Day 1 (Sudafrica)
(bozze di appunti appuntati via cellulare)
1. Restare appiedati a tarda sera in una stradina di una shanty town di Johannesburg proprio mentre il tizio alla guida ha completato la frase "....capito che gente dodgy abita qui? Altro che Soweto". Ecco.
2. I rituali sono importanti. Metti le tre P del Lesotho, per esempio. Che non sono né la patata, né la palestra, né la partita. Ma pace, pioggia e prosperità. Le strette di mano non valgono se non accompagnate dal ritornello "Khotso, pula, nala". E il suono kh te lo raccomando. O metti i saluti degli autotrasportatori sudafricani che scaricano i propri figli davanti a scuola. Non sono mica terminati senza il coretto: "Give your best..." >>> "And God will do the rest!". Amen. E poi le parole, i billboards. A Maseru il benvenuto te lo dà un cartellone con l'immagine di un tizio col passamontagna nero davanti a Cheope, Chefren e Micerino. Vorrebbe mettere in guardia dalle truffe dei sistemi a piramide, l'effetto è quello di una pubblicità progresso dell'Isis. Finora il mio preferito è però il motto dell'asso-tassinari di Roma. Dice "Arrive Alive". Thanks to the dick.
3. Come regalo ho estorto un adattatore iperuniversale che pesa come la biografia di Mandela e apre le porte delle prese della corrente in 14.000 Stati. Solo che quelle sudafricane so' diverse. E quelle del Lesotho pure.
4. Il caldo, il freddo, le bufere, le mosche, le zanzare, i bushpig, i gechi, gli attacchi di panico, gli incendi, i terremoti, le Uaz, le leonesse, i topi del deserto, gli ippopotami, i boscimani, le coreane. Mai stato a corto di motivi per non dormire, in viaggio. Ma il ratto che mi sveglia due volte, mi fotte i biscotti della colazione e poi piscia e caca sugli effetti personali, mi mancava. A Semokong e' successo.
4. Un gioco delle tre carte per una sosta a Roma, quasi-cittadina universitaria del Lesotho, era obbligatorio. Che ne avrei ricavato poco era scontato. Ma perché (4a.) neanche il personale accademico sa dare informazioni, notizie, un quarcheccosa, insomma? Esistono libri sulla storia di 'sto posto? Che ci faccio con l'opuscolo rosa della National University of Lesotho (NUL, perché il marketing è tutto) che parla dell'Institute of extra Mural studies - non Rural, proprio Mural - e per toglierti il dubbio che ci fosse un refuso raffigura muratori all'opera? Perché nessuno (4b.) fa mente locale sul fatto che si chiamano come 'a Capitale, perché 'a Capitale si chiama proprio Roma e non Rome? Soprattutto (4c.) perché nessuno gira con la maglietta di Totti, cosa che mi avrebbe assicurato un'apertura su Leggo o una breve sulla Gazzetta?
5. A proposito, quante chance avevo di beccare un passaggio in auto da Semonkong a Maseru da una famiglia di geologi di via Ardeatina?
6. La biografia autorizzata di Mandela è una palla.
Day 2-3 (Lesotho)
I went to Lesotho for 3 reasons. First, because it gained independence from the UK 55 years ago, on October 4 1966. Visiting a sovereign State is not about ticking a box, it's a matter of understanding why people are bond to their distinctive tradition and culture, why they believe their national identity deserves to be internationally recognised and are ready to fight for it.
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Then because of my first encounter with the Basotho people. It was last century's last night, I celebrated new year's eve in Rome and I was about to sleep way too little before running the Millennium Marathon on Jan 1, 2000. Outside St Peter's Basilica I saw them: it was cold, 20 or so Basotho were warming up by wagging their heads under coned-shaped hats called mokorotlo, the symbol appearing on the national flag. It was hilarious, but I didn't have a camera. I told myself one day I would have made up for the opportunity, except I didn't even know where Lesotho was.
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I knew it by the time I flew to Jo'burg the second time: Lesotho is a state the size of Belgium surrounded by South Africa and it's one of the 3 enclaved countries in the world, the others being the Vatican and San Marino.
