Passerà, prima o poi, questa noia mortale, questa monotonia che
in confronto la Formula Uno è tutto un Moët Moment. Almeno i
piloti con l'auto bionica sono due. E poi magari uno rompe, uno si ritrova una
gomma a terra, un meccanico si inceppa, una Sauber ti tampona. Botte di
adrenalina, rispetto al tennis. Djokovic non rompe mai, non si sgonfia mai, non
si inceppa mai e gli altri vanno talmente piano che il cannibale lo batte solo la
congiuntivite.
Ci vuole pazienza, però, perché uno più forte
del serbo non è ancora venuto fuori e non è detto che nasca. L'Impero del Nole
non finirà sotto i colpi di un altro. Djokovic andrà avanti finché non correrà
i 100 in 9'50, finché i contemporanei non saranno umiliati e i posteri non sapranno
di essere eredi per caso. Quando Nole avrà battuto pure Beamon e Sotomayor e la
Serbia avrà il suo nuovo grande Presidente, allora sì, la palla passerà al
fortunello di turno, uno che sarà l'antitesi del perfezionista di Belgrado: cialtrone,
guascone, un po' quaquaraquà. Amato perché atteso sì, ma non osannato, perché la
sua missione nella storia non sarà migliorare il tennis, ma riumanizzarlo,
guidandoci verso la decrescita felice.
Nicholas Hilmy Kyrgios è venuto al mondo lì, a una manciata di isolati dalle sede delle istituzioni federali, terzo figlio di due immigrati: una principessa malese che aveva cestinato il titolo nobiliare pur di sbarcare down under assieme alla madre, e un pittore - nel senso di imbianchino, non di artista - nato in un paesino sulle montagne Epiro e che aveva fatto le valigie per l'Australia durante gli anni Sessanta. Quelli che in Grecia sono stati favolosi solo per i colonnelli.
Che poi secondo Andrew Bulley, il suo primo mentore sui terreni spelacchiati del Lyneham tennis centre di Canberra, quel ragazzino paffuto del Redford college non ha niente di speciale neanche con la racchetta in mano. È lento - e ci mancherebbe, tracagnotto com'è - e la testa parte spesso per la tangente. Basket e XBox, quelle sono le vere passioni del piccolo wog*. Passatempi che danno sostanza al suo bisogno di miti: i Boston Celtics, il Tottenham, Kevin Garnett, Adebayor. Tutte icone che sono ancora lì, nel pantheon kyrgiossiano, assieme alla famiglia, ai cani, al sushi e ai Griffin. Il Terzo Millennio ha aggiunto solo Rihanna e Twitter. E il sesso, vabbé.
Larkham si concentra soprattutto sui colpi di inizio gioco, perché il tennis di oggi va così e perché Nick è figlio del suo tempo. L'umore è instabile, il corpo fragile. Kyrgios colleziona problemi un po' dappertutto, al ginocchio, al gomito, alla schiena. Anche se in palestra si danna, la mobilità resta il suo tallone d'achille. E poi psicologicamente è un front runner, Nick. L'entusiasmo che mette in campo è proporzionale ai 15 di vantaggio sull'avversario. Insomma, meglio insegnargli a prendere subito in mano lo scambio, perché è lì che Kyrgios dà il meglio di sé: quando schiaffeggia col dritto, quando aggredisce le risposte come se avesse appena subito un affronto, quando frusta servizi sempre più forti da altezze sempre più mature. Il più delle volte, l'istinto basta e avanza per portare a termine lo spettacolo tra gli applausi, ma scrivere il copione diventa impossibile come fare le previsioni meteo a Melbourne. È sempre e solo Nick a decidere se piove o se c'è il sole.
