MELBOURNE PARK (AND ME)
Il
piede col quale entrai la prima volta a Melbourne Park era il sinistro. L'altro
era convalescente, e lo sarebbe rimasto per un mese intero. In mattinata,
un'infermiera del Royal Hospital l'aveva guardato con una smorfia, poi mi aveva
accettato al pronto soccorso anche se mi ero presentato senza assicurazione e
tessera sanitaria. "Ho lavorato con l'esercito australiano in Cambogia -
aveva detto, per spiegare il codice rosso, la radiografia e la bomba di
antibiotici - ma non ho mai visto una cosa del genere". La cosa era figlia di un taglietto rimediato
da qualche parte tra Komodo e Timor e
degenerato in una roba troppo pulp per questa sede. Dimesso con la promessa che
il piede destro non sarebbe stato amputato, avevo festeggiato la buona novella
saltellando fino alla Rod Laver Arena, dove mi aspettava il mio primo accredito
per uno Slam. Non sapevo che avrei fatto l'alba appresso a Hewitt e Baghdatis,
che per Federer la pacchia era praticamente finita
e che per Djokovic stava iniziando la festa. Ma soprattutto, non immaginavo
che Melbourne sarebbe diventata la mia seconda casa da lì a 3 anni, quando da modesto giornalista romano mi sarei evoluto
in modesto giornalista romano trapiantato in Australia. Nel lucky country avrei trovato in
rapida successione, moglie, lavoro e alloggio, un monolocale a 1.300 passi dal
sancta sanctorum di Melbourne:
i campi color puffo col logo che richiama il titolo di città letteraria, conferito dall'UNESCO in un momento di profonda confusione. A cinque anni di
distanza, moglie e lavoro sono sempre gli stessi, mentre l'appartamento in
affitto si è
trasformato in un bilocale col mutuo.
Melbourne Park invece è
diventato
una sorta di garçonniere, dove mi presento a qualsiasi
ora, a Ferragosto o a Natale, con 4 o 40 gradi, oppure per usare la doccia
quando la mia è
fuori
uso. Al punto che metà dello staff mi conosce per nome e
l'altra metà mi chiama affettuosamente
troublemaker, una versione anglo-edulcorata di rompiscatole. In 5 anni ho contribuito allo
svezzamento di una trentina di raccattapalle e in qualche modo ho portato a
casa una coppetta, ma mi sono anche scontrato con un'amara verità: 'sto gioco non si impara per
osmosi. Il rovescio è
sempre quello di Nonna Papera, metto ancora il 30% di prime nelle
giornate di grazia e a rete sono pure peggiorato. Ma bazzicare la casa del
tennis down under mi ha permesso se non altro di ficcare il naso nella storia di un Paese che un tempo dominava questo sport e di osservare dalla prima fila la crescita dei campioni di domani. In particolare di uno.
NICK
MANOLESTA
In
palestra, Nick spiccava solo perché
grosso, mulatto e scoglionato. "Sì, ma magari giocassi come lui", mi disse un junior
classe '95, Jacob Grills.
Due mesi più
tardi, Nick debuttò nel play off
per la wild card dell’Australian
Open, e in quella che era la sua prima partita al meglio dei 5 set fece saltare i nervi a Sam Groth. A prima
vista, quel Kyrgios lì
sembrava poco reattivo, invece
rispondeva sempre, bene e profondo. Pareva lento, ma copriva ogni angolo e non
andava mai in affanno. Sapeva giocare di rimessa, ma quando prendeva
l'iniziativa tirava mattonelle con nonchalance. Dava l'impressione di avere la
testa altrove, sprecava energie tra soliloqui e catenine, invece era lucido
come un killer. Il contorno, dalle proteste alle provocazioni, dalle lagne
alla negatività, dalle
invettive agli atteggiamenti irritanti, erano indizi di un ex loser che con la
pubertà aveva scoperto di eccellere in
qualcosa. E che
attraverso quel qualcosa voleva sistemare un po' di conti aperti col mondo,
meglio se indossando i panni del fenomeno anticonformista e maledetto. Immaturo
sì, ovviamente, ma abbastanza scaltro
da fare di quell’antipatia un'altra arma a sua
disposizione, per
infastidire l'avversario. A 17 anni, Kyrgios era già un
mix di tecnica e tigna, aggressività e arroganza, cinismo e coattume. In
quel match contro Groth lo lasciai in vantaggio due set ad uno, poi per caso
ci ritrovammo negli spogliatoi. "Hai vinto?" gli chiesi.
