venerdì 29 agosto 2014

The Tetere Redemption

La strada è dissestata come da copione. Inevitabile, in una Nazione del Terzo Mondo che balla appena sotto la linea dell’equatore ed è reduce da un decennio di guerra. Storia e natura hanno fatto delle Salomone un laboratorio sperimentale, e prima ancora che dallo tsunami del 2009 e del terremoto del 2013, le infrastrutture del sono state messe a soqquadro dalla guerra civile che tra il ’97 e il 2003 è costata la vita a 30mila persone. Durante i tumulti, per rallentare la corsa dei ribelli della provincia orientale di Malaita verso Honiara, era necessario che le arterie stradali fossero accidentate. E ancora oggi per coprire i 30km che separano la capitale dalla prigione di Tetere ci vuole piu' di un’ora. Se non altro, l’ultimo conflitto inter-etnico che ha insanguinato l’arco di instabilità a nord del dodicesimo parallelo si è risolto con una vera pace sociale. Le lingue parlate sulle 992 isole sono una settantina e le etnie rimangono fiere della loro identità, ma dopo gli scontri del 2006 i problemi irrisolti sono rimasti quelli economici e ambientali, non certo quelli di ordine pubblico.
Oggi la popolazione carceraria dell’arcipelago è di 321 persone* e la percentuale di cittadini dietro le sbarre è di 55 ogni 10.000 abitanti. Un dato in linea col Giappone e più basso di quelli dei Paesi scandinavi; quasi 3 volte inferiore all’Australia e 13 volte meno degli Stati Uniti. Tra i detenuti, 3 sono donne, e nessuno – almeno ad ottobre scorso - è straniero. Prima di finire tra i protettorati della Regina, gli isolani non conoscevano la tradizione dell’incarceramento e della privazione della libertà, tanto che fino agli Anni 60 la prigione di Rove, la principale del Paese, era un ampio luogo aperto e senza sbarre. C’è voluto 1 milione di dollari devoluto dalla Nuova Zelanda per trasformare la struttura, che proprio per questo suscita agli occhi dei solomoni l’orrore maledetto del luogo dantesco. Chi entra lì dentro, lascia ogni speranza di uscirne vivo.
Non perché lo attenda il braccio della morte, ma perché indulti, grazie, assoluzioni e sconti di pena sono pratiche sconosciute. L’obiettivo massimo, una volta in gattabuia, è che anni di buona condotta convincano le autorità carcerarie e giudiziari a dirottare il detenuto verso un regime più soft . In quel caso, solo in quel caso, i reclusi finiscono i loro giorni a Tetere. 
La prigione, l’anello di congiunzione tra quello che era e quello che è il sistema carcerario nazionale, è circondata su tre lati da una fitta schiera di alberi altissimi. Il legname costituisce l’80% delle esportazioni del Paese, mentre in barba ad un nome che richiama miniere di oro del mitico re biblico il resto è rappresentato esclusivamente da copra, olio di cocco e pesce. Sul quarto lato c’è il mare, appunto.
Al di là del cancello si entra in un’area vasta e piatta, con caseggiati ad un solo piano e tanto verde e un’atmosfera rilassata, nella quale si fa fatica a distinguere i detenuti dai secondini. Fino a 20 anni fa, Tetere era un lebbrosario gestito da suore cattoliche, poi la malattia è stata circoscritta – non debellata, nel 2014 sono stati rivelati una trentina di casi in giro per la Melanesia – e la struttura è stata riconvertita. 
Nella perlustrazione mi accompagna Kitty, che a dispetto del nome è un uomo, è massiccio e indossa la maglia dei Parramatta Eagles. Le camerate da 8 sono spoglie ma dignitose, grigie ma luminose. E, soprattutto, non sono chiuse a chiave. I 17 detenuti hanno infatti solo un bagno comune a disposizione, e sarebbe crudele, oltre che illegale, impedire ai carcerati di espletare le funzioni fisiologiche.
A Tetere l’elettricità è limitata alla mezz’ora che segue le 18, durante la quale si ritrovano tutti davanti al televisore, ma pur nella sua lentezza la vita offre parecchio, e l ’organizzazione ricorda quella di un collettivo. Un po’ perché i fondi a disposizione scarseggiano, un po’ come forma di realizzazione personale, a rotazione tutti cucinano i pasti, lavano i bagni e le cucine, sistemano le camerate. Gestendo se stessi e la struttura in giornate che iniziano alle 6 di mattina, i reclusi imparano a relazionarsi, a responsabilizzarsi e anche un mestiere, sperando che un giorno possa tornare utile. C’è l’officina dove si apprende a diventare falegname, fabbro o meccanico, e c’è la terra da lavorare, per sostentare i prigionieri e le 22 guardie, che guadagnano 180 dollari al mese. 
Il vedere crescere tra le proprie mani un ortaggio o una sedia aiuta a processare la colpa della quale ci si è macchiati e riempie i polmoni di ossigeno e buoni propositi. A Tetere non si respirano rabbia e rassegnazione, vendetta o angoscia, ma vitalità e speranza. Dolore sì, perché i cari sono lontani e perché la lucidità rende più chiari i propri errori. Ma c’è soprattutto voglia di riscatto e di normalità. 
I 30 detenuti sognano la libertà, ma hanno ragioni sufficienti per vivere il presente. E fra tutte, ne spicca una.
I sorrisi sui volti e il fermento che anima la prigione, quando arrivo, dipendono dal fatto che oggi è venerdì. Significa che da venerdì scorso è passata un’altra settimana, di vita, scoperte e allenamenti. Significa che il cancello si apre verso il resto del mondo come succede solo una volta ogni sette giorni. Il grande campo che confina con la strada diventa il Maracanà, il Bernabeu, l’Old Trafford. Ad attenderli c’è un gruppo di ragazzi venuti da Honiara e che ha sfidato le buche a bordo di un furgone perché anche loro – per una settimana intera – non hanno pensato ad altro. Ad un unirsi a loro, proprio in quell’istante, compare un convoglio che trasporta 5 reduci dalla prigione di Rove. Ex compagni di cella che non fanno in tempo ad uscire dal cellulare che si ritrovano un paio di Lotto di seconda mano ai piedi.
L’erba è alta, le righe sono appena visibili, le reti sono sbrindellate, il pallone è sull’orlo dell’implosione. Eppure nel momento in cui detenuti e guardie carcerarie indossano la maglietta governativa con l’acronomo SIG e calzano le Lotto di seconda mano rimediate in un negozio in città, le differenze tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo, tra il mai e il per sempre, spariscono, il presente torna ad avere un senso, il futuro un orizzonte. E lì capisci una volta per tutte il potere di quella sfera cucita a mano. 
La livella. 
Per la cronaca, finisce 2-2.
(tratto da Thin White Line magazine n.2