Negli anni a ridosso del nuovo millennio, il Nepal era un giovanotto malmesso e problematico. Con un PIL pro capite di 208 dollari americani, dipendente per il 40% dal settore agricolo, e con un tasso di crescita appena percettibile, il Paese stagnava in fondo alle graduatorie mondiali sul benessere e la qualita' della vita. Ogni persona che aveva la ventura di nascere all'interno dei suoi confini era condannato a campare con 57 centesimi al giorno. Ma a giudicare dall'ordine pubblico, il conto in banca era uno dei suoi ultimi problemi. Sul piano politico, il giovanotto himalayano era per lo meno turbolento. La rivoluzione del '90 aveva portato la monarchia assoluta a convivere con un Parlamento e una Costituzione. Il Nepal era passato dal sistema piramidale del Panchayat - nel quale tutto il potere decisionale finiva nelle mani del re - ad uno multipartitico, nel quale spiccavano le formazioni di ispirazione marxista-leninista. Come se il Paese avesse ripassato il bignami della storia occidentale e avesse condensato due secoli di storia in un decennio. Il Partito Comunista Nepalese, nato proprio in quel 1990, dopo quattro anni si era spaccato, dando vita ad un pupo battagliero con la curiosa pretesa di mettere a ferro e fuoco lo Stato senza abbandonare le velleita' di guidarlo. I Maoisti, nati dalla scissione coi Comunisti, nel febbraio del '96 avevano dichiarato guerra alle istituzioni a colpi di attentati, massacri ed esecuzioni sommarie che nel decennio successivo sarebbero costati la vita a 17mila persone. Quando atterrai in Nepal, la guerriglia maoista per rovesciare la monarchia era arrivata al giro di boa.
Nonostante le purghe, i rapimenti e gli attentati dei cugini maoisti, il Partito Comunista continuava a riscuotere consensi da parte della maggioranza rumorosa dei nepalesi. Non solo, fino al maggio del 1999 aveva avuto in mano la maggioranza dei seggi in Parlamento. Poi le ultime elezioni per il rinnovo dell'assemblea, le avevano perse. Al fotofinish.
"Sono state falsate", mi disse senza ombra di dubbio l'uomo al quale chiesi perche' tanta gente fosse scesa in strada per protestare. A capo del governo era stato nominato Krishna Prasad Bhattarai, un mammasantissima della politica nazionale, un 75enne in un Paese con un'aspettativa media di vita di 50 anni, una figura di riferimento della coalizione anti-comunista, il partito che aveva vinto le elezioni. La consultazione si era tenuta tra il 3 e il 17 maggio '99, lo spoglio delle schede era durato tre giorni e aveva sancito il successo del Partito del Congresso, che si era garantito la maggioranza assoluta in Parlamento - 111 seggi su 205 - mentre i Comunisti erano scesi da 88 a 71 deputati e si erano seduti sui banchi dell'opposizione.
Passati alla lente d'ingrandimento, i numeri raccontavano un'elezione serrata. Nel distretto di Ilan-1, per esempio, il candidato del Congresso aveva superato quello dei Comunisti per 106 preferenze, in quello di Baglung per 42, in quello di Saptari per appena 27 voti, mentre in quello Jhapa-4, il signor Chakra Prakash Bastola - candidato del Congresso - aveva staccato il Comunista Yukta Prasat Vetwal per 25 voti. D'altra parte, in almeno mezza dozzina di casi erano stati i candidati marxisti ad assicurarsi il seggio in Parlamento per un nonnulla: nel distretto di Nuwakot, il comunista Lohani aveva prevalso sul suo omonimo Lohani del partito democratico nazionale (che a dispetto del nome era una formazione monarchica e nazionalista hindu) per la miseria di 15 voti sui 68,300 scrutinati. Quei margini risicati avevano lasciato a tanti nepalesi la certezza che l'esito delle elezioni fosse stato pilotato.
"Da chi?", chiesi all'uomo della strada.
"Dall'India", mi rispose. Di nuovo, senza battere ciglio.