"No" rispose secco. Cazzate, aveva chiuso in quattro, strappando 5
volte il servizio a uno dei più potenti sparapalle del circuito. Ma Nick ci teneva a non lasciarsi
andare ad un sorriso che avrei potuto interpretare come di autocompiacimento, o
di intesa. Il personaggio era fatto e finito. Alla lista dei pensieri sul
ragazzo aggiunsi 'sbruffone', con un certo anticipo sul resto del
pianeta-tennis. Qualche settimana dopo, sugli stessi campi andò in scena uno degli Slam junior più ricchi di talento dell'ultimo decennio:
in tabellone c'erano Coric, Chung, Nishioka, Ymer, Garin, Duckhee-Lee,
Milojevic, Quinzi. In semifinale ci arrivò Baldi,
in finale Kokkinakis. Sull'albo d'oro, Kyrgios. L'Australia Day fece da sfondo
al derby tra wogs, i figli della nazione multietnica, in una finale che presentò agli appassionati due cavallini di
razza. Due gemelli diversi, uno allegro ma acerbo, solare ma sbilenco, forte
tecnicamente ma fragile fisicamente; l'altro già pronto
per essere messo in tavola. E che infatti entro due mesi avrebbe vinto un
challenger, entro settembre si sarebbe accomodato tra i top 200, e prima di
compiere 20 anni avrebbe battuto Nadal a Wimbledon e Federer a Madrid. E poi
anche Murray a Perth. Uno la top 10 la potrebbe assaporare, l'altro potrebbe farne il suo parco
giochi. Arrivando a ritagliarsi un posto al sole tra i miti del tennis australiano.
La
tradizione, a Melbourne Park, stimola senza schiacciare. Si vive, si respira e
spesso si incrocia anche nei corridoi. E se non hai studiato la storia, ci sono
decine di vetrine piene di racchette d'annata, palline autografate, libri,
giacche, coppe e cimeli.
E poi c'è
la galleria 3D delle leggende
australiane tutta intorno alla Garden Square,
la piazzetta che a gennaio si anima tra chioschi, maxi schermi e gente a
prendere la tintarella. Nel 1993, Tennis Australia l'ha resa una sorta di Hall of Fame a cielo aperto, e nel primo anno
ha subito iscritto nel club Margaret Court e Rod Laver, bruciando con un colpo
solo più
di ottanta Slam, forse in nome del
politicamente corretto o per eccesso di ottimismo. Molto più probabilmente perché il tempo passa e certi riconoscimenti
è meglio assegnarli prima che sia
tardi. L'anno seguente, Tennis
Australia ha aggiunto altri tre nomi - Roy Emerson, Neale Fraser e Evonne Goolagong
- per un totale di altri 61 successi Slam e 11 tra Davis e Fed Cup. Nel '95 si è invece limitata a inserire Lew Hoad e
Ken Rosewall, scendendo ad una trentina di Majors e a una decina di Insalatiere. E
così via, fino a nominare 12 leggende tra
il '96 e il '98 e a ritrovarsi a negli ultimi anni a celebrare Kerry Reid
(vincitrice giusto di un Oz Open in singolare e di 3 Slam in doppio), o un top
ten quasi per caso come Owen Davidson, compagno di merende di John Newcombe,
famoso soprattutto per aver vinto nel 1968 a Bournemouth la prima partita del
neonato circuito Open. I suoi Slam furono dodici, 2 in doppio e 10 in misto,
tanto per precisare che anche la targa che ne accompagna nome e volto è lunga così.
Ad ognuno è
dedicato un busto in bronzo, realizzato
da tal Barbara McLean e installato a metà strada tra i cancelli della struttura
e l'ingresso degli stadi, dove è
impossibile non vederli. I
prossimi saranno probabilmente Hewitt e Stosur, dopodiché l'Australia dovrà sperare
che gli Special Ks mantengano le promesse, che il parricidio di Tomic si riveli
una mossa redditizia, e che quell'altra capatosta di Jasika non si dimostri un
altro Kratzmann, come Klein e Saville, o non si perda per strada come la Barty.
La quale a 19 anni si è
già riciclata
nel cricket dopo aver vinto 68 partite su 71 a livello junior e dopo aver
raggiunto da professionista tre finali Slam di doppio nel 2013, a 17 anni.
