giovedì 8 febbraio 2024

No Time to Die

 Angola, Aprile 2023


I am lucky guy. 
My CV on the road includes an assortment of near-misses, sketchy stories featuring close encounters with lions and lionesses, snakes and shipwrecks, riots and bombings, car crashes, curfews and cartoneros. Plus a handful of arrests. Several times I thought 'This is it', but somehow I was fortunate enough to be able to get out of troubles and even laugh out loud at them. Later on.
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Issues became so inherently part of travelling that if I don't face any, it feels like a different experience. Not just to me, as the most common question I ear is: 'Was your life ever at stake?' The answer is positive, but thus far saving my life never implied fighting for it.
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Which was odd, considering how often I found myself in a vulnerable position. So much so that I always questioned the fine line between chance and coincidence, between the ability to sniff the danger and stay away from it and a pure, simple, stroke of luck. Knowing it couldn't last, I had accepted something worse was going to happen. It had to happen. I didn't know where, how, when, what the consequence would be and how I was gonna react. Until a month ago, on April 6 2023, when I had some exhausting answers to those questions.
I was assaulted.
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This time I was a bit unlucky, because a series of coincidences made me carry a significant amount of money and both passports, plus a series of items I didn't needed while walking around Benguela, the second largest city in Angola. But I was also lucky, because if I hadn't had those valuable on me, the perpetrators would have had to get away with something, whether my phone, my wallet, my kidneys or all the above.
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I was unlucky, because for a series of circumstances (including Google Maps being probably drunk) I found myself in the wrong place. But again I was also lucky, as O Cabeça and Pai Diesel aren't men of their words. So they didn't actually kill me, even though they stated twice 'Te vou matar'. Which gave me probably the deepest ever 'This is it' feeling.
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I was lucky because I managed to protect the most important items - my card, my phone and my life, not in this particular order - and the bruises were minor stuff. I am also lucky I because all I could treat the wounds with for 2 weeks was hand sanitiser, apparently the only available disinfectant in Angola. If I was a tennis player I would have probably skipped more than a few tournaments, but I am lucky because I am not, so Instead in a couple of days time I will be able to work at the Rome Master as reporter. Or however you can call what I do.
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I was also extremely lucky because some of the absolutely generous and welcoming people I met in Angola helped me in every possible way in the following days offering food and shelter, rides, company and empathy. And I was lucky because both the Italian Embassy in Luanda and the Italian Consulate in Melbourne provided a great support and efficient service, so a brand new passport was delivered in a timely manner. The Australian Embassy in Rome instead will need a month to release a new document, but once again I am again a lucky gal, because this time I have time.

giovedì 17 agosto 2023

La terra dei Paki

Pakistan 2019 (I)

"A Lahore c'e' stato un attentato. Stai bene?".

C'ero appena arrivato, a Lahore, quando il telefono si collego' al wi-fi del terminal degli autobus e lo schermo comunico' la novella via Whatsapp. Ero in giro dalle prime ore del giorno, l'unico pasto era consistito in un pacchetto di patatine rimediato in una stazione di servizio e - oltre che affamato - ero anche abbastanza stanco. Avevo fretta di raggiungere l'hotel Premier Inn, che a dispetto delle manie di grandezza di chi lo aveva battezzato cosi' era un alberghetto da quindici euro a notte nella zona della stazione ferroviaria, nel quartiere di Garhi Shahu. Prima di staccarmi dal wi-fi, pero', era il caso di informarmi. Possibilmente senza allertare il mittente del messaggio. 

Tutto ok, risposi. 

Mi sedetti su una panca e ci rimasi il tempo di una ricerca su Google.

Il web sputacchio' una breve: poche ore prima, un attentato suicida davanti all'ingresso del piu' sacro dei templi sufi del Paese era costato la vita a 13 persone, tra le quali 5 poliziotti. Il Pakistan non era nuovo a simili spargimenti di sangue: secondo alcune stime, erano 35mila le persone che avevano perso la vita negli ultimi 20 anni a causa di atti di terrorimo, senza contare quelle decedute nella cosiddetta Guerra al Terrore seguita agli attentati dell'11 settembre. Il Pakistan c'era finito dentro fino al collo, stritolato tra l'incudine dell'amicizia formale con gli Stati Uniti e il martello della sudditanza sostanziale ai fondamentalisti di ogni risma, ai loro ricatti e alla penetrazione in alcune sacche della popolazione. 

Nonostante fosse in Pakistan che al Zawahiri aveva conosciuto Osama bin Laden e sebbene l'architetto degli attentati, Sheikh Khalid Mohammed, fosse stato addestrato a Peshawar, il Paese non era stato considerato direttamente responsabile degli attacchi alle Torri Gemelle e nel 2001 era stato risparmiato dai raid americani. Di quella relativa tranquillita' avevano finito per approfittare tutti, a cominciare dai membri di al Qaeda fuggiti dall'Afghanistan che lo avevano eletto a quartier generale, secondo qualcuno con il beneplacito del presidente pakistano Musharraf. Il Mullah Omar aveva preso casa a Quetta e lo stesso bin Laden aveva deciso che era piu' sicuro nascondersi ad Abbottabad, la piu' grande citta' del nord del Pakistan (che per di piu' ospitava un'enorme base militare USA) che rifugiarsi in una grotta nei pressi di Kandahar.  

@dariodiviaggio

Aggiungendo nel minestrone le spinte separatistiche del Belucistan e il conflitto permanente con l'India per il Kashmir, ne usciva fuori un pappone indigesto nel quale storicamente i primi a rimetterci le penne erano stati i leader politici: dal primo ministro Liaquat Ali Khan, assassinato con un colpo d'arma da fuoco a Rawalpindi nel '51, al misterioso incidente aereo che nell'88 era costato la vita al presidente Muhammad Zia ul-Haq, fino all'uccisione di Benazir Bhutto per mano di al Qaeda nel 2007. Governo e popolazione civile pakistana erano stretti nella morsa tra Islam moderato e Islam radicale, tra le ragioni dell'Occidente e la rabbia dei jihadisti. Il Paese era ogni giorno piu' debole e insicuro e l'attentato suicida al Data Darbar, il quinto dall'inizio del 2019, rientrava nel perimetro della normalita'. Per questo meritava si' e no di una breve. 

Di diverso, per me e solo per me, c'era che stavolta da quelle parti c'ero pure io. 


Per una settimana avevo percorso in su e in giu' la Karakorum highway. Duemila chilometri da Islamabad fino al confine cinese, i 4700 metri del Khunjerab pass, e ritorno. Attraverso montagne e deserti, scenari mozzafiato e villaggi depressi, spettacolari formazioni naturali e mastodontici cantieri. Avevo posato gli occhi sul Nanga Parbat, sulla cattredale di Passu e sulla splendida valle di Hunza con i suoi peschi e i suoi albicocchi in fiore. Avevo sostato nel punto in cui convergono Himalaya, Hindu Kush e Karakorum e nel tratto in cui il fiume Indo separa il subcontinente dal resto continente asiatico, nel quale una quarantina di milioni di anni fa la placca indiana era entrata in collisione con quella euroasiatica e aveva gettato le fondamenta del tetto del mondo. Avvicinandomi al quale, mi ero imbattuto in yak, marmotte e stambecchi e avevo annusato la stessa aria rarefatta dei leopardi delle nevi. Avevo attraversato laghi artificiali e dormito in villaggi di pietra, avevo regalato scarpe, maglioni, penne e palloncini. Avevo messo piede su un ponte sospeso estremamente instabile e divorato tre libri tra i tornanti, senza che lo stomaco ne risentisse piu' di tanto. Soprattutto, avevo visto un'umanita' incredibilmente varia.  