Il primo assaggio del circuito pro va esattamente così: nel pomeriggio in cui Matteo Viola recupera da 5-0 40-0 e batte Lajovic dopo aver annullato 8 match point, Nick strappa il primo set al francese Rodrigues, poi si dissolve. Ha 16 anni e mezzo, una sconfitta nel primo turno delle quali di Melbourne - gli dicono - non è un dramma. Lui, ovviamente, i drammi li fa eccome, ma in quel 2012 solleva comunque un paio di coppe para-importanti, mettendo a segno la doppietta Parigi-Londra in doppio juniores. Andrew Harris, il suo partner, fa talmente bella figura accanto a Nick che John Roddick, fratello di Andy, lo mette sotto contratto per gli Oklahoma Sooners. Peccato che quello buono fosse l'altro. A Wimbledon, dove il duo Aussie si impone senza concedere set, a farne le spese in finale sono Donati e Licciardi. In singolare, invece, Kyrgios si ferma nei quarti, beccando 6-3 6-1 da Quinzi. Ventiquattro mesi mesi dopo toccherà a Nadal saggiare le sue pallate, e lo spagnolo non ne uscirà bene come GQ.
Il teenager Aussie arriva all'appuntamento con Rafa tra uno strappo e l'altro. Diciotto vittorie di fila a livello junior tra fine 2012 e inizio 2013, i primi punti ATP raggranellati nei futures giapponesi, il titolo giovanile a Melbourne in finale sull'amico Kokkinakis, il challenger di Sydney conquistato prima del diciottesimo compleanno (marchio di fabbrica di grandi del calibro di Djokovic, Nadal, Hewitt e Del Potro), giocando nella stessa domenica quattro partite - semi e finale di singolo, semi e finale di doppio - e vincendone tre. Con in tasca il primo assegno da 7mila dollari, e dopo aver scalato 500 gradini ATP in meno di due mesi, la sera stessa #NKrising vola a Pechino. Accanto a lui non c'è più Larkham, ma Simon Rea. È il coach neozelandese ad accompagnarlo negli ultimi 3 tornei Futures della vita, quando Kyrgios si aggiudica 12 partite su 14 chiudendo la parentesi ITF proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno, con un titolino in Cina e l'ingresso tra i primi 300.
Rea rimarrà al suo angolo per 18 mesi. Lo vedrà battere Stepanek al debutto a Parigi, dove Nick cancella 6 set point consecutivi nel secondo e finisce col vincere 3 tie break su 3 perché quel giorno, al Roland Garros, c'è il sole. Rea lo vedrà qualificarsi per il main draw New York e impegnare per un'oretta Ferrer, lo vedrà infiammare Melbourne Park contro Becker e Paire, lo vedrà intascare back-to-back i challenger di Savannah e Sarasota e rispettare l'obiettivo-top 200 in tempo per il diciannovesimo compleanno.
Uno dei candidati è Nick, il guappo nato 21
anni fa a Canberra. Un postaccio freddo e isolato, senza una spiaggia, una stazione,
un aeroporto internazionale, una squadra di calcio o di footy. Una capitale
messa su di corsa per evitare che la rivalità tra Melbourne e Sydney superasse
il livello di guardia e costruita seguendo il mito della città ideale, fatta di
vialoni, laghetti, parchi e gallerie d'arte. Sulla carta tutto bello, in realtà
un'accozzaglia di edifici anonimi, odiata dai suoi stessi abitanti. Un posto talmente alienante che negli anni Ottanta il Primo
Ministro australiano John Howard preferiva sorbirsi 300 chilometri di Hume
freeway pur di non viverci.
Nicholas Hilmy Kyrgios è venuto al mondo lì, a una manciata di isolati dalle sede delle istituzioni federali, terzo figlio di due immigrati: una principessa malese che aveva cestinato il titolo nobiliare pur di sbarcare down under assieme alla madre, e un pittore - nel senso di imbianchino, non di artista - nato in un paesino sulle montagne Epiro e che aveva fatto le valigie per l'Australia durante gli anni Sessanta. Quelli che in Grecia sono stati favolosi solo per i colonnelli.
