martedì 31 dicembre 2024

Un talebano mi disse

Afghanistan, aprile 2024

"Pregare Buddha è haram, è peccato. Ma le statue del buddha non sono, non erano, haram. Distruggerle è stato come tagliarci una mano da soli". 

A.H. ha 38 anni e non taglia la barba da cinque anni. Cinque come i suoi figli, anche se sul salvaschermo del telefonino ce n'è solo uno, il più piccolo, ritratto con un mitra in braccio. L'immagine del bimbo si alterna a quella di un uomo cupo sulla sessantina. 
Quando gli chiedo chi sia, A.H. mi risponde che è un amico. 
È l'unica bugia che mi dirà, perché sappiamo entrambi che si tratta di Haibatullah Akhunzada, il leader supremo dei talebani, un uomo talmente elusivo che secondo la leggenda metropolitana non esisterebbe. In realtà, dopo l'invasione americana seguita all'11 settembre, i talebani hanno sviluppato la fobia dell'apparire: se le foto sono tendenzialmente haram, le immagini dei loro volti potrebbero esporli a rappresaglie, a cacce all'uomo e a vendette da parte dei nemici, interni ed esterni. 
Anche per questo Akhunzada non si fa vedere, e anche per questo mi sorprendo quando A.H. accetta di farsi fotografare. 

A H. è un talebano della prima ora. In vita sua è uscito dall'Afghanistan solo una volta, quando per sfuggire all'invasione americana si rifugiò con la famiglia in Iran. Per questo mi sorprende ancora di più quando accetta di rispondere ad alcune domande sui Buddha di Bamiyan. 
La prima volta in cui ho sentito parlare dei talebani era il marzo del 2001, lavoravo per un service editoriale e in pausa pranzo mi sedevo su una panchina di piazza Cavour con un trancio di pizza e le pagine esteri dei quotidiani. Erano i giorni della seconda intifada, e i giornali si concentravano sugli scontri in Terra Santa. A margine, su Repubblica, un giorno comparve un trafiletto: raccontava che la furia iconoclasta degli studenti coranici che avevano preso il potere in Afghanistan aveva portato gli ex mujaheddin a distruggere una delle più incredibili testimonianze storiche e artistiche dell'epoca pre islamica: gli enormi Buddha scavati tra il III e il V secolo dopo Cristo nella parete rocciosa alle porte di una cittadina nel cuore del Paese. 
Quella Bamiyan nella quale sarebbe nato A.H.

La notizia mi turbò. Avevo cominciato a viaggiare da qualche anno, l'arte e la storia non erano più materie scolastiche, ma parte dell'identità delle nazioni e dei posti che avevo cominciato a visitare, oltre che elementi essenziali per capire la vita della gente che li abitava. La formazione personale passava per la ricerca e la scoperta del bello, la cui visione e il cui studio contribuivano a farlo diventare anche parte del mio vissuto. Quelli, i Buddha di Bamiyan, erano oggettivamente belli, unici, carichi di significato e di senso. La loro distruzione costituiva una ferita insanabile, un passo indietro per tutta l'umanità, un punto di non ritorno. 

Ventitre anni dopo aver letto quel trafiletto, uno dei primi obiettivi che mi ero posto quando avevo deciso di sfidare la paura del viaggio in Afghanistan era saperne di più, partendo proprio da un confronto con uno di quelli che adesso detengono il potere, che controllano il Paese più di allora e che usano le armi soprattutto per giustificare il loro ruolo di garanti della sicurezza e dell'unità nazionale. 
La refrattarietà dei talebani al dialogo e al confronto aveva però smorzato gli entusiasmi: a parte 3/4 casi isolati (uno su tutti, un giovane studente coranico incontrato a Mazari Sharif, che mi ha chiesto per quale motivo i governi occidentali non riconoscano quello dell'Emirato Islamico d'Afghanistan), mi era sembrato difficile riuscire ad intavolare una conversazione, parlando a quattr'occhi con qualcuno di loro.

A.H., però, era stato incaricato di seguirmi come un'ombra, per assicurare la mia incolumità e per evitare che io infrangessi troppo spesso la sharia
Avevamo stabilito una sottospecie di rapporto, per cui ci ho provato.
Sperando in una risposta positiva da parte sua, il penultimo giorno mi ero rivolto a Google Translate e avevo buttato giù una serie di curiosità sulla storia dei Buddha che i suoi sodali avevano ridotto in frantumi davanti ai suoi occhi quando lui era un adolescente. 
"Come lo vivesti allora? Pensi che all'epoca sia stata una decisione corretta? Oggi lo rifaresti? Quando e come hai cambiato idea? Oggi quanto è condivisa l'opinione che hai maturato? Non pensi che il Bello, in tutte le sue forme, avvicini a Dio?". 
Il tutto tradotto in lingua pasthun, sperando che Google Translate non avesse fatto scherzi.

A.H. ha parlato per 15 minuti. Più di quanto lo avessi sentito parlare per una settimana. La chiacchierata mi ha lasciato a bocca aperta. Non tanto per il contenuto - che ho registrato e prima o poi sbobinerò e trasformerò in un post sul blog o altrove - quanto per il fatto stesso di trovarmi a tu per tu con un talebano. Con quello che la nostra generazione ha identificato come il male assoluto, come un essere verso cui provare paura, disprezzo ed orrore. Il constatare che, nonostante le differenze, A.H. si fosse aperto, avesse dimostrato una certa autonomia di pensiero e avesse trasmesso anche una carica umana. 

"Perché hai accettato di parlare con me?", gli ho chiesto alla fine. 
"Perché ti porto nel cuore", mi ha risposto A.H. 
Non saprò mai se era stata la sua seconda bugia.

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