"Come ti chiami? Da dove vieni? Dove vai?". Un fiorino. Che l'interlocutore sia un panettiere o un bibitaro, un albergatore o un vicino di bus, un monaco, un pescatore o un poliziotto, quando si viaggia da soli non si scappa da queste domande in sequenza. A una media di dieci ripetizioni al dì, saro' arrivato a quindicimila repliche, tanto che un tempo sapevo recitare il copione delle risposte a memoria in russo, in arabo e quasi quasi pure in cinese.
In posti come Bangladesh o Indonesia, dove il siparietto va in scena 40 volte al giorno, m'e' capitato di rispondere che mi chiamavo Tuvshinjarghal, venivo dal Turkmenistan e cercavo con urgenza un bagno (scenario peraltro tratto da una storia vera), ma il più delle volte ho confessato la verita' e ho pure avviato una conversazione. Salvo rendermi conto dopo un po' che l'interlocutore s'era dimenticato il mio nome, oppure che nella sua testa lo aveva trasformato in tutt'altro. Del resto all'orecchio straniero Dario suona come Tuvshinjarghal.
Non a caso mi presento sempre "Come Mario con la D" - e se poi uno dice "Mariod", e' li' che metto fine alla nostra amicizia. Ad ogni modo, durante il giro del mondo ho cominciato a interrompere l'interrogatorio per chiedere al dirimpettaio se si ricordasse come mi chiamavo. Da allora, ogni tanto ho rispolverato il giochino del "What's my name again?". E molti dei fenomeni di bravura sono finiti qui.
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