Giorgios detto George e Norlaila detta
Nilli (lo shock da toponimi aborigeni ha
portato gli Aussies ad un'intolleranza verso tutto ciò che eccede le due
sillabe - così breakfast diventa brekky, barbecue barbie e Nicholas,
ovviamente, Nick) avevano già avuto due figli. Uno battezzato secondo il
rito ortodosso come il nonno paterno, Christos, l'altra come una principessa mesotopotamica,
Halimah. Per i motivi di cui sopra, i due sarebbero poi diventati X e Hali. Col
tempo si sarebbero diplomati rispettivamente in legge e in spettacolo, quindi uno
avrebbe aperto palestre a Brisbane, l'altra avrebbe finito per recitare,
danzare e cantare nei teatri giapponesi. Ma il loro posto al sole lo avrebbero trovato nella corte
dei miracoli del piccolo Nicholas, tanto spavaldo in campo quanto bisognoso di
sentirsi tra due guanciali una volta uscito dalla comfort zone familiare.
Che poi secondo Andrew Bulley, il suo primo mentore sui terreni spelacchiati del Lyneham tennis centre di Canberra, quel ragazzino paffuto del Redford college non ha niente di speciale neanche con la racchetta in mano. È lento - e ci mancherebbe, tracagnotto com'è - e la testa parte spesso per la tangente. Basket e XBox, quelle sono le vere passioni del piccolo wog*. Passatempi che danno sostanza al suo bisogno di miti: i Boston Celtics, il Tottenham, Kevin Garnett, Adebayor. Tutte icone che sono ancora lì, nel pantheon kyrgiossiano, assieme alla famiglia, ai cani, al sushi e ai Griffin. Il Terzo Millennio ha aggiunto solo Rihanna e Twitter. E il sesso, vabbé.
Per carità, si applica e non manca
mai un allenamento, Nick. Quando il circolo è chiuso, Nilli lo aiuta a scavalcare
la recinzione per fargli tirare due colpi, anche a costo di obbligare la
sorella a fargli da sparring. Perché il fisico non c'è, non ancora, ma
l'appoggio della famiglia è totale e incondizionato. E lui intuisce che il dono
di natura alimenta solo rimpianti e chiacchiere da bar. Per arrivare lassù ci vogliono
volontà, umiltà e ambizione. Non in questo ordine, e per fortuna non in parti
uguali. Quella stella polare lo porta, appena sfinato e sviluppato, a indossare
la canotta della rappresentativa juniores di basket dello Stato. Un amore, il
primo, breve e intenso ma che finisce a schifio. A 14 anni, dopo l'ennesimo
infortunio, Nicholas ripercorre le orme dei genitori, abbandona la patria del
cuore, la palla a spicchi, for a greater good, il tennis.
Nel giro di un paio di mesi la federazione lo
prende sotto la sua ala, gli assegna una borsa di studio, lo affida all'ex pro
Todd Larkham e lo mette su un aereo per le Figi. A Lautoka, Nick spiezza in due
tutti gli avversari, e in finale lascia 4 games all'israeliano Dekel Bar, di
due anni più grande di lui, intascando il primo titolo ITF junior. Kyrgios ha
15 anni e 2 mesi, i capelli malamente ossigenati, al collo una collanina con un
crocifisso, in camera i poster di Philippoussis, Tsonga e Federer. Sul diario
di scuola un motto nuovo nuovo: "Individua i tuoi idoli e poi
superali". Il treno è lanciato.
L'anno seguente, NK fa capolino nel
torneo junior degli Australian Open: in tabellone le primedonne sono altre - Thiem,
Vesely, Pouille - e il quindicenne Nick non va oltre il terzo turno. I
riflettori australiani tra l'altro sono tutti per Luke Saville, che nel giro di
12 mesi vince due baby Slam e sale al primo posto del ranking giovanile. Ma i
ben informati lo sanno che the next big thing è l'altro, quello meno biondo
e meno anglo, nel look e negli atteggiamenti. Il potenziale è roba seria, Kyrgios
merita fiducia e investimenti. Perciò a Larkham, che lavora sulla tecnica e
sulla tattica, si affianca Aaron Kellet, che si prende carico dei muscoli e della
testa. Un compito ingrato. Il terreno è sconnesso, il soggetto è spigoloso e bipolare:
Nick si atteggia a Lil Wayne e ha fame a giorni alterni, ogni tanto dorme col
sedere scoperto e quando c'è da lottare a volte si nasconde, altre si esalta. La
lontanza da Canberra, poi, provoca lacrime e frustrazioni, isteria e euforia.
