi.
Per 100 giorni il
Rwanda piombò all’inferno, e nella rabbia cieca che alimentò il genocidio ci fu
spazio solo per la violenza. Tutto il resto, compreso il calcio, si fermò. Non
per rispetto, per paura o per ipocrisia, ma perché era proprio negli stadi che gli
Hutu, i più poveri, i
più numerosi e i più neri, si radunavano ogni giorno all’alba. Ed era proprio dai campi di
calcio dei villaggi che partivano le ronde per stanare e giustiziare i Tutsi nascosti
nelle foreste e negli aquitrini.
L’abbattimento sistematico degli alberi alti - i Tutsi, appunto, che noi chiamavamo Watussi - durò 3 mesi, duranti i quali
furono massacrate quasi un milione di persone, colpevoli di essere presuntamente diverse e certamente minoritarie
in quello che allora era il quinto Paese più povero del mondo. Un Paese del quale
avevano rappresentato per secoli l’aristocrazia e del quale costituivano ancora
di un’élite talmente povera che per farne parte bastava avere 10 capi di bestiame.
La follia collettiva
Hutu portò alla morte di un Tutsi ogni 12 secondi, tutti o quasi uccisi barbaramente
a colpi di machete, compresi 300 mila bambini.
Undicimila scarafaggi furono trucidati in una chiesa. Il genocidio ruandese,
uno degli eventi più sanguinosi degli ultimi 70 anni, un eccidio che ha visto salire
sul banco degli imputati persino un sacerdote, un ex segretario generale
dell’ONU e tutto il governo francese, non risparmiò nulla e nessuno.
A Kigali si
salvarono appena un migliaio tra Tutsi e Hutu moderati che trovarono rifugio
nell’Hotel des Mille Collines e circa 12,000 persone asserragliate nello stadio
Amahoro. L’impianto della Pace ospitava infatti lo sparuto contingente delle
Nazioni Unite, e da zona franca venne trasformato in una specie di campo profughi prima e di
concentramento poi. Almeno fino a quando le milizie del Fronte Patriottico
Ruandese, un gruppo nato dalla diaspora Tutsi in Uganda, non prese il controllo
della capitale, rovesciando così le sorti del conflitto e avviando una nuova
serie di atrocità.
Era il 4 luglio
del 1994, e nel giro di 2 settimane la rappresaglia Tutsi portò alla fuga di
milioni di Hutu, a loro volta bersaglio di un profondo odio interetnico che alla
lunga sfociò in due successive conflitti in Congo e provocò una guerra civile anche
in Burundi. Spargimenti di sangue
che hanno lasciato ferite profonde, visibili ai confini del Ruanda e in tutta
la regione dei Grandi Laghi, dove enormi tendopoli testimoniano 20 anni di
brutalità e ritorsioni, di assalti, ritirate ed esilii forzati.
Le prove più evidenti sono a Gisenyi, cittadina di frontiera ai piedi delle
montagne che ospitano i gorilla nella nebbia amati da Dian Fossey e un volcano,
il Nyiragongo - che ogni 25 anni gioca a fare il Vesuvio, vomitando cenere e
lava sulle case di centinaia di migliaia di persone. Gisenyi spartisce col
Congo anche le sponde del lago Kivu, una bestia poderosa capace di generare tsunami
devastanti con l’emissione di gas naturali e il cui metano viene sfruttato per
produrre Guinness, Amstel e un paio di birre locali, la Primus e la Mützig. Ma
con la Repubblica Democratica, Gisenyi condivide soprattutto decenni di drammi
umani. È lì che sono passati infatti i Tutsi in fuga dagli Hutu, poi gli Hutu
in fuga dalle milizie del Fronte Patriottico, quindi i congolesi in fuga da due
guerre civili e poi tutti da tutti, in quello che è stato chiamato ‘il
Conflitto del Kivu’ per l’impossibilità di delimitare un confine preciso tra
vittime e carnefici, mandanti e prede, ribelli e profughi. Né tantomeno
l’identità e l’origine geografica degli uni e degli altri.
È lì, nella terra delle gioventù bruciate e delle guerre dimenticate, del
tutti contro tutti, dei rancori etnici intrecciati con gli interessi del coltan
e del rame che inauguro ufficialmente il primo ostello del paese. Una struttura talmente nuova che in paese nessuno la conosce per cui vago a lungo prima di trovarla. Sono il primo backpacker a metterci piede, e il responsabile trattiene a stento le lacrime.