GENERAZIONE PERDUTA
Di
fronte alla meglio della terza età e alla meglio gioventù
mondiale, la domanda nasce spontanea: che fine hanno fatto i nati tra l'82 e il
'92? Possibile che nel dopo-Hewitt e nel pre-Tomic, l'Australia non abbia
partorito niente di meglio di Matthew Ebden? Secondo Mark Woodforde,
l'errore in campo maschile è
stato
tecnico, cioè lasciare i giovani nelle mani di
coach senza pedigree e con un unico chiodo fisso: adeguarsi all'omologazione
delle superfici insegnando agli angeli aussies a remare da fondo. Il panorama femminile è persino più grigio, e dietro la Stosur non c'è niente a parte tenniste prodotte
all'estero. Senza matrimoni usa-e-getta e senza la legge sulla cittadinanza
rapida per meriti sportivi, l'Australia di Fed Cup sarebbe una squadretta da gruppi zonali. Per l'alter ego di
Woodforde, Todd Woodbridge, le donne sono nella condizione in cui si
trovavano gli uomini cinque-sei anni fa, e le colpe, anche lì, vanno distribuite tra i coach e la federazione. La ragione di fondo, però,
prima ancora che tecnica potrebbe essere tattica. Cioè
la nomina di allenatori che non avevano esperienze con donne e non ne
conoscevano pensieri, parole, opere e
omissioni. Per invertire la rotta, il coordinamento dell'accademia federale è finito nelle mani di Jason
Stoltenberg e Nicole Pratt, attraverso i quali passa tutta la ristrutturazione.
Si parte dai maestri, ai quali si chiede di curare diversamente ogni aspetto: la tecnica (dall'A-B-C, dalla
combinazione servizio-dritto), l'approccio mentale e la preparazione fisica.
Il tutto col coinvolgimento di professionisti che hanno già lavorato
nell'universo femminile, da Stefano Barsacchi, ex preparatore atletico di
Francesca Schiavone e della FIT,
a Chris Johnstone, ex della Gajdosova (I meant ex Groth, actually Wolfe, ci siamo
capiti). In
entrambi i casi - uomini e donne - la costruzione del campione parte
dall'introduzione di programmi comuni in tutto il Paese, ma anche da un
monitoraggio degli
under 12 nazionali e dalla selezione dei migliori under 14, che a partire da
quell'età possono ricevere borse di studio e
continuare a vivere nelle varie capitali statali (Adelaide, Brisbane,
Melbourne, Perth e Sydney) a carico di Tennis Australia. La casa madre copre i
costi della scuola, degli allenamenti, dei viaggi e dei tornei e poi incrocia
le dita. Non so
se basti, ma io non so neanche smashare, quindi non è che posso mettermi a fare le pulci.
Ah, e poi c'è
la
questione dell’appeal: con una disoccupazione al 6% e
stipendi medi da 60mila dollari netti all'anno, secondo la federazione è fondamentale che genitori e figli non
vedano il tennis come un investimento a fondo perduto o come un modo per
centuplicare i followers su Instagram, ma che intravedano un percorso
professionale con uno sbocco più
remunerativo di una carriera da
infermiera o poliziotto, senza contare - per dirla alla Agassi senior - da
giocatore di baseball. L'assioma è talmente banale da sembrare
semplicistico: più
ragazzini
avvicini al tennis più
chances
hai di pescare nel mucchio. Spagna e Francia insegnano poi che quando le reti
sono piene zeppe, statisticamete è più probabile che una perla esca fuori.
TENNIS
(IN) AUSTRALIA
Prima
dei risultati tecnici, comunque, il presidente di Tennis Australia Steve Healy
e l'amministratore delegato Craig Tiley, non hanno mai fatto mistero di puntare
a quelli economici, non solo per i giocatori. La loro creatura ha 276mila
iscritti e garantisce più
di mille posti di lavoro a tempo
indeterminato. Il suo prodotto di punta - l’Australian
Open - immette circa 250 milioni di dollari nell'economia dello stato di Victoria e attira 369 milioni
di telespettatori nonostante un fuso orario infame per la maggior parte degli appassionati. Una torta del
genere fa da sempre gola a Channel 7, il network che almeno fino al 2019
sborserà ogni anno 40 milioni di dollari per
la copertura del mese di tennis in cui l'Australia si sente finalmente al
centro del mondo. L'audience nazionale nel 2015 ha superato i 15 milioni di
viewers: con le dovute proporzioni, è come se Canale 5 trasmettesse quattro
settimane consecutive di tennis in Italia e alla fine della fiera l'auditel
contasse 40 milioni di telespettatori. Le ragioni del boom sono parecchie:
intanto qui gli sport sono frutti stagionali, all’americana:
il football australiano (alias AFL, aka footy) e le varie salse di rugby
vengono consumati nei sei mesi invernali, da marzo a settembre, e quando passano loro non cresce più l'erba. A parte quella di Wimbledon,
dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi, of course. Ad ottobre e novembre sale invece
in cattedra l'ippica, mentre la vela e il surf sgattaiolano sul palcoscenico a
dicembre. La concorrenza a gennaio è
insomma limitata: il calcio cerca di
rosicchiare quote di mercato anche a Natale e a Capodanno, ma da quando Del
Piero ha fatto le valigie, i canali in chiaro non sgomitano più per trasmettere l'A-League. Basket e
netball se la cavano bene nei palazzetti ma attirano molto di meno
l'appassionato da divano. Resta il cricket, il cui interesse raggiunge l'apice
col test match di Santo Stefano ma poi si affloscia. A gennaio molti
australiani sono in vacanza, e dopo una giornata sotto le radiazioni
ultraviolette, è
tradizione strafogarsi di salsicce
bevendo VB mentre Jim Courier, John Fitzgerald, Rennae Stubbs e il resto della
compagnia commentano la puntuale maratona serale di Hewitt.