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Speaking of mokorotlo, the third reason is all about names. The land was first ruled by king Moshoeshoe, who established the capital in a place called Butha-Buthe in the Drakensberg mountains, and who was helped by Christian missionaries in securing his kingdom's independence. One of the missionaries was a Frenchman, Joseph Gérard, who founded a town he called ROMA. It goes without saying there were reasons enough for me to go.
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Which I did, although Roma is a rather unappealing centre with a basic University called NUL (one of the courses was 'extra mural studies' and it was about how to be a carpenter) and in town none connects Roma to Rome. For them Italy's Rome is called Rome while Roma - the only Roma they know - is Lesotho's Roma.
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That day I moved on to Semonkong - the place of the smoke - a few hours trek away from the Maletsunyane falls. Amazingly enough, on my way back to the capital Maseru I hitched a ride and I was picked up by a Roman family. True Romans from Rome, I mean.
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Then because of my first encounter with the Basotho people. It was last century's last night, I celebrated new year's eve in Rome and I was about to sleep way too little before running the Millennium Marathon on Jan 1, 2000. Outside St Peter's Basilica I saw them: it was cold, 20 or so Basotho were warming up by wagging their heads under coned-shaped hats called mokorotlo, the symbol appearing on the national flag. It was hilarious, but I didn't have a camera. I told myself one day I would have made up for the opportunity, except I didn't even know where Lesotho was.
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I knew it by the time I flew to Jo'burg the second time: Lesotho is a state the size of Belgium surrounded by South Africa and it's one of the 3 enclaved countries in the world, the others being the Vatican and San Marino.
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Speaking of mokorotlo, the third reason is all about names. The land was first ruled by king Moshoeshoe, who established the capital in a place called Butha-Buthe in the Drakensberg mountains, and who was helped by Christian missionaries in securing his kingdom's independence. One of the missionaries was a Frenchman, Joseph Gérard, who founded a town he called ROMA. It goes without saying there were reasons enough for me to go.
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Which I did, although Roma is a rather unappealing centre with a basic University called NUL (one of the courses was 'extra mural studies' and it was about how to be a carpenter) and in town none connects Roma to Rome. For them Italy's Rome is called Rome while Roma - the only Roma they know - is Lesotho's Roma.
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That day I moved on to Semonkong - the place of the smoke - a few hours trek away from the Maletsunyane falls. Amazingly enough, on my way back to the capital Maseru I hitched a ride and I was picked up by a Roman family. True Romans from Rome, I mean.
Day 13 (frontiera Sudafrica-Zimbabwe)
"Non scrivere che fai il giornalista", mi sussurra Japhet, mentre il camion che sta guidando attraversa il ponte sul Limpopo. Il secondo fiume africano tra quelli che si tuffano nell'oceano Indiano è ridotto ai minimi termini, dopo 4 anni di siccità. In compenso la temperatura è precipitata, il cielo è color tortora e minaccia un acquazzone fuori stagione.
"Studente?"
"C'è poco da ridere, credimi".
L'autotrasportatore shona di lingua ed etnia, nato a Salisbury - Rhodesia - e ora residente a Harare - Zimbabwe - che poi sono la stessa cosa con 36 anni di casini in più, si fa serio.
"Ho visto gente lasciata fuori per un mezzo commento su Mugabe".
"In genere me la cavo con 'sport commentator'. Suona meno reporter d'assalto e poi fa l'effetto di un Sironi".
"Evita"
"Ha funzionato pure in Corea del Nord..."
"Qui è meglio di no, fidati"
"Employee?"
"Troppo vago".
"Public servant?"
"Ambiguo".
Eccheccazzo.
Ormai siamo allo sportello, dall'altra parte mi aspetta un omone con un maglione grigio a coste e un buco sulla spalla grosso come una pallina da ping pong.
Mentre allungo il passaporto, la luce se ne va.
In teoria guadagno tempo, in pratica non mi viene niente.
Del plumber non ho le mani, del carpenter la struttura, del businessman niente di niente. Anche perché la maglietta celeste è al quinto giorno di fila. Mentre il generatore riparte, scarabocchio handy man. Tutto e niente. Io, poi, che per avvitare una lampadina ho bisogno delle istruzioni.
'na cazzata in pompa magna, insomma.
"Non ridere".
Stavolta è l'omone dall'altra parte del vetro. Devo assumere l'espressione della fototessera.
"Australiano?"
"Sì ma nato in Italia..."
"Handy man?"
