Dopo un mese e mezzo di benedetto anonimato e' dolce il suono del riconoscimento della tua identita'. Soprattutto se a chiamarti a sorpresa per nome e' una rassicurante signora sulla cinquantina, che indossa un ampio abito di cotone scolorito e di nome fa Gozel, che vuol dire Bella. E poco importa che sia lei la spia che il governo turkmeno ti ha messo alle calcagna come condizione necessaria ma non sufficiente per la concessione del visto turistico. Negli ultimi 3 giorni a Turkmenbashi non sono arrivati stranieri e Gozel non deve sforzarsi per capire che il giovanotto che sfoglia un libro sulla banchina in attesa dei controlli non puo' essere un suo connazionale. "Dario, finalmente sei arrivato! Ti aspettiamo dalle 2 di stanotte". Pesco nella mia, di memoria, e cavo qualche dato interessante pure io. Quattordici ore al porto di Baku, sedici per attraversare il Caspio, una abbondante per attraccare qui e due in attesa che qualcuno si degni di aprire questa stramaledetta porticina dell'ufficio immigrazione e ci risparmi almeno il sole del tramonto. Trentatre ore con una pagnotta, una banana, un pezzo di formaggio, una merendina, una specie di pate' al pollo e funghi e due litri di acqua. Piu' gli avanzi di Maxim e Andrei. Non ho finito di sentirmi un miracolato che Gozel mi interrompe. "C'e' un problema". Strano. Qualunque sia, non sara' mai grave come il mio principio di disidratazione. Scolata mezza bottiglia nonostante le proteste di un militare che per capire che non scherzava spara pure per aria, la sto a sentire. A Turkmenbashi la mia prenotazione risulta per domani, e oggi non ci si puo' dormire. Al mondo c'e' di peggio. Basta mettersi in macchina e infilare il deserto per tutti i 600km che separano l'ex Krasnovodsk da Ashgabad senza sbagliare troppe volte la strada, visto che lungo la rete viaria turcomanna non ci sono indicazioni. Dopodiche', lasciati alle spalle i cavalcavia fatti di oleodotti, un cammello appena investito da un camion, un cielo abbacinante e otto rigidissimi check-point, alle quattro e mezza del mattino Gozel e l'autista, Oraz, mi mollano nell'albergo piu' in di Ashgabad, quello di proprieta' del figlio di Niyazov ma gestito da un italiano che - si dice- glielo ha strappato vincendo a carte. Sono trascorse 44 ore da quando ho lasciato l'ostello azero. Negli stessi due giorni, per incontrare prima un capo di Stato e poi l'altro, Ahmadinejad c'ha messo 44 minuti.
Ashgabad e' la capitale di plastica di uno Stato sotto vuoto. I viali ampi sono superstrade lucide nel deserto. I centri commerciali e i parchi giochi sono inanimati come presepi di cartapesta. Le piazze invece di unire separano. All'ombra delle fronde non si accomoda nessuno. Nella hall dell'albergo gestito dal console onorario di Italia, oltre alla bandiera con i simboli dei cinque clan turcomanni c'e' quella dell'unione europea e il nostro tricolore. Nel sotterraneo spunta invece una discoteca, l'unica della capitale e presumibilmente l'unica dell'intero Paese. Il menù annuncia che una coca-cola costa 9 dollari. Bisogna avere un conto in banca pingue per invitare a bere le ragazze di origine russa che si appropinquano ripetutamente ai tavoli. Businessman, viaggiatori di alto lignaggio o cacciatori di prostitute, probabilmente ne hanno. Silenziosi, avveduti e letali come lupi solitari, consumano la ricca colazione senza mai alzare lo sguardo dal coperto, durante il giorno non ricambiano i convenevoli, di notte si aggirano circospetti. Oltre ad esser pieni di donnine, gli alberghi che l'apparato di Turkmenbashi mette a disposizione degli stranieri che riescono ad ottenere il visto sono infatti alveari disseminati di microspie. Nella mia stanza al quarto piano ce ne sono almeno due. Neanche il bagno ne e' sprovvisto. Ed e' probabile che sotto controllo ci siano i telefoni e l'unico computer collegato al resto del pianeta. Chi entra nel Paese lo sa. E sembra che assimili una diffidenza diffusa che contamina in fretta tutti i rapporti. Così nei cinque giorni in cui attraverso il Turkmenistan parlo con un numero ridicolamente esiguo di persone. Una donna nel mercato di Tolkuchka, un paio di receptionists dell'hotel, altrettante cameriere, due ex studentesse di Bella - ragazze cresciute all'ombra di Nyazov, alle quali mi risulta difficile spiegare persino cosa sia la liberta'. Il regolamento scritto prevede che io non lasci l'albergo senza che Gozel e l'autista mi vengano a prendere. Quello consigliato da Bella prevede anche che una volta tornato al Nissa, io non ne esca. "E' pericoloso" mi dice sibillina. Forse a parlare e' la parte di lei che ha aderito al sistema. O forse quella che non vuole problemi. O ancora quella che sa che ne avrei io, se uscissi. Ma non con la gente, con la polizia.
