Pakistan 2019 (I)
"A Lahore c'e' stato un attentato. Stai bene?".
C'ero appena arrivato, a Lahore, quando il telefono si collego' al wi-fi del terminal degli autobus e lo schermo comunico' la novella via Whatsapp. Ero in giro dalle prime ore del giorno, l'unico pasto era consistito in un pacchetto di patatine rimediato in una stazione di servizio e - oltre che affamato - ero anche abbastanza stanco. Avevo fretta di raggiungere l'hotel Premier Inn, che a dispetto delle manie di grandezza di chi lo aveva battezzato cosi' era un alberghetto da quindici euro a notte nella zona della stazione ferroviaria, nel quartiere di Garhi Shahu. Prima di staccarmi dal wi-fi, pero', era il caso di informarmi. Possibilmente senza allertare il mittente del messaggio.
Tutto ok, risposi.
Mi sedetti su una panca e ci rimasi il tempo di una ricerca su Google.
Il web sputacchio' una breve: poche ore prima, un attentato suicida davanti all'ingresso del piu' sacro dei templi sufi del Paese era costato la vita a 13 persone, tra le quali 5 poliziotti. Il Pakistan non era nuovo a simili spargimenti di sangue: secondo alcune stime, erano 35mila le persone che avevano perso la vita negli ultimi 20 anni a causa di atti di terrorimo, senza contare quelle decedute nella cosiddetta Guerra al Terrore seguita agli attentati dell'11 settembre. Il Pakistan c'era finito dentro fino al collo, stritolato tra l'incudine dell'amicizia formale con gli Stati Uniti e il martello della sudditanza sostanziale ai fondamentalisti di ogni risma, ai loro ricatti e alla penetrazione in alcune sacche della popolazione.
Nonostante fosse in Pakistan che al Zawahiri aveva conosciuto Osama bin Laden e sebbene l'architetto degli attentati, Sheikh Khalid Mohammed, fosse stato addestrato a Peshawar, il Paese non era stato considerato direttamente responsabile degli attacchi alle Torri Gemelle e nel 2001 era stato risparmiato dai raid americani. Di quella relativa tranquillita' avevano finito per approfittare tutti, a cominciare dai membri di al Qaeda fuggiti dall'Afghanistan che lo avevano eletto a quartier generale, secondo qualcuno con il beneplacito del presidente pakistano Musharraf. Il Mullah Omar aveva preso casa a Quetta e lo stesso bin Laden aveva deciso che era piu' sicuro nascondersi ad Abbottabad, la piu' grande citta' del nord del Pakistan (che per di piu' ospitava un'enorme base militare USA) che rifugiarsi in una grotta nei pressi di Kandahar.
Aggiungendo nel minestrone le spinte separatistiche del Belucistan e il conflitto permanente con l'India per il Kashmir, ne usciva fuori un pappone indigesto nel quale storicamente i primi a rimetterci le penne erano stati i leader politici: dal primo ministro Liaquat Ali Khan, assassinato con un colpo d'arma da fuoco a Rawalpindi nel '51, al misterioso incidente aereo che nell'88 era costato la vita al presidente Muhammad Zia ul-Haq, fino all'uccisione di Benazir Bhutto per mano di al Qaeda nel 2007. Governo e popolazione civile pakistana erano stretti nella morsa tra Islam moderato e Islam radicale, tra le ragioni dell'Occidente e la rabbia dei jihadisti. Il Paese era ogni giorno piu' debole e insicuro e l'attentato suicida al Data Darbar, il quinto dall'inizio del 2019, rientrava nel perimetro della normalita'. Per questo meritava si' e no di una breve.
Di diverso, per me e solo per me, c'era che stavolta da quelle parti c'ero pure io.