La piu' grande democrazia del mondo era circondata da vicini piuttosto scapestrati - Pakistan, Bangladesh e Nepal. Abbastanza poveri da essere eteroguidati, quanto meno sul piano economico, se non corruttibili. A prescindere dalle opinioni da bar, era ovvio che a livello regionale Delhi tirasse le fila dei vicini, soprattutto quando la loro riottosita' rischiava di contagiare il subcontinente e quando la loro debolezza economica e politica li rendeva piu' facilmente manipolabili. Quanto fosse vera e profonda l'ingerenza indiana sulla vita politica nepalese, non lo so. So solo che per l'uomo della strada, Delhi rappresentava il Deus ex machina. E tanto bastava per mandargli in uggia sia il governo di Kathamandu sia quello di Delhi. "Appena eletto, il nuovo esecutivo ha varato una legge che impone la rottamazione dei veicoli immatricolati da piu' di 20 anni. E sai chi ne beneficera'?", mi disse l'uomo.
"L'India", risposi io.
"L'India", confermo' lui.
In Italia una legge simile era passata un paio di anni prima. Tra il '97 e il '98 il governo Prodi aveva varato una norma che prevedeva un incentivo in denaro - un milione e mezzo di lire - per rottamare le autovetture con almeno 10 anni di vita. Il pacchetto di aiuti aveva generato una crescita delle immatricolazioni del 39%, un gettito aggiuntivo per l'erario di 1,400 miliardi di lire e una crescita del PIL calcolata dalla Banca d'Italia in 0.4 punti percentuali. Ma un conto era l'Italia di fine anni Novanta, quella pre euro, profumata di ottimismo berlusconiano, un altro era il Nepal, dove quasi tutti i veicoli avevano compiuto una ventina di giri attorno al sole e dove ogni essere umano si doveva tenere a galla con due dime al giorno. Obbligare quei pochi che avevano un'auto a rottamarla, significava condannarli a restare a piedi. Chi poteva permettersi di cestinare la vettura, ovvero le aziende che operavano del settore del trasporto pubblico e in quello pesante, erano di fatto obbligate a sostituire il vecchio catorcio con l'unica alternativa disponibile a buon mercato: i mezzi della prodotti dalla Tata. Nel giro di 10 anni, l'azienda automobilistica di Mumbai si sarebbe presa la Daewoo, la Jaguar e la Land Rover, il Ritz Carlton di Boston, le acciaierie olandesi Hoogovens e il te' inglese Tetley.
Secondo l'uomo della strada nepalese, la scalata era cominciata anche grazie a manovre politiche di quel tipo.
Non avevo gli strumenti per capire se il neo governo nepalese fosse davvero un burattino nelle mani indiane, se le leggi presuntamente pro India fossero parte di un accordo-quadro per garantirsi la benevolenza e l'appoggio di Delhi, o se semplicemente l'esecutivo avesse varato in piena autonomia norme che nella vulgata erano diventate la prova della sudditanza verso l'India. Il punto e' che molti nepalesi erano convinti che il nuovo governo avesse vinto le elezioni grazie ai brogli orchestrati dal potente vicino in cambio di un patto di vassallaggio. Una certezza che si tradusse in un ulteriore strato di tensione che fu spalmato sulla gia' traballante impalcatura sociale e politica su cui si reggeva il Nepal e che si aggiungeva alla People's War dei Maoisti.
Per farla crollare del tutto, basto' una frase sconsiderata attribuita ad un attore.
Piu' della Tata e piu' di qualsiasi altro prodotto, l'India era, e', e probabilmente sara' sempre la potenza egemone della regione dal punto di vista culturale. Il miliardo e mezzo di persone che abitava quell'area geografica all'inizio del nuovo millennio era estremamente frammentato dal punto di vista etnico. Le religioni professate erano una decina, le lingue parlate oltre una trentina. I costumi, dall'abbigliamento alla cucina, erano i piu' disparati. A parte il cricket, era difficile trovare qualcosa che mettesse tutti d'accordo. L'unico filo che teneva insieme gli abitanti di Quetta a quelli di Chittagong, quelli di Leh a quelli di Colombo, era l'adorazione per il cinema indiano. Bombay, dove gia' nel 1896 si proiettavano i film dei fratelli Lumiere, era diventata la culla dei primi cineasti indiani. Dodici anni prima della corazzata Potemkin di Eijzenstejn e 22 anni prima di Tempi Moderni di Chaplin, un certo Dundiraj Govind Phalke, in arte Dadasaheb, aveva realizzato un film muto di 40 minuti dal titolo Raja Harishchandra. Era il 1913, l'anno zero dell'industria cinematografica indiana, che poi si era espansa ad un ritmo vertiginoso: le pellicole prodotte nel 1927 erano state 108, nel solo 1931 erano salite a 328. In quegli anni erano stati assoldati persino registi e attori stranieri (alcuni anche italiani, come Eugenio de Liguoro) e le pellicole cominciarono adessere farcite con mucchi di canzoni. In un film del '32, di brani ce n'erano addirittura 69. Per indicare un'industria dinamica e feconda, capace di inglobare maestranze estere sfornando prodotti sempre piu' tipici, gia' negli anni Trenta del Novecento venne coniata la definizione di Bollywood. Cresciuto fino ad essere un baraccone con un giro d'affari da quasi 4 miliardi di dollari l'anno.