Il nome del Paese nasce negli Anni 30 del Novecento dall'idea di un giornalista, Ghulam Hassan Shah Kazmi, mosso dal desiderio di trovare un minimo comun denominatore ad un mosaico di popoli uniti soprattutto dal loro credo religioso. Il nome Pakistan risponde ad entrambe le esigenze: da una parte e' l'acronimo originato dai vari gruppi etnici - Punjabi, Afghani, Kashmiri e Indu-Sind (oltre al suffisso -stan, Paese, che strizza l'occhio anche al Belucistan) - e al contempo rende omaggio all'unico tratto comune alla stragrande maggioranza dei 250 milioni di abitanti, uniti dalla fede musulmana e per questo convinti custodi della terra dei Paki, cioe' dei puri. Una terra di mezzo tra India e Medio Oriente, tra Golfo Persico e Asia centrale, una costellazione estremamente frammentata, nel quale convinvono una settantina di lingue e quella franca - l'urdu - e' il primo idioma di appena il 7% della popolazione. Una terra nella quale la Repubblica Islamica nata dal collasso dell'Impero britannico e dalla partizione del subcontinente indiano e' si' composta al 96% da musulmani, ma il cui modo di sentire, vivere e interpretare la religione corre a velocita' molto diverse tra loro.   


Allo sguardo straniero, ovviamente, le differenze sono anzitutto estetiche, prima ancora che culturali, linguistiche e identitarie. Proprio li', nell'ultima porzione di mondo mappata dai geografi, dove per millenni gli abitanti erano rimasti isolati, vari popoli avevano finito per incrociarsi e mescolarsi in modo insospettabile. Nel raggio di pochi chilometri, ai tratti tipici del subcontinente si sostituiscono quelli mediterranei e quelli mongoli, i capelli neri si alternano a quelli rossi, gli occhi verdi prendono il posto di quelli scuri, i tagli tondeggianti si sovrappongono a quelli a mandorla. Tra gli uomini, tutto cio' si traduce in modi diversissimi di aggregarsi, discutere e interagire; ma e' nelle donne che la forbice tocca gli estremi.

 
Se nel profondo nord del Pakistan le bambine, le ragazze e le signore appaiono emancipate e non indossano neanche il velo, pochi chilometri piu' a sud gli esseri umani di sesso femminile si volatilizzano, spariscono dai radar. In tre giorni ne avevo vista solo una. Rannicchiata in un angolo, il corpo avvolto nel burka, rivolta verso il muro, a testa bassa. Ad occupare il minor spazio possibile, a mimetizzarsi con la parete, a cercare di rendersi invisibile. Il marito, o chiunque fosse l'uomo al quale la donna si accompagnava, era sul ciglio della strada in attesa di un minivan. 
Altrove, neanche quell'incontro. Solo uomini. Per 200 chilometri, tra Battagram e Chilas, nel cuore del Khyber Pakhunkhwa, la regione a maggioranza Pashtun, nient'altro che uomini.


A Chilas trascorsi un pomeriggio e una notte. Il pomeriggio fu pieno di incontri, la notte di fantasmi. La cittadina si appoggia al letto del fiume Indo, che per anni ne ha alimentato la vita e che in futuro dovrebbe facilitarne lo sviluppo, ma che intanto ne condiziona il presente. Proprio in quei giorni erano infatti partiti i lavori di costruzione di un'enorme diga, la Diamer-Basha, che in attesa di garantire la produzione di 4800 megawatt di energia, prima di assicurare un efficace sistema di irrigazione e persino riserve di acqua potabile, ha portato il governo a stanziare 14 miliardi di dollari statunitensi e le tensioni con l'India a riaccendersi. Secondo Delhi, infatti, quella regione e' una costola del Jammu-Kashmir e pertanto il governo di Islamabad la occupa indebitamente. Investire in un progetto cosi' imponente - secondo l'India - equivale a piantare radici nel giardino altrui, a marchiare un territorio che in realta' non appartiene all'insolente vicino. Oltre a fornire l'ennesimo pretesto per uno scontro diplomatico, la diga, il cui completamento e' previsto nel 2028, finira' per sommergere importanti petroglifici buddhisti, per indurre all'abbandono di 35 villaggi, alla demolizione di 4100 abitazioni e al trasloco di 35mila persone. Intanto, pero', l'opera e' riuscita a far parlare di Chilas per ragioni meno inquietanti del solito.


Sei anni prima, la cittadina era finita sui media perche' proprio da li' era partita l'imboscata talebana ad un gruppo di alpinisti europei che si apprestavano a salire sul Nanga Parbat, la nona montagna piu' alta della Terra. Nella notte tra il 22 e il 23 giugno 2013, un commando di 16 jihadisti del TTP - la costola pakistana dei talebani - aveva sorpreso nel sonno e massacrato 11 scalatori che dormivano nelle tende allestite nel campo base a 4200 metri di altitudine. Per arrivare fin li', i talebani avevano sequestrato due guide, una delle quali poi morta a sua volta nello scontro a fuoco. Dopodiche', al grido Allah Akhbar avevano compiuto la carneficina, per vendicare la morte di Osama bin Laden. Solo un alpinista cinese che si era allontanato poco prima dall'accampamento si era salvato. Nei giorni successivi, la polizia del Gilgit-Baltistan aveva arrestato 37 sospetti, grazie alle cui testimonanize le autorita' erano arrivate a tal Shafi Muhammad, un locale che aveva ospitato i talebani nella sua casa di Chilas. Le indagini che erano seguite avevano fatto saltare l'ennesimo tappo che aveva dato il la' alla violenza: due mesi dopo il massacro, tre inquirenti erano stati uccisi a sangue freddo da un commando talebano in un quartiere di Chilas. In tutto, solo cinque persone coinvolte nell'imboscata erano finite in carcere, e di queste un paio erano riuscite anche a scappare. Insomma, era probabile che a Chilas circolassero parecchi soggetti con la fedina penale sudicia e qualche ceffo con le mani insanguinate. 
E che molti altri avessero il dente avvelenato con quelli come me.
   

I pashtun sono circa 65 milioni, tanti quanti i francesi. Circa due-terzi vivono in Pakistan e se se esclude una trascurabile percentuale di diaspora, quasi tutto il terzo rimanente popola l'Afghanistan. Orgogliosamente sunniti, fino agli Anni 80 del secolo scorso erano considerati seguaci della non-violenza: Abdul Ghaffar Khan, uno dei loro leader pakistani, nel corso della sua quasi centenaria esistenza aveva costituito il primo esercito non violento della storia. I suoi Khudai Khidmatgar, i Servi di Dio, giuravano di praticare le buone maniere e i comportamenti corretti, di perdonare i nemici, di non fare ricorso alla violenza e alla vendetta e di servire l'umanita' nel nome di Dio. Ai coloni britannici avevano opposto una resistenza passiva che era valsa a Basha Khan il soprannome di Ghandi musulmanoLa storia dei pashtun e della loro immagine planetaria era pero' cambiata drasticamente con l'invasione sovietica dell'Afghanistan: un decennio di guerra a difesa della propria terra condotta con l'ausilio di 3 miliardi di dollari di munizioni fornite dall'amministrazione Reagan e la valanga di petrodollari arrivati dalle monarchie del Golfo aveva accelerato la metamorfosi dei pacifici servi di Dio in combattenti mujaheddin. Dai quali i talebani avrebbero ereditato armi, acciaio, abitudini e aria poco amichevole. 