Per una settimana avevo percorso in su e in giu' la Karakorum highway. Duemila chilometri da Islamabad fino al confine cinese, i 4700 metri del Khunjerab pass, e ritorno. Attraverso montagne e deserti, scenari mozzafiato e villaggi depressi, spettacolari formazioni naturali e mastodontici cantieri. Avevo posato gli occhi sul Nanga Parbat, sulla cattredale di Passu e sulla splendida valle di Hunza con i suoi peschi e i suoi albicocchi in fiore. Avevo sostato nel punto in cui convergono Himalaya, Hindu Kush e Karakorum e nel tratto in cui il fiume Indo separa il subcontinente dal resto continente asiatico, nel quale una quarantina di milioni di anni fa la placca indiana era entrata in collisione con quella euroasiatica e aveva gettato le fondamenta del tetto del mondo. Avvicinandomi al quale, mi ero imbattuto in yak, marmotte e stambecchi e avevo annusato la stessa aria rarefatta dei leopardi delle nevi. Avevo attraversato laghi artificiali e dormito in villaggi di pietra, avevo regalato scarpe, maglioni, penne e palloncini. Avevo messo piede su un ponte sospeso estremamente instabile e divorato tre libri tra i tornanti, senza che lo stomaco ne risentisse piu' di tanto. Soprattutto, avevo visto un'umanita' incredibilmente varia.
Il nome del Paese nasce negli Anni 30 del Novecento dall'idea di un giornalista, Ghulam Hassan Shah Kazmi, mosso dal desiderio di trovare un minimo comun denominatore ad un mosaico di popoli uniti soprattutto dal loro credo religioso. Il nome Pakistan risponde ad entrambe le esigenze: da una parte e' l'acronimo originato dai vari gruppi etnici - Punjabi, Afghani, Kashmiri e Indu-Sind (oltre al suffisso -stan, Paese, che strizza l'occhio anche al Belucistan) - e al contempo rende omaggio all'unico tratto comune alla stragrande maggioranza dei 250 milioni di abitanti, uniti dalla fede musulmana e per questo convinti custodi della terra dei Paki, cioe' dei puri. Una terra di mezzo tra India e Medio Oriente, tra Golfo Persico e Asia centrale, una costellazione estremamente frammentata, nel quale convinvono una settantina di lingue e quella franca - l'urdu - e' il primo idioma di appena il 7% della popolazione. Una terra nella quale la Repubblica Islamica nata dal collasso dell'Impero britannico e dalla partizione del subcontinente indiano e' si' composta al 96% da musulmani, ma il cui modo di sentire, vivere e interpretare la religione corre a velocita' molto diverse tra loro.
Allo sguardo straniero, ovviamente, le differenze sono anzitutto estetiche, prima ancora che culturali, linguistiche e identitarie. Proprio li', nell'ultima porzione di mondo mappata dai geografi, dove per millenni gli abitanti erano rimasti isolati, vari popoli avevano finito per incrociarsi e mescolarsi in modo insospettabile. Nel raggio di pochi chilometri, ai tratti tipici del subcontinente si sostituiscono quelli mediterranei e quelli mongoli, i capelli neri si alternano a quelli rossi, gli occhi verdi prendono il posto di quelli scuri, i tagli tondeggianti si sovrappongono a quelli a mandorla. Tra gli uomini, tutto cio' si traduce in modi diversissimi di aggregarsi, discutere e interagire; ma e' nelle donne che la forbice tocca gli estremi.
Se nel profondo nord del Pakistan le bambine, le ragazze e le signore appaiono emancipate e non indossano neanche il velo, pochi chilometri piu' a sud gli esseri umani di sesso femminile si volatilizzano, spariscono dai radar. In tre giorni ne avevo vista solo una. Rannicchiata in un angolo, il corpo avvolto nel burka, rivolta verso il muro, a testa bassa. Ad occupare il minor spazio possibile, a mimetizzarsi con la parete, a cercare di rendersi invisibile. Il marito, o chiunque fosse l'uomo al quale la donna si accompagnava, era sul ciglio della strada in attesa di un minivan.
Altrove, neanche quell'incontro. Solo uomini. Per 200 chilometri, tra Battagram e Chilas, nel cuore del Khyber Pakhunkhwa, la regione a maggioranza Pashtun, nient'altro che uomini.