Nel dicembre del 2000, quando nel subcontinente la TV era un elettrodomestico ancora relativamente poco diffuso, internet era un lusso e il mondo non conosceva ancora smartphone e tablet, andare al cinema costituiva ancora il primo passatempo settimanale per centinaia di milioni di persone. Tra le mille pellicole prodotte in India ogni anno c'era l'imbarazzo della scelta, ma solo una selezione di quelle di sicuro successo varcava i confini settentrionali e approdava in Nepal. In estate, tra gli altri, era stato il turno di Kaho Naa...Pyaar Hai, una pellicola che al botteghino aveva incassato quasi 18 milioni di dollari e che aveva conquistato 92 premi (cui si sarebbe aggiunto il 93mo riconoscimento, ovvero il premio come film di Bollywood piu' premiato di sempre). Prodotto e diretto da Rakesh Roshan, il lungometraggio aveva segnato anche il debutto sul grande schermo del figlio di Rakesh, il 26enne Hrithik Roshan. Che per la precisione nel film svolgeva due ruoli diversi e che per entrambi era stato acclamato come la nuova stella di Bollywood. Figlio d'arte, belloccio, gli occhi color ambra, piazzato, ricco e tremendamente famoso, Hrithik Roshan era diventato il primo attore a conquistare sia il premio come miglior attore protagonista sia quello come miglior esordiente agli annuali Filmfare Awards, gli Oscar del Times of India che premiano anche the best villain, il miglior cattivo della pellicola. Perche' nelle storie indiane c'e' sempre un cattivo che alla fine le prende. La stampa nazionale lo aveva battezzato Millennial Superstar e aveva parlato di Hrithik mania.
Sull'onda lunga del successo di Khao Naa..., nello stesso anno Hrithik era stato assoldato per altri due lungometraggi: Fiza e Mission Kashmir. Curiosamente, in entrambi interpretava la parte del terrorista. Fiza era ancora in fase di lavorazione quando era uscito Khao Naa: di fronte alla popolarita' di Roshan, il regista di Fiza aveva deciso di aggiungere all'ultimo momento grappoli di scene a caso - tipo lui che si allena in palestra - e di allungare il brodo con qualche brano, pur di mettere in risalto la sua presenza nel cast.
Al contrario, Mission Kashmir, costruito alla meno peggio attorno al dramma della guerra, era stato girato a Srinagar prima dell'uscita di Khao Naa... proprio per evitare che gli abitanti delle zone contese riconoscessero Hrithik. La pellicola, che si sarebbe aggiudicata il Filmfare award come miglior action movie del 2000 e che sarebbe diventato il terzo film per incassi in quella stagione, era stata presentato al Festival di Stoccolma per poi essere proiettata in India il 27 ottobre dello stesso anno. La Hrithik mania era pronta a strabordare nel subcontinente. Peccato che la sua fama sarebbe esplosa per i motivi sbagliati. E che l'attore sarebbe diventato protagonista di un pezzo di storia piu' grande di lui.
Dopo tre viaggi in Nordamerica, tre in Nordafrica, due in Centro America e un paio in Medio oriente, a 24 anni avevo messo piede in Asia per la prima volta. L'impatto col continente piu' grande, popoloso e variegato era stato morbido, anche se il Nepal aveva subito mostrato i suoi tanti volti. I mendicanti e gli storpi, le discariche e gli edifici pericolanti, il traffico e lo smog, i canali di scolo colmi di liquami fetidi e i gomitoli di cavi sui quali si arrampicavano i macachi raccontavano una faccia della medaglia. L'altra, riempiva gli occhi con la morbida armonia dello stupa di Boudahnath, l'imperiosita' ruvida dei templi di Pashupatinath, le geometrie pulite degli edifici di Durbar square e di Patan, la maestosita' delle montagne piu' alte della Terra. Gli odori, i colori, i suoni e le immagini erano di un'intensita' rara, si mescolavano e penetravano a fondo, in qualche caso assestando un pugno alla bocca dello stomaco. Dappertutto risuonava l'om mane padme hum, il mantra piu' celebre tra quelli del buddhismo tibetano. Una sequenza di note e di sillabe capace di infondere calma, ma anche di inquietare. A seconda del contesto nel quale echeggiava.