Finita la guerra e crollati i muri ideologici, infatti, l'Afghanistan era rimasto fortemente instabile ed era andato incontro ad una guerra civile nella quale i vecchi combattenti erano stati prima affiancati e poi gradualmente rimpiazzati da una nuova generazione di schegge impazzite: i giovani pashto culturalmente e religiosamente formati nelle madrase dei campi profughi. Allevati nelle scuole coraniche e radicalizzati nel wahhabismo, gli studenti, i taliban, erano stati costituiti nel 1994 dal Mullah Omar e nel giro di pochi anni si sarebbero presi il Paese, con l'appoggio dei cugini pakistani e il placet della monarchia saudita. Chiaramente tutti (o quasi) i talebani sono di etnia pashtun, mentre non tutti i pashtun hanno sposato in toto l'estremismo dei talbani. Ma se c'e' un'area del Pakistan nel quale lingua e cultura pashto vanno a braccetto con il pensiero radicale in voga tra i jihadisti, quella e' Chilas.


Pashtun si riferisce specificamente agli esponenti delle tribu' seminomadi dell'attuale Afghanistan, mentre per indicare i gruppi che vivono tra Peshawar e il Pakistan settentrionale si dovrebbe usare il termine pakhtun, coniato per deformazione fonetica dagli inglesi. Ma nella sostanza non ci sono grosse differenze, anzi. I pashtun rappresentano il classico esempio di un popolo separato da una frontiera legale ma non culturale. Una frontiera anche per questo estremamente fluida e permeabile. Praticamente un colabrodo. In cima al loro codice comportamentale c'e' la melmastya, l'ospitalita'. Seguono la nanawatai, ovvero la protezione di qualcuno contro i suoi nemici e poi a cascata il coraggio e la fedelta'. Come in qualsiasi societa' e in ogni sistema il problema sorge nel momento in cui subentrano questioni piu' soggettive come come la giustizia, l'onore e la vendetta. Nel momento in cui la giustizia contempla la terza nel nome del secondo, casca l'asino. Ogni atto, ogni gesto e ogni atteggiamento possono essere accusati di infrangere leggi e infangare l'onore e possono imporre una vendetta, nel nome di una giustizia, divina o terrena. Per turbare l'onore e l'onorabilita', soprattutto in certi ambienti suscettibili, puo' bastare uno sguardo, una domanda, un'allusione, un sospetto. O un foto. Bucce di banana che non solo raramente evito, ma con le quali decido di disseminare il percorso. 
La mia attrazione fatale per i luoghi remoti, per le chiacchiere, per le curiosita' e per la fotografia ha sempre fatto si' che la domanda piu' ricorrente che mi sia sentito rivolgere sia stata: "Sei un giornalista?". 
Chilas non fece eccezione.


Oltre ad un comportamento sul filo che rischia di sconfinare nell'eccesso di confidenza, pago poi il peccato originale del colore dell'epidermide. Ci sono mondi nei quali la pelle chiara rappresenta un marchio di infamia. L'Occidente non solo e' il ricco scemo, ma e' anche il latifondista con le mani curate perche' la terra tanto la zappa qualcun altro, l'amministratore delegato col Rolex d'oro che se va bene ti ringrazia per il contributo dato all'azienda mentre tu arrivi a stento a fine mese, lo strozzino che con una mano aiuta e con l'altra si fa pagare anche gli interessi per l'aiuto dato. In Pakistan, l'occidentale non e' la causa di tutti i mali, perche' la lista dei nemici brutti e cattivi e' lunga, ma e' quello che tra soprusi concreti a monte e reiterazione degli errori a valle, va in giro con il fumo che esce ancora dalla pistola. 
Ergo, ogni suo figlio puo' essere considerato responsabile delle malefatte della Storia e a lui si puo' applicare il codice che prevede accoglienza per ogni ospite e vendetta per ogni insulto
O colpa. O vessazione.


Non che io ne avessi commesse, eh. Anzi, se una cosa ho cercato di trasmettere, sempre e ovunque, e' che io con la Regina Vittoria non ho mai avuto rapporti. Ok, mi si potrebbe obiettare che i miei genitori hanno vissuto una vita relativamente agiata anche grazie ai soldi del piano Marshall e che quindi tanto loro quanto io siamo frutti dell'imperialismo americano imbevuti dei loro sottoprodotti culturali. Lo ammetto e lo accetto. Ma visto che per agiata intendo un tre camere all'Appio Latino, una station wagon di seconda mano, uno scooter e un appartamentino in multiproprieta' in Sicilia - solo per tre settimane all'anno - sono autorizzato a sentirmi abbastanza estraneo ai soprusi dell'Occidente nei confronti del mondo in via di sviluppo. Tra l'altro posso garantire di non averne beneficiato, non direttamente e non volutamente, e per di piu' posso assicurare che non potro' mai permettermeli, un tre camere all'Appio Latino e una multiproprieta' in provincia di Ragusa. Quindi alla lunga la Storia riportera' me e quelli come me in un angolino, altro che figli della lupa e unici eredi di un grande Impero. Quindi nel frattempo prendetevela con qualcun altro, di grazia, perche' anche io nel mio piccolo sono un ultimo. Magari non in assoluto, ma nella mia societa' si'. E, almeno di principio, lotto insieme a voi contro i padroni del vapore. Questo avevo sempre cercato di trasmettere. Non a parole, chiaro. E per rafforzare il concetto, mi ero sempre tenuto alla larga dai viaggi organizzati e mi ero esposto in prima persona al rischio di rimediare cartoni revanscisti sullo zigomo. 
Lo feci, a maggior ragione, quando bussai a casa dei talebani.


 Trascorrere del tempo assieme a loro, per di piu' a casa loro da ospite non esattamente invitato, costituiva un rischio su vari piani. Lo corsi confidando su due carte: la bandiera bianca e l'effetto-sorpresa. In qualsiasi situazione mi fossi messo o trovato fino ad allora, avevo capito che i locali tendono ad accettare e premiare chi si espone e si mette in gioco. Le comitive e i gruppuscoli creano un filtro, un muro, di fronte al quale gli abitanti di un posto si sentono nella migliore dei casi osservati con albagia e alterigia, nella peggiore trattati come animali da zoo. La voragine che si crea tra noi loro determina i ruoli e cristallizza gli atteggiamenti: piu' i visitatori camminano in gruppo, mangiano in gruppo, si muovono e dormono in gruppo, per di piu' in piccole torri d'avorio, limitando le occasioni di incontro, piu' trasmettono una paura del confronto e del contatto con l'altro. Che in teoria sarebbe pure il padrone di casa. Questa serie di fattori genera negli autoctoni disistima e ostilita' verso chi ha le possibilita' e i mezzi per presentarsi a casa tua ma non ha la voglia, la passione e gli attributi per farsi carico dei costi e dei benefici connessi. 