A Chilas trascorsi un pomeriggio e una notte. Il pomeriggio fu pieno di incontri, la notte di fantasmi. La cittadina si appoggia al letto del fiume Indo, che per anni ne ha alimentato la vita e che in futuro dovrebbe facilitarne lo sviluppo, ma che intanto ne condiziona il presente. Proprio in quei giorni erano infatti partiti i lavori di costruzione di un'enorme diga, la Diamer-Basha, che in attesa di garantire la produzione di 4800 megawatt di energia, prima di assicurare un efficace sistema di irrigazione e persino riserve di acqua potabile, ha portato il governo a stanziare 14 miliardi di dollari statunitensi e le tensioni con l'India a riaccendersi. Secondo Delhi, infatti, quella regione e' una costola del Jammu-Kashmir e pertanto il governo di Islamabad la occupa indebitamente. Investire in un progetto cosi' imponente - secondo l'India - equivale a piantare radici nel giardino altrui, a marchiare un territorio che in realta' non appartiene all'insolente vicino. Oltre a fornire l'ennesimo pretesto per uno scontro diplomatico, la diga, il cui completamento e' previsto nel 2028, finira' per sommergere importanti petroglifici buddhisti, per indurre all'abbandono di 35 villaggi, alla demolizione di 4100 abitazioni e al trasloco di 35mila persone. Intanto, pero', l'opera e' riuscita a far parlare di Chilas per ragioni meno inquietanti del solito.
Sei anni prima, la cittadina era finita sui media perche' proprio da li' era partita l'imboscata talebana ad un gruppo di alpinisti europei che si apprestavano a salire sul Nanga Parbat, la nona montagna piu' alta della Terra. Nella notte tra il 22 e il 23 giugno 2013, un commando di 16 jihadisti del TTP - la costola pakistana dei talebani - aveva sorpreso nel sonno e massacrato 11 scalatori che dormivano nelle tende allestite nel campo base a 4200 metri di altitudine. Per arrivare fin li', i talebani avevano sequestrato due guide, una delle quali poi morta a sua volta nello scontro a fuoco. Dopodiche', al grido Allah Akhbar avevano compiuto la carneficina, per vendicare la morte di Osama bin Laden. Solo un alpinista cinese che si era allontanato poco prima dall'accampamento si era salvato. Nei giorni successivi, la polizia del Gilgit-Baltistan aveva arrestato 37 sospetti, grazie alle cui testimonanize le autorita' erano arrivate a tal Shafi Muhammad, un locale che aveva ospitato i talebani nella sua casa di Chilas. Le indagini che erano seguite avevano fatto saltare l'ennesimo tappo che aveva dato il la' alla violenza: due mesi dopo il massacro, tre inquirenti erano stati uccisi a sangue freddo da un commando talebano in un quartiere di Chilas. In tutto, solo cinque persone coinvolte nell'imboscata erano finite in carcere, e di queste un paio erano riuscite anche a scappare. Insomma, era probabile che a Chilas circolassero parecchi soggetti con la fedina penale sudicia e qualche ceffo con le mani insanguinate.
E che molti altri avessero il dente avvelenato con quelli come me.
I pashtun sono circa 65 milioni, tanti quanti i francesi. Circa due-terzi vivono in Pakistan e se si esclude una trascurabile percentuale di diaspora, quasi tutto il terzo rimanente popola l'Afghanistan. Orgogliosamente sunniti, fino agli Anni 80 del secolo scorso erano considerati seguaci della non-violenza: Abdul Ghaffar Khan, uno dei loro leader pakistani, nel corso della sua quasi centenaria esistenza aveva costituito il primo esercito non violento della storia. I suoi Khudai Khidmatgar, i Servi di Dio, giuravano di praticare le buone maniere e i comportamenti corretti, di perdonare i nemici, di non fare ricorso alla violenza e alla vendetta e di servire l'umanita' nel nome di Dio. Ai coloni britannici avevano opposto una resistenza passiva che era valsa a Basha Khan il soprannome di Ghandi musulmano. La storia dei pashtun e della loro immagine planetaria era pero' cambiata drasticamente con l'invasione sovietica dell'Afghanistan: un decennio di guerra a difesa della propria terra condotta con l'ausilio di 3 miliardi di dollari di munizioni fornite dall'amministrazione Reagan e la valanga di petrodollari arrivati dalle monarchie del Golfo aveva accelerato la metamorfosi dei pacifici servi di Dio in combattenti mujaheddin. Dai quali i talebani avrebbero ereditato armi, acciaio, abitudini e aria poco amichevole.