Il tempio di Dakshinkali era circondato da centinaia di persone in coda con i loro animali da sacrificare. Due volte alla settimana, i fedeli trascinavano al guinzaglio le loro pecore, le loro capre e le loro galline (e in qualche caso persino i loro maiali e i loro bufali), prima di affidare le bestiole ad alcuni uomini che con un coltello recidevano l'esofago o la trachea. Mentre la testa veniva giu', gli animali continuavano a dimensarsi, continuando a vagare decapitati per una manciata di secondi, riempiendo l'aria e il terreno di un sangue denso che zampillava dal collo tagliato. Sul selciato, alla lunga, si creavano tre dita di intruglio vermiglio, il cui odore aspro riempiva l'aria gia' zeppa di incenso mescolato al profumo di gelsomino e di calendule, di fiori di loto e di ibisco. Una volta esaurita la carica inerziale degli spasmi post mortem, venivano scuoiati e le loro carcasse venivano restituite ai legittimi proprietari, che li offrivano alla dea Kali.
Il Nepal aveva la capacita' di darti una carezza con una mano e uno schiaffo con l'altra.
Ringraziai il fatto di non essere da solo, e probabilmente lo pensarono anche gli altri membri del gruppo. Appena atterrati all'aeroporto di Kathmandu, uno dei componenti aveva fissato a lungo il modulo da compilare per richiedere il visto, dopodiche' aveva preso in mano il foglietto e mi aveva chiesto: "Ma davvero vogliono che gli dia il numero della mia VISA?". Arrivati in albergo, poi, eravamo stati accolti da due concierge che ci avevano offerto un vassoio carico di bicchieri pieni di bevande sgargianti. Pensando al succo arancione di qualche frutto locale - gli alberi nepalesi producevano arance e mandarini, albicocche e papaye - avevo chiesto all'inserviente cosa fosse. La ragazza ci aveva pensato su qualche istante, si era guardata attorno, poi mi aveva lanciato uno sguardo perplesso e aveva replicato: "Do you know Orangina?". Il trattamento era in linea col grado di indipendenza e di autonomia dei membri della comitiva. Beginners.
Guardai il lato positivo della vicenda: oltre alla certezza di dormire su un letto senza doverlo condividere con il nonno di qualcuno, potevo godermi la pappa pronta, che comprendeva anche l'organizzazione di trekking e safari. Cioe' di attivita' che da soli richiedono tanto tempo e altrettanto denaro. Il programma prevedeva una visita del Chitwan, un parco nazionale istituito nel '73 ed inserito nell'84 tra i Patrimoni dell'Umanita', che in una superficie appena piu' grande della provincia di Pistoia ospitava un'ottantina di specie di mammiferi, tra i quali elefanti asiatici, rinoceronti indiani, orsi labiati, pantere nere, leopardi e tigri. Eravamo partiti all'alba, quando la nebbia era talmente bassa e fitta che non si vedeva la punta dei piedi, e dopo aver attraversato il fiume Rapti avevamo proseguito in groppa ad alcuni elefanti. Un'esperienza da non ripetere per il trattamento che di base gli addestratori riservano ai pachidermi pur di piegarli alle esigenze dell'industria turistica. Ma nello specifico anche l'unico modo per addentrarsi nella giungla con la ragionevole speranza di uscirne vivi.