Un pomeriggio, mentre ammazzo in piscina l'arco temporale fra la gita diurna con Gozel e la puntata etnoantropologica in discoteca, tre tizi sovrappeso mi fanno cenno di raggiungerli. Sono seduti ad un tavolino a bordo vasca. Stanno prosciugando bottiglie di birra. "Non ho mai visto un iraniano nuotare cosi' bene" commenta l'unico che sa esprimersi in inglese. Ha 29 anni, un passato da calciatore semi professionista e un presente da poliziotto. I suoi colleghi lavorano 7 giorni su 7, ma lui ha gia' un'anzianita' tale da potersi permettere il rischio di un certificato medico fasullo pur di saltare qualche ora di servizio. Come lui, i suoi due colleghi. Alle domande di routine so come rispondere. Sono un turista che e' diretto in Uzbekistan, dove lo aspetta un amico. Poi tornero' a casa. A differenza di quanto avviene con Gozel preferisco non cedere alla tentazione della confidenza ad ogni costo. Una dittatura puo' portarti al delirio interiore, alla visione di rischi, nemici o spie dappertutto. Persino negli occhi del gatto siamese che ti ronza attorno mentre leggi su una sedia. Pur non credendo all'allarmismo di Gozel, pur dubitando che il filtro fra me e ogni fruttivendolo dal quale vorrei rifornirmi non sia solo un modo per evitare che mi spilli piu' soldi del dovuto (ma che sia un modo per evitare di essere riconosciuta come la guida che lascia lo straniero libero di muoversi fra il popolo), quando mi affaccio per le strade attorno all'albergo per scattare una semplice foto, mi sento sotto osservazione. Percio', quando il terzo uomo del gruppo, quello talmente ubriaco che non riesce a staccare la fronte dagli avambracci tramortiti sul tavolino, in un impeto di lucidita' stira il collo ed esclama: "Cercavamo proprio te... Proprio te!", la mia spina dorsale viene tagliata in due da una stalattite di ghiaccio paranoico. Talmente assurda che un attimo dopo mi viene da ridere.Con Gozel il rapporto e' invece franco. Sin dalla prima sera lei capisce che ad ogni sua risposta seguira' una mia domanda. Io capisco che se si fida di me, oltre a ricavarne informazioni interessanti sul Paese, riusciro' ad andare oltre. A farle dire cose che in pubblico non si concederebbe mai. Tipo ironie su una dittatura "assurda" e "folle", tipo sghignazzamenti alla faccia di Niyazov. Davanti a lei evito comunque accuratamente di prendere appunti. Lo faccio solo immerso nella vasca da bagno, in barba alla telecamerina che probabilmente arriva anche lì. Ma la mia figura e' indubbiamente sui generis, e in un paio di occasioni Gozel mi domanda se sia un giornalista. Le "guide" turcomanne sono di lingua inglese, francese o tedesca perche' gli italiani sono merce rarissima. E praticamente introvabile e' la categoria dello straniero solitario. Tanto piu' se e' arrivato in nave, riparte via terra, non viaggia in regime di pensione completa e percio' mangia due volte al giorno: fa un'abbondante colazione in albergo, mangia pesce o carne negli sporadici e anonimi ristorantini a gestione familiare, per cena di rimpinza di frutta recuperata qua e la'. E non si fa sfuggire l'occasione di bisticciare telefonicamente con la responsabile dell'agenzia tedesca che gli ha fornito il visto. "Signor Kastaldo, anzitutto siamo felici che lei sia arrivato sano e salvo in Turkmenistan - mi dice con frettolosa formalita' la donna, chiamando da Gozel nel giorno in cui lei mi invita semiclandestinamente a cena fra le quattro mura domestiche - ma il suo comportamento sta mettendo in difficolta' noi e loro". Per loro intende il governo turkmeno. Il mio arrivo nel Paese con un giorno di anticipo e il susseguente cambio di programma, infatti, non poteva essere indolore. Ma