Finita la guerra e crollati i muri ideologici, infatti, l'Afghanistan era rimasto fortemente instabile ed era andato incontro ad una guerra civile nella quale i vecchi combattenti erano stati prima affiancati e poi gradualmente rimpiazzati da una nuova generazione di schegge impazzite: i giovani pashto culturalmente e religiosamente formati nelle madrase dei campi profughi. Allevati nelle scuole coraniche e radicalizzati nel wahhabismo, gli studenti, i taliban, erano stati costituiti nel 1994 dal Mullah Omar e nel giro di pochi anni si sarebbero presi il Paese, con l'appoggio dei cugini pakistani e il placet della monarchia saudita. Chiaramente tutti (o quasi) i talebani sono di etnia pashtun, mentre non tutti i pashtun hanno sposato in toto l'estremismo dei talbani. Ma se c'e' un'area del Pakistan nel quale lingua e cultura pashto vanno a braccetto con il pensiero radicale in voga tra i jihadisti, quella e' Chilas.
Pashtun si riferisce specificamente agli esponenti delle tribu' seminomadi dell'attuale Afghanistan, mentre per indicare i gruppi che vivono tra Peshawar e il Pakistan settentrionale si dovrebbe usare il termine pakhtun, coniato per deformazione fonetica dagli inglesi. Ma nella sostanza non ci sono grosse differenze, anzi. I pashtun rappresentano il classico esempio di un popolo separato da una frontiera legale ma non culturale. Una frontiera anche per questo estremamente fluida e permeabile. Praticamente un colabrodo. In cima al loro codice comportamentale c'e' la melmastya, l'ospitalita'. Seguono la nanawatai, ovvero la protezione di qualcuno contro i suoi nemici e poi a cascata il coraggio e la fedelta'. Come in qualsiasi societa' e in ogni sistema il problema sorge nel momento in cui subentrano questioni piu' soggettive come come la giustizia, l'onore e la vendetta. Nel momento in cui la giustizia contempla la terza nel nome del secondo, casca l'asino. Ogni atto, ogni gesto e ogni atteggiamento possono essere accusati di infrangere leggi e infangare l'onore e possono imporre una vendetta, nel nome di una giustizia, divina o terrena. Per turbare l'onore e l'onorabilita', soprattutto in certi ambienti suscettibili, puo' bastare uno sguardo, una domanda, un'allusione, un sospetto. O un foto. Bucce di banana che non solo raramente evito, ma con le quali decido di disseminare il percorso.
La mia attrazione fatale per i luoghi remoti, per le chiacchiere, per le curiosita' e per la fotografia ha sempre fatto si' che la domanda piu' ricorrente che mi sia sentito rivolgere sia stata: "Sei un giornalista?".
Chilas non fece eccezione.
Oltre ad un comportamento sul filo che rischia di sconfinare nell'eccesso di confidenza, pago poi il peccato originale del colore dell'epidermide. Ci sono mondi nei quali la pelle chiara rappresenta un marchio di infamia. L'Occidente non solo e' il ricco scemo, ma e' anche il latifondista con le mani curate perche' la terra tanto la zappa qualcun altro, l'amministratore delegato col Rolex d'oro che se va bene ti ringrazia per il contributo dato all'azienda mentre tu arrivi a stento a fine mese, lo strozzino che con una mano aiuta e con l'altra si fa pagare anche gli interessi per l'aiuto dato. In Pakistan, l'occidentale non e' la causa di tutti i mali, perche' la lista dei nemici brutti e cattivi e' lunga, ma e' quello che tra soprusi concreti a monte e reiterazione degli errori a valle, va in giro con il fumo che esce ancora dalla pistola.
Ergo, ogni suo figlio puo' essere considerato responsabile delle malefatte della Storia e a lui si puo' applicare il codice che prevede accoglienza per ogni ospite e vendetta per ogni insulto.
O colpa. O vessazione.