I costi attengono ai rischi per la propria incolumita' (non solo per la flora batterica), mentre i benefici sono incommensurabilmente maggiori. La conoscenza diretta, il rapporto umano, lo scambio di regali che il contatto col mondo esterno offre. Quando lo scambio avviene alla pari, non solo gli avventori trovano nei locali il biglietto da visita di un Paese, ma e' vero anche il contrario. Quando sei il primo, l'unico, o uno dei pochi ambasciatori di un posto a visitare una certa area del mondo, volente o nolente finisci per sentirti un dono del cielo o almeno ambasciatore di buona volonta'. Non solo investito del compito di conoscere il piu' possibile di quel posto per portarne a casa dei frammenti, ma anche del compito di portare un po' delle tue radici in un angolo di mondo i cui abitanti non avranno mai la fortuna di poter viaggiare e conoscere il tuo. Negare a se stessi un'esperienza del genere non solo e' limitante rispetto alle potenzialita' della vita e del viaggio, ma ti espone al rischio di essere trattato come le tue scelte impongono: come un ricco pusillanime, come un estraneo senza interesse, come un pollo da spennare. Viceversa, il mettersi in gioco e l'affrontare di petto le realta' locali, soprattutto se da solo, nella maggior parte dei casi genera nei locali curiosita' umana e rispetto per il coraggio, l'incoscienza e lo spirito di avventura. Essendo poi io dotato di un set di incisivi piuttosto prominenti, ero sempre riuscito a comunicare apertura, giovialita', autentico interesse e gioia per l'incrocio dei flussi. Approdare in quel momento in quella parte del mondo era quanto di piu' vicino a mettere piede in una dimensione parallela, nella Fossa delle Marianne o sulla Luna. Tradurre quell'immensa, adrenalinica, fortuna in un sorriso entusiasta avrebbe aumentato anche a Chilas le probabilita' che nessun talebano mi sgozzasse.    
 

Corsi il pericolo confidando pure nell'effetto-sorpresa. Anche nei peggiori bar di Caracas e' raro che qualche malintenzionato aspetti il tuo arrivo, ed e' quasi altrettanto raro che la visione di un soggetto estraneo, per quanto potenzialmente vulnerabile, degeneri subito in un'aggressione non pianificata. A meno che - Benguela docet - non finisci in bocca a due marginais e ti chiudi pure in un cul de sac. Fatto sta che anche a Chilas nessuno mi punto' un kalashnikov alla tempia. Ne' il primo gruppetto di talebani, impegnati a sistemarsi i peli della barba ne' tutti gli altri - tutti rigorosamente uomini - con i quali scambiai alcune frasi. Falegnami, calzolai, operai, meccanici, venditori di frutta e verdura, avventori di un chiosco del te', mi sembrarono in qualche caso ben disposti, ma piu' spesso sorpresi di vedere un occidentale da quelle parti. La loro sorpresa era anche la mia. Anche a Chilas mi chiesi perche' fossi li' e chi me lo avesse fatto fare. 


Eppure trovai l'ardire di scattare un sacco di foto. Per la prima volta, oltre all'immancabile reflex, avevo portato con me un cellulare dotato di una fotocamera decente. La delusione per le immagini rilasciate dalla mia Nikon negli ultimi anni si era unita alla necessita' di non dare troppo nell'occhio. Bastava la mia presenza a mettermi in una situazione potenzialmente pericolosa. Non c'era bisogno che alla mia presenza aggiungessi quella di un tele-obiettivo, che tra l'altro mi avrebbe fatto passare per fotoreporter o per una spia. O comunque per uno la cui vita valeva meno della sua fotocamera. 
La mia ex mi aveva cortesemente prestato il suo ultimo telefonino - un Google Pixel 4 - con il quale riuscivo a catturare immagini discrete in maniera poco invasiva. Gli interlocutori non si sentivano al centro di un servizio fotografico, io non mi sentivo troppo osservato e potevo persino premere l'otturatore mentre discutevamo, senza distogliere lo sguardo dall'interlocutore. D'altra parte ero arrivato sulla Luna; resistere alla tentazione di immortalare quegli istanti era impossibile.
 

"Ho combattuto coi talebani in Afghanistan", mi disse un uomo la cui giovinezza era sfiorita ma che non avevo perso lo spirito d'iniziativa. Mi venne incontro mentre camminavo lungo la Karakorum highway, che nel centro cittadino di Chilas diventava poco piu' di una stradina a due corsie, e mi mostro' dell'hashish. Non feci fatica a declinare la proposta. L'uomo aggiunse che la guerra era stata vinta, perche' gli americani se n'erano andati e il potere era rimasto in mano ai buoni, i talebani, appunto. Una profezia che si sarebbe definitivamente avverata entro due anni.
Il pomeriggio a Chilas trascorse cosi', tra chiacchiere e fotografie. 
Poi, incamminandomi verso l'hotel, incrociai un enorme veicolo corazzato dell'esercito che procedeva in senso contrario. Era la prima testimonianza della presenza dello Stato in quella cittadina.
"Ti hanno cercato", mi disse il signore alla reception, quando tornai nel Grace hotel, un vecchio edificio trasformato in albergo. Le stanze, spartane e disperatamente bisognose di una scozzonata e di una mano di bianco, erano disposte in fila, e guardavano verso una corte interna. 
"La polizia e' venuta a chiedere di te", aggiunse l'uomo.  
(continua)

lunedì 7 agosto 2023

Non aprite quella porta


Non so perché la polizia mi fosse venuta a cercare nel piccolo hotel di Chilas. In Occidente ci muoviamo con relativa libertà e non siamo abituati ai paletti che altrove costituiscono la prassi. Per noi il rapporto con le autorità inizia e tendenzialmente finisce alle frontiere; dopodiché, se non commettiamo infrazioni, difficilmente incappiamo in una verifica dei documenti. Altrove no. Altrove le strade vengono battute, monitorate e pattugliate, sono disseminate di micro dogane e i posti di blocco rappresentano la norma. Anzi, se tu straniero sei accompagnato da un locale, stai certo che tu o lui dovrete sborsare un fiorino qua e uno là per superare indenni i controlli. Non solo. In molte nazioni le autorità si spingono fino ad imporre la registrazione della tua presenza passo passo: in Kazakistan avevo dovuto fare per tre giorni consecutivi la fila assieme a centinaia di immigrati indiani e bengalesi davanti ad uno sportello per denunciare la mia permanenza ad Almaty. In Tagikistan mi ero rifiutato di andare fino alla capitale Dushambe proprio per evitare di correre lo stesso pericolo. In Yemen, avevo dovuto recarmi nel posto di polizia di ogni cittadina per informare che ero arrivato e per chiedere all'agente di turno il permesso di proseguire verso la meta successiva.   


Altrove, alla burocrazia e ad un rapporto con lo straniero di impronta ottocentesca si aggiunge l'arbitrio di ogni ufficiale dotato di un granello di potere. In Bahrain i doganieri dell'aeroporto non mi avevano fatto entrare perché era bastata una ricerca su internet per scoprire che facevo il giornalista. E visto che nel Paese era in corso una repressione soft di quel poco di primavera araba arrivata fin lì, in Bahrain ero stato etichettato come persona non grata, avevo dovuto rinviare la visita di Manama. Al confine tra Senegal e Guinea Conakry avevo perorato la causa di un asiatico il cui visto era stato bollato come falso dall'ufficiale di frontiera. A Tiraspol avevo dovuto sganciare 20 euro per superare un confine invisibile tra Ucraina e Transnistria, mentre in Gibuti un poliziotto mi aveva intimato di non scattare foto, sostenendo che il mio visto mi consentisse di entrare nel Paese, ma non di immortalarlo. In Sud Sudan, poi, sarò accusato di essere entrato illegalmente nello Stato. Insomma, a Chilas il primo pensiero era volato alle gimkane dei cavilli che accompagnano la visita di alcuni luoghi del mondo. I check point disseminati lungo la Karakorum highway, del resto, mi avevano ricordato che il mio passaggio era vincolato non solo al mio rispetto delle norme, ma anche alle lune delle autorità.  
Se per qualche ragione i militari avessero deciso che io non sarei potuto transitare o sostare, avrei dovuto piegare la testa e girare i tacchi. 