Nel pomeriggio ci eravamo appena sistemati in piccoli bungalow immersi nel parco quando mi accorsi che uno dei componenti del gruppo mancava all'appello. Fabrizio, un marcantonio marchigiano con il quale dividevo la stanza, si era allontanato per fare una passeggiata e non aveva fatto ritorno. Cominciai a battere l'area attorno alle strutture di legno, disegnando cerchi sempre piu' ampi, finche' mi resi conto che allontanarmi a mia volta dai bungalow non era un'idea particolarmente brillante. La giornata volgeva al termine, il sole era sceso sotto la linea dell'orizzonte, il cielo era ceruleo e la luce penetrava a stento tra la vegetazione. Il terreno era brullo, per cui camminare e muoversi risultava agevole. Ma se valeva per gli esseri umani, valeva doppiamente per gli animali. E nel Chitwan di animali ce n'erano parecchi, comprese un centinaio di tigri. Tornai indietro e lanciai l'allarme: Fabrizio non si vedeva, non si sentiva e non rispondeva ai richiami. Partimmo in gruppo, stavolta accompagnati da due rangers, che se non altro rappresentavano la garanzia che avremmo ritrovato la strada dell'accampamento. In realta', muovendoci a raggera, ad ogni passo non solo ci allontanavamo dai bungalow, ma anche dagli altri componenti della spedizione. Dopo pochi minuti mi ritrovai nuovamente da solo e - senza una torcia a disposizione - persi l'orientamento. Ormai era buio. Sentii un fruscio, poi un ramo che si spezzava, poi il mio sudore che gelava lungo la schiena. Mi bloccai. Proseguire non aveva senso: in quelle condizioni era impossibile trovare Fabrizio, e ad ogni passo sarebbe stato piu' improbabile riuscire a tornare indietro. Nella migliore delle ipotesi mi sarei perso, nella peggiore amen. Ruotai attorno a me stesso finche' non vidi una luce artificiale. Urlai a chiunque passasse da quelle parti di fermarsi e di aspettarmi. Quando raggiunsi il tedoforo, decidemmo di abbandonare le ricerche e tornare al campo base. Dove nel frattempo, per miracolo, si era materializzato anche Fabrizio Risaliti da Osimo. Che il cielo lo fulmini.
A Fabrizio la feci pagare cosi' |
Poon Hill, l'alba del primo gennaio 2001 |
Poon Hill e' una terrazza naturale circondata da vette impressionanti, la piu' imponente delle quali e' il Dhaulagiri, che con i suoi 8167 metri e' la settima montagna piu' alta del pianeta. I picchi piu' vicini e che sovrastano la visuale con la loro magnificenza sono quelli dell'Annapurna - il primo ottomila scalato dall'uomo - e proprio per questo uno dei piu' popolari, battuti e letali del mondo, costato la vita a 72 delle 457 persone che hanno puntato la cima. Il nostro obiettivo non era quello, ma molto piu' banalmente una doccia calda. Scendemmo pertanto a valle, cercando di non ruzzolare lungo la scalinata scavata nella roccia e nelle prime ore del pomeriggio arrivammo a valle.
"I veicoli non possono circolare, non potete ripartire - ci disse un ranger - e' scoppiata una rivolta".
I 6993 metri del Machhapuchhre (immortalato durante l'attacco di diarrea), la montagna a non essere mai stata scalata da esseri umani |
Sei giorni prima, nella valle di Kathmandu si era diffusa la notizia che Hrithik Roshan avesse etichettato i nepalesi come stupidi. O meglio che - intervistato da una TV indiana - a domanda: "Quali sono le persone che odi?", avesse risposto " I nepalesi, perche' sono stupidi". La voce si era sparsa come una delta del fiume in una pianura, trasformandola presto in una palude alluvionale. Per i nepalesi era l'ennesimo affronto, un insulto che non poteva restare impunito. Incendiata dalla rabbia per l'ennesima provocazione, una comitiva di giovani era penetrata in un cinema di Kathmandu che proiettava Mission Kashmir per sequestrare il rullo, la bobina con la pellicola. Un'azione dimostrativa di fronte alla quale il titolare della sala cinematografica non aveva espresso solidarieta' verso i connazionali, anzi. L'uomo aveva chiuso il commando nel cinema e aveva chiamato la polizia. Mentre l'aria stava diventando pesante e altri giovani erano scesi in strada scandendo slogan contro l'attore e contro il governo indiano, decisi a mettere a ferro e fuoco il cinema e a trascinare la protesta fino al cancello dell'ambasciata indiana, la polizia era intervenuta per arrestare il commando di giovani e per recuperare il rullo col film. Lo scontro tra manifestanti e forze dell'ordine era degenerato in atti di violenza inaudita, e a fine giornata il bilancio era stato di 4 morti e 180 feriti, tra i quali una trentina di agenti. La reazione intransigente e violenta era, secondo i nepalesi, era l'ennesima riprova che governo e istituzioni fossero al servizio di Delhi. Anche nel momento in cui in ballo c'era l'onore ferito dei nepalesi, le autorita' di Kathmandu prendevano le parti del burattinaio indiano. In un Paese sull'orlo di una crisi di nervi, gia' piagato dalla poverta' e scosso dalla guerriglia maoista, la leggenda dell'attore e del suo odio verso i nepalesi fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Maya e Urmila |