Forse gli serve un interprete per lo scarabocchio, ma io e la mia coda di paglia la prendiamo come una richiesta di chiarimenti.
"Sì..." in quel momento mi passa accanto una signora con un bambino legato alla schiena e un parapioggia giallo in mano.
"Riparo ombrelli".
"..."
"E affilo coltelli".
Donne dello Zimbabwe, è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio.
Ormai è tardi. Sto di nuovo a ride'.
Penso a cose tristi, evito di guardargli il buco sul maglione.
"Ce li hai 20 dollari nuovi? Questa banconota è vecchia".
Pure questa è fatta.
"Ah, per favore può stampare a pagina 12?"
Day 18
Lo ammetto, attorno al viaggio sviluppo anche una serie di passioni che qualche volta degenerano in ossessioni e perversioni. Una di queste riguarda la mia collezione di banconote. Il fatto che ogni Paese decida di rappresentare la propria unicita' attraverso volti e simboli del suo passato mi sembra di per se' un aspetto che merita un approfondimento. Mi intriga la scelta dei colori, del taglio (come le banconote da mezza unita' di misura), della grandezza (i 10mila Lei rumeni che non stavano neanche in due portafogli) e tutto il resto. Il fatto che dietro il nome stesso delle valute si celino dei significati reconditi, per esempio. Quella del Botswana si chiama pula, cioe' pioggia - del resto da quelle parti non c'e' nulla che valga piu' dell'acqua. E soprattutto le immagini, estremamente dipendenti dal momento storico che vive un Paese. In Sudafrica il rand - anch'esso un nome olandese che richiama ai corsi d'acqua - ha raffigurato nel giro di pochi anni prima Jan van Riebeeck, padre fondatore della nazione bianca degli Afrikaans, poi un rinoceronte e infine Nelson Mandela, conservando lo stesso colore di base.
Tutto cio' sarebbe pure divertente, istrittuvio e arricchente se la potessi condividere con qualcuno interessato. Invece o non trovo nessuno interessato o non trovo il modo di condividere i quattro faldoni con un paio di banconote. E al massimo si finisce per sfiorare l'argomento quando qualche malcapitato casca nella rete e abbozza un 'Ma e' vero che in Zimbabwe ci sono banconote da 1 trilione di dollari?'. Si', e' vero e te lo posso dimostrare e mostrare. Senza contare il fatto che spesso sono state scelte con cura tra i resti del primo pasto e sono state protette nei libri e salvate nonostante in quel Paese abbia fatto la fame. In Irlanda del Nord la banconota che conservai nel '97 valeva molto di piu' di quanto spesi per stare li' un paio di giorni.
Oltre alle banconote, tra le passioni/ossessioni c'e' poi quella la missione sociale, umana, economico-culturale di distribuire capi di abbigliamenti e utensili a chi ne ha bisogno. C'e' anche quella di leggere quanto meno un mattonazzo sulla storia della nazione che mi ospita. E c'e' quella di rimediare le bandierine in tessuto (anche se non ho ancora deciso quale sara' il loro destino, visto che sono troppe per essere cucite su uno zaino). E - a proposito di bandierine - c'e' la questione di riempire la mappa del mondo.
Colin Thubron l'ha semplificata cosi', spiegando che si viaggia per quel motivo. Secondo me questa pulsione richiederebbe un'analisi psicologica molto piu' profonda. E la richiederebbe anche secondo buona parte di quelli che incontro, anche se non me lo dicono chiaramente. O meglio... un po' come l'appassionato di cinema e di lettura, che giustifica la dimensione totalizzante della sua passione nella misura in cui e' capace di trascinarti nei suoi risvolti e rendertela se non altro accettabile e affascinante, cosi' io mi ritrovo a spiegare alle persone che incontro in viaggio perche' lo faccio.
Disperato ragazzo che non sono altro.
Ora, a parte il fatto che si trova sempre chi e' sazio al primo boccone della storia e chi invece vuole assaggiarla tutta, un tratto comune riguarda il rapporto tra me e i posti in cui sono stato e in cui non sono ancora stato e voglio andare. C'e' chi stupisce che non torni in continuazione negli stessi (cosa abbastanza imprecisa, anzi se posso torno sul sul luogo del delitto 10 o 20 anni dopo - per tracciare una linea tra i due punti e cercare di capire nel frattempo come sono cambiato io, com'e' cambiato il posto, e com'e' cambiata la mia percezione del posto) e chi invece si stupisce del contrario, cioe' del perche' voglia rivedere posti in cui sono gia' stato.