Però ero anche in un territorio al centro di un braccio di ferro tra il governo di Islamabad e i talebani, nel quale la giurisdizione del primo era poca cosa rispetto al controllo dei secondi. Pensai che ai piccoli e fastidiosi abusi di potere che avevo messo in conto si fosse aggiunta una forma di tutela della mia persona da parte del ministero dell'interno pakistano. Nella cittadina mi avevano visto in tanti, e chi non mi aveva visto aveva probabilmente sentito parlare di me. Le voci sulla presenza del tizio bianco erano sicuramente arrivate a tutte le orecchie interessate e, dopo qualche ora, la carta effetto-sorpresa non avrebbe piu' funzionato come scudo protettivo contro eventuali malintenzionati. Se a Chilas ce n'era qualcuno, la mia incolumità era a rischio. Insomma, la polizia aveva potuto cercarmi per chiedermi di firmare l'ennesimo lasciapassare, o per intimarmi di lasciare Chilas oppure per mettermi in guardia contro possibili pericoli. O ancora per offrirmi protezione. In un climax ascendente di noie e paranoie, arrivai a pensare che qualunque fosse stato il motivo, la notte sarebbe stata lunga e tempestosa. Mangiai un boccone, e appena fece buio chiusi a chiave l'ampia camera e sistemai lo zaino davanti alla porta.


Tutta la paura che non avevo provato in giornata, trovo' una valvola di sfogo tra quelle pareti scrostate.
Qualche tempo prima avevo letto la notizia dell'uccisione di un cittadino italiano in hotel saudita, poi quella della morte di un altro italiano, trovato senza vita in una stanza di un quattro stelle di Nairobi. Entrambi casi irrisolti, entrambi omicidi senza responsabili, ed entrambi capaci di farmi accapponare la pelle, di lasciarmi addosso il brivido della paura che quei due dovevano aver provato.
Viaggiare significa farsela sotto un sacco di volte ogni giorno, ok, ma è di notte che ti senti davvero indifeso. Anche quando, se non soprattutto quando, ti chiudi nella tua stanza. A quel punto in tanti sanno esattamente dove sei, sanno che con te hai tutti i tuoi averi e che tra quelle mura potresti non trovare boe di salvataggio neanche se sputassi i polmoni.  


Solo una manciata di volte mi era capitato di sobbalzare nel momento in cui qualcuno aveva bussato alla mia porta. Era successo a Batam, l'isola indonesiana di fronte a Singapore, dove un tizio della reception mi era venuto a chiedere se fossi interessato a conoscere biblicamente qualche ragazza. Probabilmente era abituato così, visto che quell'isola era una specie di terra di nessuno, un porto franco nel quale asiatici di ogni provenienza approdavano soprattutto per giocare d'azzardo e forse anche per altro. Io che c'ero finito durante il giro del mondo (e solo perche' il traghetto da Singapore era arrivato dopo la partenza del barcone per Sumatra), ero lì per caso e non intendevo né giocare alle slot machine né fare altro. Il concierge se n'era andato senza insistere, nonostante la sua percentuale sulla transazione fosse andata in fumo. Altrove si era trattato di curiosi o di errori. 
In tutti i casi mi si era gelato il sangue. A Chilas, invece, non bussò nessuno.        


 Il giorno dopo proseguii verso sud e nel primo pomeriggio arrivai a Besham, che mi sembro' piu' vivace di Chilas e dove decisi di passare la notte. Trascorsi le ultime ore del giorno camminando su e giù per la strada principale, cercando di non farmi suggestionare né dalle barbe, né dai pakol, né dai sandali di pelle, né - soprattutto - dalla totale assenza di donne. Costruito parallelamente al letto dell'Indo, il corso principale di Besham si biforcava nel centro cittadino: a destra puntava verso il confine cinese, a sinistra verso quello afghano. Il cartello indicava la strada per Mingora. 10 anni prima, nel 2009, quella zona era stata al centro di una violenta battaglia tra le forze governative e i fondamentalisti islamici. A meno di 90km dal bivio sorgeva il paesino nel quale il 9 ottobre del 2012 un commando di talebani aveva attentato alla vita di una studentessa, Malala Yousafzai. Tramite un blog anonimo sulla sulla BBC, Malala aveva raccontato le atrocità della vita sotto il regime ed era diventa una paladina dei diritti negati alle bambine come lei, a cominciare da quello allo studio. A 15 anni Malala era già un esempio, un megafono e un riferimento. Dopo che una pallottola le aveva bucato il cranio, sfiorato l'occhio sinistro, attraversato il cervello e si era fermato a due dita dalla spina dorsale, era diventata anche un'icona. E un premio Nobel per la Pace.          


Eppure a Besham incrociai solo sorrisi e sguardi curiosi, trascorsi una notte senza sussulti e l'indomani partii. Sostai a Battagram, un centro di 30mila abitanti che avevo attraversato nel percorso inverso e che avevo notato soprattutto per due motivi: era stata la prima cittadina nella quale non avevo notato una sola donna in giro e il suo mercatino era abbarbicato sopra e attorno ad un ponte in disuso, semicrollato dopo il devastante terremoto del 2005, che aveva provocato piu' di 86mila morti. Era stato il piu' mortale della storia d'Asia.  
Proseguii poi verso Abbottabad. La capitale provinciale, un agglomerato da 250mila anime, non era per niente simile a quel che avevo immaginato sulla base della cronaca recente.  


Sfregiata dal sisma, nel 2019 era un grosso centro tipico di una nazione in via di sviluppo: lunghe strisce di asfalto butterate, con una scarsa segnaletica orizzontale e i fianchi punteggiati da edifici nati vecchi.  Piu' moderna di quanto pensassi, era circondata da colline e al suo interno non mancavano i parchi e le aree verdi, compresi alcuni campi da golf. Soprattutto, proprio nel suo cuore pulsava una mastodontica base militare. Ad Abbottabad. Scelta nella prima meta' del secolo scorso per il clima temperato, lontano dal gelo delle montagne del nord e dal caldo del sud est e dall'umidita' del sud ovest, l'accademia aveva formato generazioni di ufficiali e qualche capo di governo, tra cui lo stesso Musharraf. Rinomata anche a livello mondiale, ogni anno ospitava cadetti provenienti dall'estero e finiva per sfornare 2000 nuovi ufficiali. Sempre ad Abbottabad.       
 

