La strada è dissestata
come da copione. Inevitabile, in una Nazione del Terzo Mondo che balla appena
sotto la linea dell’equatore ed è reduce da un decennio di guerra. Storia e
natura hanno fatto delle Salomone un laboratorio sperimentale, e prima
ancora che dallo tsunami del 2009 e del terremoto del 2013, le infrastrutture
del sono state messe a soqquadro dalla guerra civile che tra il ’97 e il 2003 è
costata la vita a 30mila persone. Durante i tumulti, per rallentare la corsa dei ribelli della
provincia orientale di Malaita verso Honiara, era necessario che le arterie stradali fossero accidentate. E ancora oggi per coprire i 30km che separano la capitale dalla
prigione di Tetere ci vuole piu' di un’ora. Se non altro, l’ultimo conflitto
inter-etnico che ha insanguinato l’arco di instabilità a nord del dodicesimo parallelo si è risolto con una vera pace sociale. Le lingue parlate sulle 992
isole sono una settantina e le etnie rimangono fiere della loro identità, ma dopo
gli scontri del 2006 i problemi irrisolti sono rimasti quelli economici e
ambientali, non certo quelli di ordine pubblico.
Oggi la
popolazione carceraria dell’arcipelago è di 321 persone* e la percentuale di
cittadini dietro le sbarre è di 55 ogni 10.000 abitanti. Un dato in linea col
Giappone e più basso di quelli dei Paesi scandinavi; quasi 3 volte inferiore
all’Australia e 13 volte meno degli Stati Uniti. Tra i detenuti, 3 sono donne, e nessuno
– almeno ad ottobre scorso - è straniero. Prima di finire tra i protettorati della
Regina, gli isolani non conoscevano la tradizione dell’incarceramento e della
privazione della libertà, tanto che fino agli Anni 60 la prigione di Rove, la
principale del Paese, era un ampio luogo aperto e senza sbarre. C’è voluto 1
milione di dollari devoluto dalla Nuova Zelanda per trasformare la struttura,
che proprio per questo suscita agli occhi dei solomoni l’orrore maledetto del luogo dantesco. Chi entra lì
dentro, lascia ogni speranza di uscirne vivo.
Non perché lo attenda
il braccio della morte, ma perché indulti, grazie, assoluzioni e sconti di pena
sono pratiche sconosciute. L’obiettivo massimo, una volta in gattabuia, è che
anni di buona condotta convincano le autorità carcerarie e giudiziari a
dirottare il detenuto verso un regime più soft . In quel caso, solo in quel
caso, i reclusi finiscono i loro giorni a Tetere.
La prigione, l’anello di congiunzione tra quello che era e quello che è il sistema carcerario nazionale, è circondata su tre lati da una fitta schiera di alberi altissimi. Il legname costituisce l’80% delle esportazioni del Paese, mentre in barba ad un nome che richiama miniere di oro del mitico re biblico il resto è rappresentato esclusivamente da copra, olio di cocco e pesce. Sul quarto lato c’è il mare, appunto.
La prigione, l’anello di congiunzione tra quello che era e quello che è il sistema carcerario nazionale, è circondata su tre lati da una fitta schiera di alberi altissimi. Il legname costituisce l’80% delle esportazioni del Paese, mentre in barba ad un nome che richiama miniere di oro del mitico re biblico il resto è rappresentato esclusivamente da copra, olio di cocco e pesce. Sul quarto lato c’è il mare, appunto.
Al di là del
cancello si entra in un’area vasta e piatta, con caseggiati ad un solo piano e
tanto verde e un’atmosfera rilassata, nella quale si fa fatica a distinguere i
detenuti dai secondini. Fino a 20 anni fa, Tetere era un lebbrosario gestito da
suore cattoliche, poi la malattia è stata circoscritta – non debellata, nel
2014 sono stati rivelati una trentina di casi in giro per la Melanesia – e la struttura è
stata riconvertita.