Larkham si concentra soprattutto sui colpi di inizio gioco, perché il tennis di oggi va così e perché Nick è figlio del suo tempo. L'umore è instabile, il corpo fragile. Kyrgios colleziona problemi un po' dappertutto, al ginocchio, al gomito, alla schiena. Anche se in palestra si danna, la mobilità resta il suo tallone d'achille. E poi psicologicamente è un front runner, Nick. L'entusiasmo che mette in campo è proporzionale ai 15 di vantaggio sull'avversario. Insomma, meglio insegnargli a prendere subito in mano lo scambio, perché è lì che Kyrgios dà il meglio di sé: quando schiaffeggia col dritto, quando aggredisce le risposte come se avesse appena subito un affronto, quando frusta servizi sempre più forti da altezze sempre più mature. Il più delle volte, l'istinto basta e avanza per portare a termine lo spettacolo tra gli applausi, ma scrivere il copione diventa impossibile come fare le previsioni meteo a Melbourne. È sempre e solo Nick a decidere se piove o se c'è il sole.
Il primo assaggio del circuito pro va esattamente così: nel pomeriggio in cui Matteo Viola recupera da 5-0 40-0 e batte Lajovic dopo aver annullato 8 match point, Nick strappa il primo set al francese Rodrigues, poi si dissolve. Ha 16 anni e mezzo, una sconfitta nel primo turno delle quali di Melbourne - gli dicono - non è un dramma. Lui, ovviamente, i drammi li fa eccome, ma in quel 2012 solleva comunque un paio di coppe para-importanti, mettendo a segno la doppietta Parigi-Londra in doppio juniores. Andrew Harris, il suo partner, fa talmente bella figura accanto a Nick che John Roddick, fratello di Andy, lo mette sotto contratto per gli Oklahoma Sooners. Peccato che quello buono fosse l'altro. A Wimbledon, dove il duo Aussie si impone senza concedere set, a farne le spese in finale sono Donati e Licciardi. In singolare, invece, Kyrgios si ferma nei quarti, beccando 6-3 6-1 da Quinzi. Ventiquattro mesi mesi dopo toccherà a Nadal saggiare le sue pallate, e lo spagnolo non ne uscirà bene come GQ.
Il teenager Aussie arriva all'appuntamento con Rafa tra uno strappo e l'altro. Diciotto vittorie di fila a livello junior tra fine 2012 e inizio 2013, i primi punti ATP raggranellati nei futures giapponesi, il titolo giovanile a Melbourne in finale sull'amico Kokkinakis, il challenger di Sydney conquistato prima del diciottesimo compleanno (marchio di fabbrica di grandi del calibro di Djokovic, Nadal, Hewitt e Del Potro), giocando nella stessa domenica quattro partite - semi e finale di singolo, semi e finale di doppio - e vincendone tre. Con in tasca il primo assegno da 7mila dollari, e dopo aver scalato 500 gradini ATP in meno di due mesi, la sera stessa #NKrising vola a Pechino. Accanto a lui non c'è più Larkham, ma Simon Rea. È il coach neozelandese ad accompagnarlo negli ultimi 3 tornei Futures della vita, quando Kyrgios si aggiudica 12 partite su 14 chiudendo la parentesi ITF proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno, con un titolino in Cina e l'ingresso tra i primi 300.
Rea rimarrà al suo angolo per 18 mesi. Lo vedrà battere Stepanek al debutto a Parigi, dove Nick cancella 6 set point consecutivi nel secondo e finisce col vincere 3 tie break su 3 perché quel giorno, al Roland Garros, c'è il sole. Rea lo vedrà qualificarsi per il main draw New York e impegnare per un'oretta Ferrer, lo vedrà infiammare Melbourne Park contro Becker e Paire, lo vedrà intascare back-to-back i challenger di Savannah e Sarasota e rispettare l'obiettivo-top 200 in tempo per il diciannovesimo compleanno.