Eppure era ad Abbottabad che il 25 gennaio del 2011 era stato scovato e arrestato Umar Patek, il terrorista indonesiano membro della Jemaah Islamiya che aveva organizzato gli attentati del 2002 a Bali nei quali erano morte piu' di 200 persone - tra le quali 88 australiani - e che per questo era finito in cima alla lista dei ricercati in Australia, negli Stati Uniti e in Indonesia. Proprio Patek, secondo alcune ricostruzioni, aveva poi contribuito ad arrivare ad Osama bin Laden. Cosi', 97 giorni piu' tardi, nella notte tra il primo e il due maggio 2011, lo sceicco del terrore era finito nel sacco degli americani. 
Lo cercavano ininterrottamente da un decennio e per anni lo avevano immaginato nascosto in una grotta in Afghanistan, non certo in un compound a cento metri dalla principale scuola militare di un Paese teoricamente alleato.    
Per evitare che Abbottabad si potesse trasformare in un luogo di pellegrinaggio per aspiranti jihadisti, la CIA aveva prima fatto sparire il corpo di bin Laden e poi anche tutta la palazzina nella quale aveva trovato rifugio. Meglio cosi', a quel punto la curiosita' era tanta, ma il tempo a mia disposizione cominciava a scarseggiare. Invece da Abbottabad rientrai a Islamabad e da li' a Rawalpindi, dove salutai l'uomo che fino a quel momento mi aveva fatto da guida e da angelo custode e - in attesa del bus per Lahore - mi tuffai nel terzo mattone del viaggio, la biografia di Benzir Bhutto.   


Prima della partenza, quando tutti gli occupanti del torpedone erano seduti, un militare sali' a bordo con una telecamerina e comincio' a riprendere, uno per uno, i viaggiatori a bordo del bus. Guardai il mio vicino di posto con fare perplesso. 
"E' una procedura di sicurezza", mi disse.
  "In che senso?"
"Nel caso in cui ci sia un attentato o un incidente. Nel primo possono risalire al kamikaze, nel secondo possono riconoscere piu' facilmente i corpi senza vita".
In Pakistan non ci annoiava neanche una volta usciti dalla giurisdizione talebana.  


Arrivai a Lahore dopo le 8 di sera. Il telefono, che fungeva soprattutto da orologio, da sveglia e da macchina fotografica, diede cenni di vita grazie al wifi del terminal e spiffero' l'informazione condivisa da James: l'esplosione davanti al tempio sufi. M'era bastata una settimana di Storia e di storie per mettere in conto anche quella. Mandai un messaggio a Malik, il manager del Premier Inn, la cui prenotazione era stata fondamentale ai fini dell'ottenimento del visto pakistano, e dopo mezz'ora mi presentai alla reception. L'adetto, piu' assonnato di me, mi aspettava nella penombra: prese nota dei dati del mio passaporto, mi accompagno' al primo piano - nella penombra pure quello - e mi mostro' la stanza. A parte il cubicolo di lamiera rovente sul tetto della moschea di Amman non credo di aver mai sollevato questioni su una camera. Quella del Premier Inn non fece eccezione. Il letto era grande e le lenzuola sembravano pulite. Al termine di una giornata iniziata a Besham, non desideravo altro. E poco male che il bagno facesse l'effetto di un acquario vissuto dall'interno, con i vetri oscurati da quelle che sembravano essere delle decorazioni di plastica adesiava colorata attaccate ai vetri delle finestre. E che fosse quasi tutto arrugginito. E che dai rubinetti non uscisse acqua.
Mandai giu' gli ultimi avanzi del viaggio e sprofondai nel sonno. 
Fino all'1 e mezza di notte. 


Bussarono violentemente, con una veemenza tale che capii che stavolta non avrei potuto ignorarli. Mi svegliai di colpo, realizzai subito dov'ero e i colpi alla porta raddoppiarono di numero e di intensita'. Chiunque fosse, non era li' per spaventarmi e neanche per fare le cose di soppiatto. 
Voleva solo entrare.
Fare finta di dormire non sarebbe stato credibile e non mi avrebbe aiutato. Andai nel panico.
Pensai all'italiano di Nairobi e a quello di Riyadh: forse anche loro avevano vissuto momenti di paura simili a quello. Peccato che non fossero vivi per raccontarli.  


Mi alzai, accesi la lampada accanto al letto e indossai i pantaloni. Nelle tasche laterali ficcai portafoglio, passaporto e telefonino. Fu in quel momento che la porta cedette e si apri'.
Sull'uscio, tre uomini, scarsamente illuminati in volto dalla lucina del comodino e avvolti nella penombra del primo piano dell'alberghetto.
"Polizia - dissero -. Dobbiamo perquisire la stanza". 
Nella voce c'era una punta di irritazione, forse dettata dal fatto che li avevo costretti a forzare le porta. Per fortuna fecero passare una frazione di secondo tra lo sfondamento della porta e l'autopresentazione, senza darmi il tempo materiale di formulare pensieri apocalittici, tipo 'adesso mi sodomizzano, mi sequestrano e poi mi sciolgono nell'acido'.
"Fate pure", risposi. 
Inserendo una dose elefantiaca di irritazione, da sparpagliare a piacimento sui tre presunti poliziotti, sul concierge, sul Pakistan tutto e pure su me stesso. 


In teoria non avevo niente da nascondere, ma proprio per questo non c'era motivo di vedere la porta della camera presa a manate in piena notte. Poteva essere l'indizio che quella non fosse la polizia, ma qualcuno animato da altre intenzioni? E perche' nell'un caso o nell'altro non era stato il concierge o chi per lui a scortare gli agenti su per le scale, a fare da apripista, da garante e da testimone?
La perquisizione duro' pochi minuti. Mentre uno dei tre ispezionava il bagno, un altro girava per la stanza, sbirciando sotto il letto e dietro le tende. Il terzo uomo con un occhio guardava lo zaino, con l'altro me. Durante la procedura occupavo una posizione strategica accanto alla porta, stipite dello stipite, per avere una visione d'insieme e al contempo per lasciarmi lo spiraglio di un'improbabile fuga, qualora la temperatura si fosse improvvisamente impennata. 
Non ce ne fu bisogno, dopo poco i poliziotti se ne andarono, lasciandomi con il dubbio che quel blitz nascondesse altro e con la paura che fosse solo un antipasto.
Presi il telefono e scrissi quattro messaggi.
Il primo per James: 
"...they briefly inspected the room. I think this is the closest one can get to a heart attack".


Era stato lui ad avvisarmi dell'attentato a Lahore. Vivendo a Dubai era il piu' vicino tra gli amici.La moglie era impiegata dal governo australiano e lui stesso aveva lavorato per l'intelligence federale. Era la persona piu' indicata per eventuali rassicurazioni e suggerimenti. 
"There's a lot happening there right now", scrisse. Non se in qualita' di amico o di insider.
Aggiunse che il raid notturno era concerning, mi suggeri' di controllare che i poliziotti non avessero lasciato niente nella stanza, di mantenere un tono formale nei messaggi Whatsapp e di cercare di lasciare il Paese il prima possibile. La preoccupazione maggiore era che quel raid notturno sullo sfondo della ricerca degli attentatori potesse diventare merce di scambio nelle segrete dei servizi di sicurezza pakistani. In attesa di trovare i registi dell'attacco kamikaze, mettere a referto il fermo di uno straniero trovato con qualche grammo di hashish nello zaino faceva comunque curriculum.      