siccome la tariffa dell'hotel di Ashgabad e' esattamente la meta' di quella di Turkmenbashi nel quale non ho dormito, pensavo che per sistemare la mia posizione sarebbe bastato aggiungere un tot per il compenso della spia personale. Gozel guadagna 30 dollari al giorno, il conto era presto fatto. "...anche se non lo sfrutta deve includere l'autista... - insiste la donna tedesca, sempre piu' alterata - e le consiglio di non creare ulteriori problemi... Lei ha voluto andare li' in nave invece che in aereo... E ricordi che la sto chiamando in Turkmenistan". Faccio presente alla capa che se fossi venuto in aereo non avrei avuto bisogno della loro intermediazione col governo e che l'arrivo in nave costituiva la precondizione del nostro rapporto. Che sono stato costretto a richiedere il visto turistico invece di quello semplice di transito - replico scavando nei cunicoli tortuosi della cervellotica procedura che mi ha portato li' - perche' fra la mail nella quale invitavo l'agenzia ad inoltrare la mia domanda all'ambasciata di Berlino e l'avvio della mia pratica sono passate 3 settimane. Le faccio altresi' presente che il loro ritardo nella comunicazione dell'accettazione della mia domanda all'ambasciata turkmena di Yerevan mi ha obbligato alla procedura rapida per avere il visto in un giorno...il quale - a proposito dei costi della telefonata in Turkmenistan - costa esattamente il doppio di quella normale. Alla fine del battibecco siamo entrambi su di giri. Ma almeno ho risolto il problema della notte fra il 19 e il 20 agosto. La trascorrero' in un albergo di Merv, invece che sdraiato fra due frontiere. Per quell'esperienza c'è tempo...
Oltre al mercato di Tolkuchka, l'unico angolo della nazione con un'anima viva e attiva, Gozel mi porta a vedere i parchi, le statue e i memoriali della capitale, le enormi moschee e il mausoleo di Niyazov, le rovine di Nissa, la passeggiata della salute e i ruderi di Mary. Davanti ai connazionali il dittatore e' "il primo presidente", davanti a me e' "il matto". A bassa voce. Nei vari andirivieni, Oraz una volta viene multato perche' in curva sfiora il brecciolino al lato della strada, un'altra perche' non indossa la cintura di sicurezza. Cinque dollari sotto banco una volta, tre piu' un paio di sigarette un'altra. L'ultima notte, prima di perderci nelle strade senza indicazioni fra Turkmenabat (l'ex Charjew) e la frontiera uzbeka, e farci fermare sette volte in 50 chilometri per il controllo dei documenti, Oraz mi annaffia con la vodka locale, mi consegna grandi pacche sulle spalle e dolci sorrisi. Siccome lui non parla inglese, mi domando che rapporto intercorra fra lui e Gozel, fino a che punto siano complici, fino a che punto lui sappia o capisca la posizione di lei. E quale sia quella dell'uomo. "Certe domande non farmele mai in luoghi chiusi" mi ammonisce Bella, indicando una colonna accanto a noi dalla quale presumibilmente qualche marchingegno potrebbe registrarci. Stiamo consumando con le mani un pasto a base di carne secca, pollo e patate. L'ultima cena nell'hotel di Merv, nel quale siamo gli unici ospiti. "Ma...insomma, sei un giornalista?" mi chiede. "Te lo dico solo - le rispondo - se mi dici la verita'. Nel report che compilerai sul mio conto scriverai anche che ogni giorno prelevavo la frutta dal buffet dell'albergo?". Gozel sorride amaramente.
p.s. per proteggere le persone che lo hanno aiutato – i suoi referenti turcomanni – nel libro "Il cuore eprduto dell'Asia" Colin Thubron ha cambiato la loro identità. Per proteggere la propria, l’autore della Lonely Placet ha preferito rimanere anonimo. Fra un paio di settimane qualcuno faccia uno squillo a casa di Gozel per sentire come va…