Nella perlustrazione mi accompagna Kitty, che a dispetto
del nome è un uomo, è massiccio e indossa la maglia dei Parramatta Eagles. Le camerate da 8 sono
spoglie ma dignitose, grigie ma luminose. E, soprattutto, non sono chiuse a
chiave. I 17 detenuti hanno infatti solo un bagno comune a disposizione, e
sarebbe crudele, oltre che illegale, impedire ai carcerati di espletare le
funzioni fisiologiche.
A Tetere l’elettricità è limitata alla
mezz’ora che segue le 18, durante la quale si ritrovano tutti davanti al televisore, ma pur nella sua lentezza la vita offre parecchio, e l ’organizzazione
ricorda quella di un collettivo. Un po’ perché i fondi a disposizione
scarseggiano, un po’ come forma di realizzazione personale, a rotazione tutti
cucinano i pasti, lavano i bagni e le cucine, sistemano le camerate. Gestendo
se stessi e la struttura in giornate che iniziano alle 6 di mattina, i reclusi
imparano a relazionarsi, a responsabilizzarsi e anche un mestiere, sperando che
un giorno possa tornare utile. C’è l’officina dove si apprende a diventare
falegname, fabbro o meccanico, e c’è la terra da lavorare, per sostentare i prigionieri
e le 22 guardie, che guadagnano 180 dollari al mese.
Il vedere crescere tra le
proprie mani un ortaggio o una sedia aiuta a processare la colpa della quale ci
si è macchiati e riempie i polmoni di ossigeno e buoni propositi. A Tetere non
si respirano rabbia e rassegnazione, vendetta o angoscia, ma vitalità e speranza.
Dolore sì, perché i cari sono lontani e perché la lucidità rende più chiari i
propri errori. Ma c’è soprattutto voglia di riscatto e di normalità.
I 30
detenuti sognano la libertà, ma hanno ragioni sufficienti per vivere il
presente. E fra tutte, ne spicca una.
I sorrisi sui
volti e il fermento che anima la prigione, quando arrivo, dipendono dal fatto
che oggi è venerdì. Significa che da venerdì scorso è passata un’altra
settimana, di vita, scoperte e allenamenti. Significa che il cancello si apre
verso il resto del mondo come succede solo una volta ogni sette giorni. Il grande
campo che confina con la strada diventa il Maracanà, il Bernabeu, l’Old
Trafford. Ad attenderli c’è un gruppo di ragazzi venuti da Honiara e che ha
sfidato le buche a bordo di un furgone perché anche loro – per una settimana
intera – non hanno pensato ad altro. Ad un unirsi a loro, proprio in
quell’istante, compare un convoglio che trasporta 5 reduci dalla prigione di
Rove. Ex compagni di cella che non fanno in tempo ad uscire dal cellulare che si ritrovano un paio di
Lotto di seconda mano ai piedi.
L’erba è alta, le righe sono appena visibili, le reti
sono sbrindellate, il pallone è sull’orlo dell’implosione. Eppure nel momento
in cui detenuti e guardie carcerarie indossano la maglietta governativa con
l’acronomo SIG e calzano le Lotto di seconda mano rimediate in un negozio in città,
le differenze tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo, tra il mai e il
per sempre, spariscono, il presente torna ad avere un senso, il futuro un
orizzonte. E lì capisci una volta per tutte il potere di quella sfera cucita a
mano. La livella.
Per la cronaca, finisce 2-2.
(tratto da Thin White Line magazine n.2)
(tratto da Thin White Line magazine n.2)
6 commenti:
vorrei scrivere qualcosa per prenderti in giro, as usual. ma, in mancanza di tuoi pronostici per gli us open, non mi sovviene nulla....bravo dariu'.
Bravo de che, Biondi'? Nishikori non lo avrei pronosticato, Cilic purtroppo neanche. Condoglianze in ritardo per i 4 anni...
per il pezzo....grazie. io avevo puntato su federer (che ormai non vincerà mai piu uno slam) e su serena. buona ebola...
Complimenti anche da parte mia. Pensa...
Ermanno
...e anche da parte mia....anche se le "condoglianze" fatte al mio maritino hanno un po' mitigato il mio entusiasmo per il tuo pregevole pezzo :-D
Amazing! F&L
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