L'ultimo passaggio era complicato: avrei lasciato Lahore e il Pakistan dopo 48 ore, e cercare di anticipare la partenza - ammesso che fosse possibile - avrebbe acceso ancora di piu' i riflettori su di me. La seconda indicazione era la piu' inquetante: considerando che la polizia non aveva motivo per perquisire la mia stanza, avrebbero potuto fabbricare prove a mio carico. 
In realta' era l'indagine puzzava dalla testa. Sarebbe bastato un controllo dei miei spostamenti per sapere che quando era esplosa la bomba davanti al tempio sufi, ero alle porte di Rawalpindi, a qualche ora di distanza da Lahore. Il video girato alla partenza del bus era li' a confermarlo. Per quanto scivolasse nel complottismo, la teoria del raid finalizzato ad incastrarmi poteva avere un suo fondamento. Quanto al perche', bastava pensare che un sospetto incastrato dato in pasto all'opinione pubblica fa sempre gioco a tutte le latitudini. E se anche non coinvolto direttamente nell'attentato, uno straniero beccato ad infrangere la legge torna sempre utile.
"Controlla tutto, soprattutto lo zaino", suggeri' James. 
Era li' che avrebbero potuto nascondere qualcosa.


Ovviamente non avevo nulla da nascondere. La prima e unica volta in cui avevo inserito una quantita' significativa di tetraidrocannabinolo nel mio organismo risaliva al 1993, ero reduce da un campo invernale del CISV nella campagna a sud di Tilburg e assieme al mio amico d'infanzia Ciccio e a due ragazzi italiani - uno di Milano e uno di Bologna - avevamo deciso di prolungare di due giorni la permanenza nei Paesi Bassi. A me interessava soprattutto il museo di van Gogh, ma gli altri proposero di sfruttare a 360 gradi le opportunita' offerte da Amsterdam. Ci ritrovammo cosi' a trascorrere la serata in un celebre coffeeshop, il Grasshopper, dal quale il cisvino emiliano usci' con un tocco di fumo grosso come una palla da biliardo. Passeggiammo lungo il red light district e poi ci chiudemmo nella camerata che avevamo prenotato per la notte. 


Ciccio, che durante il campo s'era beccato un febbrone, crollo' subito. Il milanese segui' al primo tiro. L'emiliano ed io andammo avanti finche' non ci rendemmo conto che non avremmo mai consumato quella boccia. Tra l'altro a me non fece nessunissimo effetto, ne' nell'immediato ne' l'indomani, quando nonostante tutto trascinai il gruppetto al Rijksmuseum. Il primo incontro ravvicinato con l'hashish mi lascio' la sensazione che fosse denaro sprecato. Da allora ne ero rimasto a debita distanza. Soprattutto all'estero, dove avevo sentito storie agghiaccianti di viaggiatori finiti nei guai per molto meno.
Da allora, di cose stupide o illegali ne avevo fatte a bizzeffe, cambiando denaro in nero in Serbia o scavalcando muri di cinta a Petra, pisciando nei parchi pubblici in Donbass o arrampicandomi sulle reti di recinzione alla frontiere tra Uzbekistan e Kazakistan. Ma gli stupefacenti no, mai. 
Figuriamoci in Pakistan.   


I destinatari degli altri messaggi furono i miei contatti locali. Il primo fu per un tennista, Aisam Qureshi, intervistato anni prima e nel frattempo diventato un contatto anche social. 
Primo e unico pakistano a giocare una finale Slam, in doppio e in doppio misto a New York, come i pochi sportivi di successo era una specie di celebrita' per milioni di suoi connazionali. Sceso oltre la sessantesima posizione mondiale nel ranking di doppio, Aisam era impegnato in tornei minori in Europa alla ricerca di punti buoni per il Roland Garros e non mi poteva essere d'aiuto. 
Ma Lahore era casa sua, per cui un testimone in piu' male non faceva. 
"Ohhhh shit", commento' Aisam. 
"Spero che non cancelli le magnifiche esperienze fatte finora", aggiunse. 
"It's part of the experience, I guess", risposi.


Il secondo messaggio fu per Malik, il manager del Premier Inn, al quale chiesi chiarimenti sulla perquisizione e sul mancato scudo del concierge. Sapevo perfettamente di essere pretenzioso rivolgendomi cosi' al responsabile di in una struttura cosi' spartana, in un Paese cosi' complesso e di fronte allo stato di emergenza imposto dall'ennesima strage. 
Ma volli comunque testare il suo grado di empatia, di coinvolgimento e di sostegno. Malik non rispose. 
Scrissi infine ad Ali, un quarantenne locale - amico di un amico di un amico - il quale mi offri' solidariera' e appoggio per il giorno che stava nascendo. Un giorno nel quale aveva promesso di portarmi al confine con l'India per assistere ad una cerimonia. 
Per ottenere l'autorizzazione, Ali aveva dovuto fornire alle autorita' le mie generalita'. 
Mi domandai se la perquisizione dipendesse potesse dipendere anche da quell'invito. 


In mattinata visitai il centro, coprendo a piedi buona parte dei 5 chilometri che separavano l'hotel dal parco Iqbal con la cinta muraria, il forte e soprattutto la meravigliosa moschea Badshahi, una delle piu' grandi e sicuramente tra le più belle del mondo, voluta 350 anni prima dal sultano Auranzgeb, l'uomo che aveva completato l'opera di espansione dell'Impero Moghul e imposto la religione di Maometto a tutto il subcontinente. Un leader che aveva perseguitato i fedeli delle altre confessioni, radendo al suolo templi indù (come quello di Mathura, ribattezzata Islamabad) e che per questo era passato alla storia come un tiranno. Ma che fu a modo suo illuminato e che a mo' dei suoi predecessori - che avevano costruito meraviglie come il Taj Mahal - decise infine di lasciare tracce artisticamente significative del suo passaggio sulla Terra. 
Tra le quali la moschea Badhshahi di Lahore rimane la piu' spettacolare.  


In giro non c'era anima viva. Non solo mancavano i turisti (ero fermo all'incontro con Nicola, una dottoressa austriaca dall'italiano perfetto che avevo lasciato sulle montagne del nord, da dove avrebbe proseguito verso la Cina), ma non si vedeva l'ombra di locali, visitatori o pellegrini che fossero. Considerando che il cortile poteva ospitare fino a 100mila persone e che nella cittadella fortificata poteva starcene un milione, l'orizzonte deserto era spettrale. Alla fortuna di poter ammirare un luogo incantato praticamente da solo si sovrapponeva la sensazione che ci fossero motivi inquietantemente validi per tenere tutta quella gente a debita distanza dalla moschea e dalla città vecchia. Il pensiero, inevitabilmente, andò all'attentato del giorno prima. Si era consumato a poco piu' di un chilometro e nell'aria c'era ancora l'odore di morte. O forse lo sentivo solo io, meno abituato del Pakistan a metabolizzare paure del genere. Restava il fatto che in giro non ci fosse nessuno. E per una metropoli di 13 milioni di abitanti in un Paese che conta in media 273 persone per chilometro quadrato, montagne comprese, era cosa piu' unica che rara.       


Madido di sudore tornai a piedi a Garhi Shahu e ripassai per il Premier Inn, dove mi concessi una doccetta fredda e mi collegai al wifi.  
'Sorry for the police interface, they came due to security reason". Malik Mansoor, il manager, aveva risposto al mio grido d'allarme notturno con un messaggio insipido. Magari era solo formalismo imposto dalle circostanze, ragion per cui gli lanciai un altro amo, chiedendo di fare il possibile per garantire la mia incolumità per lo meno all'interno della sua struttura. 
"U r 100% safe, u don't worry", rispose quasi subito.     
Come promesso, Ali' mi passo a prendere dopo le 3 di pomeriggio.
Amico di un amico di un collega di SBS Urdu, Ali si era offerto di portarmi a vedere la cerimonia che si svolge tutte le sere al confine tra India e Pakistan.
 