RITORNO AL FUTURO
A
dirla tutta, la partnership dell’Australian Open con Channel 7 è iniziata nel 1973, sull'onda lunga
della Golden Generation. Ma
è il contesto ad essere oggi
profondamente diverso. Basti pensare che quarant'anni fa, nell'ultima edizione
vinta da un aussie, Mark Edmondson conquistò l'erba di Kooyong da numero 212 del
mondo anche perché
a Melbourne non si videro
praticamente mai né
Nastase, né
Connors, né Borg. Eddo fu protagonista della
favola più
incredibile del tennis moderno: a un
mese dall'inizio del torneo sbarcava ancora il lunario lavorando part time come
uomo delle pulizie in un ospedale e finì nel
main draw quasi per caso. Non essendo prevista l'accommodation dormiva da amici
di famiglia, mancando la transportation girava per Melbourne in tram, e non
avendo un vero e proprio sponsor, durante il torneo cambiò anche tre volte marca di scarpe. Ma
il fatto che nessuno dei primi 5 della classifica fosse presente in tabellone,
svela l'altarino: l'Australian Open del tempo era poco più di un campionato nazionale. Neanche troppo generoso, visto che al
vincitore andava un assegno da 7.500 dollari. Da allora la rincorsa ai
battistrada è
stata lunga, tra balletti di date,
costruzione di impianti e cambi di superficie, ma fino a 25 anni fa il torneo
offriva ancora la metà del prize money di Roland Garros e un terzo di
Flushing Meadows. Oggi, dal punto di vista dell'immagine, il gap con la
concorrenza è
pressoché colmato, e altri 338 milioni di
dollari (statali) investiti nel quinquennio 2010-15 hanno portato all'ennesima
ristrutturazione della cittadella del tennis, che prossimamente raggiungerà persino
l'autosufficienza idrica. La
sensazione è
che il primo Slam stagionale covi
ancora il complesso di Calimero e metta a segno un colpo ad effetto ogni 12
mesi per compensare il deficit di fascino rétro.
Ma a Melbourne hanno certamente avuto il merito di cercare di migliorare un
prodotto che per altri doveva rimanere identico a se stesso, mettendo
d'accordo gli appetititi di pubblico, sponsor, telespettatori e giocatori con
due sole parole: soldi e tetti. L’Open d'Australia è stato il primo Slam con tre campi coperti, il primo a
sfondare il muro dei 40 milioni di dollari di montepremi e il primo ad
accompagnare i vincitori all'aeroporto con un bottino di 3 milioni e rotti. Cifre un po' sgonfiate dal calo del
dollaro locale (che negli ultimi 18 mesi ha perso il 30% rispetto a quello
americano e il 20% rispetto all'euro), ma in certi casi il pensiero basta e
avanza. La
grandeur melbourniana ha pagato su tutta la linea, attirando sempre più gente: dai 288mila biglietti
staccati del 1988, anno del trasferimento a Flinders Park, ai quasi 704 mila
del 2015, l'Happy
Slam ha
conosciuto ogni anno un segno positivo alla voce attendance. L'installazione di tribunette più ampie e coperte su altri campi
secondari è
lo stratagemma per far segnare
un'affluenza record che poi si traduce in più birre, più meat pies e più asciugamani. Solo l'anno scorso ne
sono stati venduti 25mila. Tennis Australia ringrazia per la fiducia e
annuncia che per il 2015 i conti sono in attivo di 12 milioni di dollari. Se
poi Kyrgios esplode sul serio, la ricreazione è davvero finita.