Raramente come in questo viaggio mi e' capitato si sentirmi dire la seconda cosa, solo perche' 14 anni fa sono gia' stato a Johannesburg e alle cascate Victoria e 15 anni fa sono gia' stato a dar es Salaam e a Zanzibar. Insomma, perche' mezza vita fa ho gia' messo piede in Sudafrica, Zambia e Tanzania. In genere mi accusano di piantare bandierine. Stavolta di aver immotivatamente voluto tornare in posti che ho gia' conosciuto. Chi vi capisce e' bravo.
Day 22 (Zambia)
Due ore di sonno, tredici di viaggio, l'incontro con ragazzini che vendono spiedini di topo e stasera si dorme qui, di fronte al South Luangwa National Park.
Compatibilmente con l'ippopotamo che sta brucando attorno alla mia tenda.
Day 29 (Malawi)
"Dati ufficiali non ne abbiamo, ma a naso più del 30% di chi vive in zona ha l'AIDS. Di positivo c'è che le informazioni ormai hanno raggiunto tutti i villaggi, anche i più isolati. Oggi qualsiasi donna sa che se rimane incinta deve sottoporsi al test dell'HIV e che - anche in caso di sieropositività - con i trattamenti del caso non trasferirà la malattia al feto e che lei stessa ha ottime chance di vivere a lungo e in discreta salute. Di negativo c'è che gli uomini che vengono a farsi esaminare il sangue, sono ancora pochini".
L'infermiera si ferma e mi guarda. Rachel ha occhi enormi, pare un tarsio, ed è circondata da un alone blu, come il tendone dell'Unicef sotto il quale opera nel centro di Mzuzu, capoluogo della regione di Mzimba, Malawi centro-settentrionale, per la precisione. La zona.
Veramente io volevo solo ficcare il naso, carpire due cose, scattare tre foto.
"E tu lo hai mai fatto il test?".
Eccolalla'.
"Io?...n-n-no"
"E perché?"
"Beh in primis perché ho avuto una vita sessuale abbastanza... limitata. Per non dire noiosa. Ecco".
"E le tue compagne?"
"Più piatte di me. Quasi tutte. Anzi diciamo la metà".
"E l'altra metà?"
"Son state quattro, mica quaranta"
"Troppe. Non puoi esserne certo"
"Bah, ti assicuro che siamo sulla soglia della santità. E poi non frequento ospedali, non ricordo trasfusioni di sangue o cose del genere".
Non l'ho convinta neanche un po'. Gioco il jolly.
"In realtà a pensarci bene il governo australiano ha provveduto per conto mio. Sei anni fa il test l'hanno fatto loro ed è risultato negativo".
"Sei anni fa?".
Rachel sospira, ridacchia, guarda la collega, poi torna dal mzungu. Che sarei io.
"Hai paura?"
"..."
"...!"
"Fino ad un attimo fa no".
Ed è lì, sulla soglia della tenda blu, che il mzungu, l'avventuriero, il bianco, il colonizzatore, finisce con tutte le scarpe nella testa dei tanti milioni di africani - soprattutto uomini - che nel dubbio preferiscono non sapere. Perché ignorance is bliss, perché scoprire di avere l'AIDS significa autocondannarsi a non avere figli, a non poterne dare alla propria compagna o peggio ancora a fregarsene delle possibili conseguenze.
"L'autobus parte tra poco. Quanto dovrei aspettare?".
"Cinque minuti. Massimo"
I minuti di attesa sono sì e no tre. Interminabili, ma tre.
La prestazione è stata rivedibile, ma nell'occasione era importante portare a casa il risultato. Negativo, anche se non ho mica visto la confezione dalla quale hanno preso l'ago, Rachel e l'amica sua. Per cui vai a capi' se mi sono dato la zappa sui piedi e me lo sono preso sotto la tenda blu dell'Unicef.
Intanto però con questo qui di Mzuzu i passaporti sono tre. E Rachel non me l'ha fatto neanche pagare.
Quando in Uganda incroci una bottiglie di VAT69 ed e' piu' forte di te...