L'unica strada che per decenni ha collegato due tra i Paesi piu' popolosi del mondo, unendo come un filo interdentale il Punjab indiano a quello pakistano, viene interrotta tra la cittadina di Wagah e quella di Atari da una spessa cancellata, presidiata da decine di guardie di frontiera e che ogni giorno viene chiusa prima del tramonto. Il momento e' scandito con un'elaborata cerimonia di ammaina bandiera e da un'ancor piu' complessa celebrazione della chiusura del confine. I militari di entrambi i Paesi - rigorosamente con barba e baffi e appositamente addestrati - si esibiscono in coreografie muscolari che prevedono sguardi in cagnesco, gesti minacciosi e soprattutto l'ostentazione di un passo dell'oca col testosterone, nel quale i soldati calciano l'aria, sollevano la gamba in posizione verticale e arrivano a sfiorarsi il naso con il ginocchio. 


Le tensioni tra le due nazioni, per mezzo secolo, sono state sublimate cosi', con una quotidiana dichiarazione di intenti, una messinscena delle ostilità e una pantomima di una guerra. Nonostante nel 2010 un generale pachistano avesse chiesto di abbassare di un'ottava il tenore aggressivo della cerimonia, restava un momento teatrale ma anche carico di pathos. Tanto piu' che sul lato indiano e' stato costruito una specie di anfiteatro che ospita migliaia di persone inneggianti ai militari di Delhi come se fosse - appunto - un conflitto bellico. Il versante pakistano è più spoglio, con una manciata di file di sedie di plastica rigida disposte ai lati della strada. Ma proprio li', appena 3 anni prima, un attentato suicida dei terroristi di Jamaat-ul-Ahrar aveva provocato la morte di 60 pakistani. 
Tutti motivi validi per seguire la cerimonia con un minimo di apprensione, che non ci facciamo mai mancare.  


Ammainate le bandiere e chiusa la cancellata, i militari ci chiesero di sgomberare l'area. 
Non me lo feci ripetere. L'aria era pesante, o forse ero che continuavo a sentirla così.
Ali' mi porto' a casa sua, a conoscere la moglie e la figlia, quindi a spasso per Lahore, dove mi mostro' i nuovi quartieri alla cui progettazione stava lavorando il suo studio di architettura. 
Lungo la strada incrociammo molti mendicanti transgender. Il primo giorno a Lahore ne avevo visti un paio, ma l'abitacolo dell'auto di Ali' mi offriva una prospettiva privilegiata su un fenomeno sociale e culturale tanto antico quanto anomalo. E - almeno per me - imprevedibile. 
khwaja sira, il terzo sesso, sono i lontani eredi degli eunuchi, i primi schiavi arrivati in Asia a partire dall'anno Mille, e che nelle corti moghul del XVI secolo avevano assunto incarichi di responsabilità come consiglieri politici, come generali o come personale a guardia degli harem. 
Oggi e' rimasta loro soprattutto una presenza nella societa' accettata dalla gente e certificata dalle autorità. Nel 2009 la Corte suprema riconobbe ufficialmente l'esistenza di un terzo genere, ma decise di definire eunuchi quel milione e mezzo di persone che non si sentono ne' uomini ne' donne. 
Anche se solo una piccola percentuale di loro opta ancora per la castrazione.


Riuniti in associazioni che ne rivendicano i diritti ma anche in organizzazioni di lavoratori e in corporazioni di mestieri, i khwaja sira si esibiscono spesso in gruppo come ballerini di khatak alle feste di compleanno e ai matrimoni, oppure escono per strada al tramonto, vestiti con coloratissimi shalwar kameez, e si dedicano principalmente a due attività: il sesso a pagamento e l'elemosina. 
In un Paese apparentemente granitico nelle convinzioni e rigido nella separazione dei ruoli e dei sessi, dove per migliaia di chilometri quadrati alle donne non viene neanche consentito di muoversi all'aperto, improvvisamente Lahore proponeva un orizzonte sbilenco: decine di migliaia di persone nate uomini e cresciute donne non sono venivano riconosciute e accettate, ma ricevevano anche un sostegno economico da parte di chi si poteva permettere di elargire qualche spicciolo al semaforo.  
A riprova della complessità del Pakistan, la media borghesia locale sembrava piu' tollerante di quanto si potesse immaginare dall'esterno. Persino piu' tollerante della media borghesia europea. 
Oltre all'apertura verso il diverso, pero', quella bonomia senza paternalismo era anche figlia della superstizione: i trans che si avvicinavano alle auto chiamando gli occupanti prince darling, non erano solo apprezzati per le loro lusinghe, ma anche benvoluti per le benedizioni e temuti per le maledizioni (le badduas) che - secondo la credenza popolare - sono in grado di lanciare.


Ali' accolse il suggerimento di Aisam Qureshi, del quale era un grande estimatore, e mi porto' a cena sul tetto di un ristorante costruito in una via pedonale che lambiva la moschea Badshahi. 
Con le luci artificiali, l'edificio era se possibile ancora piu' bello che in pieno giorno. 
Mangiammo bene e tanto: era il mese di Ramadan, e anche io nei dieci giorni precedenti mi ero impegnato ad osservare il digiuno durante le ore diurne. Per vedere l'effetto che fa, ma anche per evitare il letale street food in vendita nel nord del Paese. Mi ero concesso poche e piccole deroghe, limitate a qualche sorso d'acqua quando stavo per soccombere alla calura. 
Ali' mi fece rimpinzare con ogni tipo di carne - shawarmamurgh massalam gosht karahi - e poi pago' anche il conto. 
Satollo, esausto e a corto di sonno, dormii profondamente e senza che i sogni fossero turbati da porte sfondate. 
Quando mi svegliai, informai James che era arrivato il mio ultimo giorno pakistano.
"It's good for my stress level", commento' lui, che oltre a continuare a monitorare la situazione e a fare da tramite con le autorita' australiane negli Emirati era stato anche investito del compito di non rivelare ai componenti della famigghia quel che era successo.


Trascorsi l'ultima giornata camminando per il centro, tra un taglio di capelli, la riparazione dello schermo del telefono e qualche altra decina di incontri occasionali.  
Nel tardo pomeriggio, infine, Alì mi venne a prendere al Premier Inn e mi accompagnò in aeroporto. Non prima di aver sostato di fronte alla villa dei Qureshi per una foto-ricordo. 
Ci abbracciammo davanti all'ingresso dello scalo di Lahore, intitolato al poeta Iqbal. 
Poche ore dopo, atterrai ad Abu Dhabi e l'indomani mattina, senza aver chiuso occhio, arrivai a Roma, dove mi catapultai al Foro Italico per dedicarmi agli Internazionali d'Italia di tennis. 
Una volta li', ricevetti un messaggio di Ali' : "Take care, my friend....With love and best wishes from Pakistan. Stay blessed and happy". 
Poi indugiai sulla notizia battuta dai media mediorientali. 
Un'operazione di polizia condotta a Lahore, nel quartiere di Garhi Shahu, aveva portato all'arresto di sei sospetti terroristi di Jamaat-ul-Ahrar e dei TTP, i talebani pakistani, responsabili dell'attentato al tempio sufi di Data Darbar. 
L'avevo scampata per un soffio.