Non che io ne avessi commesse, eh. Anzi, se una cosa ho cercato di trasmettere, sempre e ovunque, e' che io con la Regina Vittoria non ho mai avuto rapporti. Ok, mi si potrebbe obiettare che i miei genitori hanno vissuto una vita relativamente agiata anche grazie ai soldi del piano Marshall e che quindi tanto loro quanto io siamo frutti dell'imperialismo americano imbevuti dei loro sottoprodotti culturali. Lo ammetto e lo accetto. Ma visto che per agiata intendo un tre camere all'Appio Latino, una station wagon di seconda mano, uno scooter e un appartamentino in multiproprieta' in Sicilia - solo per tre settimane all'anno - sono autorizzato a sentirmi abbastanza estraneo ai soprusi dell'Occidente nei confronti del mondo in via di sviluppo. Tra l'altro posso garantire di non averne beneficiato, non direttamente e non volutamente, e per di piu' posso assicurare che non potro' mai permettermeli, un tre camere all'Appio Latino e una multiproprieta' in provincia di Ragusa. Quindi alla lunga la Storia riportera' me e quelli come me in un angolino, altro che figli della lupa e unici eredi di un grande Impero. Quindi nel frattempo prendetevela con qualcun altro, di grazia, perche' anche io nel mio piccolo sono un ultimo. Magari non in assoluto, ma nella mia societa' si'. E, almeno di principio, lotto insieme a voi contro i padroni del vapore. Questo avevo sempre cercato di trasmettere. Non a parole, chiaro. E per rafforzare il concetto, mi ero sempre tenuto alla larga dai viaggi organizzati e mi ero esposto in prima persona al rischio di rimediare cartoni revanscisti sullo zigomo.
Lo feci, a maggior ragione, quando bussai a casa dei talebani.
Trascorrere del tempo assieme a loro, per di piu' a casa loro da ospite non esattamente invitato, costituiva un rischio su vari piani. Lo corsi confidando su due carte: la bandiera bianca e l'effetto-sorpresa. In qualsiasi situazione mi fossi messo o trovato fino ad allora, avevo capito che i locali tendono ad accettare e premiare chi si espone e si mette in gioco. Le comitive e i gruppuscoli creano un filtro, un muro, di fronte al quale gli abitanti di un posto si sentono nella migliore dei casi osservati con albagia e alterigia, nella peggiore trattati come animali da zoo. La voragine che si crea tra noi e loro determina i ruoli e cristallizza gli atteggiamenti: piu' i visitatori camminano in gruppo, mangiano in gruppo, si muovono e dormono in gruppo, per di piu' in piccole torri d'avorio, limitando le occasioni di incontro, piu' trasmettono una paura del confronto e del contatto con l'altro. Che in teoria sarebbe pure il padrone di casa. Questa serie di fattori genera negli autoctoni disistima e ostilita' verso chi ha le possibilita' e i mezzi per presentarsi a casa tua ma non ha la voglia, la passione e gli attributi per farsi carico dei costi e dei benefici connessi.
I costi attengono ai rischi per la propria incolumita' (non solo per la flora batterica), mentre i benefici sono incommensurabilmente maggiori. La conoscenza diretta, il rapporto umano, lo scambio di regali che il contatto col mondo esterno offre. Quando lo scambio avviene alla pari, non solo gli avventori trovano nei locali il biglietto da visita di un Paese, ma e' vero anche il contrario. Quando sei il primo, l'unico, o uno dei pochi ambasciatori di un posto a visitare una certa area del mondo, volente o nolente finisci per sentirti un dono del cielo o almeno ambasciatore di buona volonta'. Non solo investito del compito di conoscere il piu' possibile di quel posto per portarne a casa dei frammenti, ma anche del compito di portare un po' delle tue radici in un angolo di mondo i cui abitanti non avranno mai la fortuna di poter viaggiare e conoscere il tuo. Negare a se stessi un'esperienza del genere non solo e' limitante rispetto alle potenzialita' della vita e del viaggio, ma ti espone al rischio di essere trattato come le tue scelte impongono: come un ricco pusillanime, come un estraneo senza interesse, come un pollo da spennare. Viceversa, il mettersi in gioco e l'affrontare di petto le realta' locali, soprattutto se da solo, nella maggior parte dei casi genera nei locali curiosita' umana e rispetto per il coraggio, l'incoscienza e lo spirito di avventura. Essendo poi io dotato di un set di incisivi piuttosto prominenti, ero sempre riuscito a comunicare apertura, giovialita', autentico interesse e gioia per l'incrocio dei flussi. Approdare in quel momento in quella parte del mondo era quanto di piu' vicino a mettere piede in una dimensione parallela, nella Fossa delle Marianne o sulla Luna. Tradurre quell'immensa, adrenalinica, fortuna in un sorriso entusiasta avrebbe aumentato anche a Chilas le probabilita' che nessun talebano mi sgozzasse.