E
c'è sempre Rea nel suo angolo, quando nell'estate 2014 il greco-malese-australiano
dà un colpo di clacson al pianeta-tennis. Nick atterra a Nottingham, dove sono
in programma due challenger, da 173 ATP. La classifica è buonina, ma non basta per
entrare a Wimbledon dalla porta principale. Kyrgios è solo il settimo
australiano del lotto, ma anche i due che lo precedono - Duckworth e Groth - sono
a caccia di punti per disputare i Championships, e le Eastern Midlands diventano così la sede di una specie di play off per
la wild card Aussie. Nick si complica subito la vita: fuori fase, nel primo
torneo viene maltrattato dal suo mate
John Patrick Smith, che in patria è il numero 8 e in classifica lo tallona pure.
Per aggiudicarsi un armadietto a Wimbledon, insomma, serve un mezzo miracolo. Quello che Nick confeziona nel secondo challenger. La rincorsa comincia dalle quali, poi
in tabellone NK recupera un set di ritardo a Bemelmans, poi liquida Edmund, quindi la spunta 7-6 al terzo contro Krajinovic e in semi supera facilmente Mecir jr. La
finale contro Groth è uno spareggio per l'All England: dopo due tie break e uno
stop per la pioggia, Kyrgios intasca il terzo titolo challenger dell'anno. Poi,
prima della cerimonia e dei ringraziamenti, arriva il premio più atteso, la
chiamata di Andrew Jarrett, capo degli arbitri di Wimbledon. La wild card è sua.
Sui prati di Londra, Kyrgios fa
fuori Robert, poi annulla 9 match point a Gasquet e vola al terzo turno facendo
meno punti del francese. Prima di sbarazzarsi di Vesely, la promessa Aussie è
ospite di Mats Wilander e Annabel Croft su Eurosport: una decina di minuti di
ovvietà sbiascicate, mai uno sguardo dritto in camera. La risposta più lunga
dura 22 secondi ed è infarcita da dieci "You
know...". Il primo luglio, però, la parola torna al campo. Ci sono gli
ottavi, c'è il Centre Court, sugli spalti 8 Fanatics, al suo angolo Hali, George,
Aaron, Simon e la fisio Anne-Marie, dall'altra parte della rete il numero uno
del mondo, Rafa Nadal. Si comincia alle 4.10 del pomeriggio con un ace di Nick,
si finisce 2 ore e 59 minuti dopo con un altro ace di Nick.
In mezzo altri 35 ace, 70 vincenti e una specie
di tweener al contrario, sul 3-3 nel secondo set, che racconta Kyrgios molto meglio
di questi ventimila caratteri. Grado di difficoltà cento, dose di fortuna oltre
la soglia di sopportazione. Un altro si sarebbe scusato, per quella demi volée
da fondo campo in mezzo alle gambe. Stai pur sempre giocando contro Nadal nel
tempio del tennis, non è che puoi bullarti per un punto da cineteca che è
fondamentalmente un colpo di culo, e poi pure esultargli in faccia. Tu non ti
fai ancora la barba, quello è Rafa, se la lega al dito ti manda a casa a
piangere da mamma. Un altro avrebbe pensato così, Nick no. Nick non solo non ci
pensa proprio a chiedere scusa. No, lui allarga le braccia per invitare l'applauso,
per accogliere l'ovazione, per far sapere al mondo che lui è un fottutissimo genio,
che quei colpi ce li ha nel sangue, per indicare ai fedeli le dimensioni del
suo ego. "Preferite lui o me?". Fino al 30 giugno 2014 Nick è un
prospetto, dal primo luglio è un personaggio che entra
nel circuito a piedi uniti. E dettando pure le condizioni. "Io sono
questo. Se non vi sto bene, peggio per voi". Perché il mondo di Kyrgios non
conosce sfumature di grigio. O sei un lover
o sei un hater.