Mi racconta di essere fuggito
dalla furia degli Hutu quando aveva 16 anni, di aver camminato due settimane per
le montagne, di essere stato più forte della fame, della sete e del terrore e
di aver trovato la salvezza nell’ex Zaire.
E sempre lì mi imbatto in Rasheed, un ex calciatore di seconda divisione ruandese che ora mette tempo e passione al
servizio dei ragazzini di Gisenyi gestendo una scuola-calcio rudimentale, improvvisata
su un terreno pubblico sconnesso, con porte pericolanti e ciuffi d’erba
cresciuti in modo incontrollabile. L’ha battezzata ‘Yamutoto’, che significa
‘insegnare ai bambini’, perché la storia ha fatto del lago Kivu una delle
capitali mondiali dei bambini-soldato, e la piaga non è declinabile solo al
passato. Per strappare i giovani ai pericoli della strada o almeno per limitare
i rischi dei tempi morti, Rasheed ha avuto il sostegno di un benefattore
norvegese, che ogni anno mette a disposizione un po’ di attrezzatura: pettorine e
coni per gli allenamenti, magliette e palloni per le partite. Così, nel suo piccolo, anche lui lavora per il
futuro, in un Paese in cui la complicata ricerca della pace e della normalità è
uno sforzo congiunto operato dai cittadini reduci e da quell’Occidente additato
all’epoca come corresponsabile, morale e materiale, delle carneficine.
A 20 anni esatti dal genocidio - ricordato con una commovente cerimonia organizzata
il 7 aprile scorso nello stadio Amahoro - il Ruanda oggi ha voltato pagina,
ripartendo letteralmente da zero. Oltre ai massicci investimenti internazionali,
alla base di una crescita dell’economia che sfiora l’8% annuo, c’è voluto acume
politico e spirito di conciliazione nazionale per spingere i ruandesi a risalire
dopo aver toccato il fondo, e a prendere in mano le sorti del loro piccolo
Stato trasformandolo in una gemma nel cuore dell’Africa. Una strada lunga, ma partita
da gesti semplici e iniziative concrete per rinforzare il sentimento di unità, come
quella di dedicare un giorno del mese alla pulizia delle strade, alla quale prende
parte anche il Presidente della Repubblica. La scelta del cleaning day non poteva che cadere sul sabato, dato che la domenica
è consacrata per metà alla religione e per metà al calcio.
Nel dopoguerra, la
nazionale oggi guidata dall’ex tecnico del Milwall Stephen Constantine ha
cambiato colori e soprannome, strappando nel 2004 la sua prima qualificazione alla
Coppa d’Africa. Il goal che permise alle Wasps
di presentarsi alla fase finale in Tunisia fu segnato al Ghana da tal Jimmy
Gatete e valse all’attaccante ruandese l’appellativo un filino pretenzioso di God of Goals. Con quel risultato, gli Amavubi si ritagliarono un posto tra le
prime 100 Nazionali del ranking FIFA, posizione che occupano tuttora. A livello
di club, la Premier League nazionale è terreno di conquista dell’APR, che ha
vinto 14 dei 20 campionati cui ha preso parte.
E poco male se l’acronimo nasconde il nome dell’Armée Patriotique
Rwandaise F.C., squadra fondata come costola sportiva del Fronte Patriottico
Ruandese, o se il Presidente onorario del club è James Kabarebe, oggi braccio
destro del Presidente della Repubblica Paul Kagame ma in passato accusato dal
Tribunale Internazionale dell’ONU di aver ricoperto un ruolo centrale durante
il genocidio, prendendo in prima persona parte agli atti che hanno preceduto e
seguito i massacri del ‘94. Poco male, dicevo, perché a 20 anni dal momento più
buio della sua storia, in Rwanda nessuno riesce a dimenticare, ma a nessuno
viene concesso di fomentare rancori, di rimestare nel torbido. E probabilmente nessuno può davvero perdonare,
ma almeno a nessuno viene più consentito di risvegliare i fantasmi, di parlare
di appartenenza etnica. Come una scoria radioattiva impossibile da smaltire, il
passato viene sepolto sotto una colata di cemento. Impossibilitato a guardarsi
dietro e con poca voglia di guardarsi dentro, al Rwanda non resta infatti che puntare
avanti.