Corsi il pericolo confidando pure nell'effetto-sorpresa. Anche nei peggiori bar di Caracas e' raro che qualche malintenzionato aspetti il tuo arrivo, ed e' quasi altrettanto raro che la visione di un soggetto estraneo, per quanto potenzialmente vulnerabile, degeneri subito in un'aggressione non pianificata. A meno che - Benguela docet - non finisci in bocca a due marginais e ti chiudi pure in un cul de sac. Fatto sta che anche a Chilas nessuno mi punto' un kalashnikov alla tempia. Ne' il primo gruppetto di talebani, impegnati a sistemarsi i peli della barba ne' tutti gli altri - tutti rigorosamente uomini - con i quali scambiai alcune frasi. Falegnami, calzolai, operai, meccanici, venditori di frutta e verdura, avventori di un chiosco del te', mi sembrarono in qualche caso ben disposti, ma piu' spesso sorpresi di vedere un occidentale da quelle parti. La loro sorpresa era anche la mia. Anche a Chilas mi chiesi perche' fossi li' e chi me lo avesse fatto fare.
Eppure trovai l'ardire di scattare un sacco di foto. Per la prima volta, oltre all'immancabile reflex, avevo portato con me un cellulare dotato di una fotocamera decente. La delusione per le immagini rilasciate dalla mia Nikon negli ultimi anni si era unita alla necessita' di non dare troppo nell'occhio. Bastava la mia presenza a mettermi in una situazione potenzialmente pericolosa. Non c'era bisogno che alla mia presenza aggiungessi quella di un tele-obiettivo, che tra l'altro mi avrebbe fatto passare per fotoreporter o per una spia. O comunque per uno la cui vita valeva meno della sua fotocamera.
La mia ex mi aveva cortesemente prestato il suo ultimo telefonino - un Google Pixel 4 - con il quale riuscivo a catturare immagini discrete in maniera poco invasiva. Gli interlocutori non si sentivano al centro di un servizio fotografico, io non mi sentivo troppo osservato e potevo persino premere l'otturatore mentre discutevamo, senza distogliere lo sguardo dall'interlocutore. D'altra parte ero arrivato sulla Luna; resistere alla tentazione di immortalare quegli istanti era impossibile.
"Ho combattuto coi talebani in Afghanistan", mi disse un uomo la cui giovinezza era sfiorita ma che non avevo perso lo spirito d'iniziativa. Mi venne incontro mentre camminavo lungo la Karakorum highway, che nel centro cittadino di Chilas diventava poco piu' di una stradina a due corsie, e mi mostro' dell'hashish. Non feci fatica a declinare la proposta. L'uomo aggiunse che la guerra era stata vinta, perche' gli americani se n'erano andati e il potere era rimasto in mano ai buoni, i talebani, appunto. Una profezia che si sarebbe definitivamente avverata entro due anni.
Il pomeriggio a Chilas trascorse cosi', tra chiacchiere e fotografie.
Poi, incamminandomi verso l'hotel, incrociai un enorme veicolo corazzato dell'esercito che procedeva in senso contrario. Era la prima testimonianza della presenza dello Stato in quella cittadina.
"Ti hanno cercato", mi disse il signore alla reception, quando tornai nel Grace hotel, un vecchio edificio trasformato in albergo. Le stanze, spartane e disperatamente bisognose di una scozzonata e di una mano di bianco, erano disposte in fila, e guardavano verso una corte interna.
"La polizia e' venuta a chiedere di te", aggiunse l'uomo.
(continua)
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