(pure troppo)
Con quella testa pelata a forma di cono gelato, quei 104 chili distribuiti a casaccio, la camminata da cyborg, l'occhialetto rotondo sempre appannato e quei cinque - non uno - yeah! sempre piu' strillati prima di ogni risposta, Karl mi fa sbellicare. E' capace di parlare per intere mezz'ore col piu' volgare accento aussie, gonfiando e strapazzando le vocali e ciancicando tutto il resto. Poi ogni tanto si arresta su qualche passaggio banale. "Do you understand 'boiled water'?" "...'istinct'?"... "'road train'?". Abbastanza.
Nato quarantacinque anni fa sulla costa sudorientale del Paese da una famiglia di origine tedesca, da alcuni mesi si e' trasferito a Darwin per lavoro. Karl fa l'elicotterista. Trasporta ingegneri ed operai a sulle piattaforme petrolifere che per conto delle compagnie australiane estraggono greggio e gas naturali a largo di Timor Est. E dall'attimo in cui attacco bottone, sulla pista dell'aeroporto di Dili, contrae lo stesso virus che aveva colpito Ucha e Jeff. Per Karl sono quasi tutti bloody idiots. Tutti tranne la moglie, incinta della primogenita, e il sottoscritto. Lei e' my little sausage, la mia salsiccetta, con le varianti saussy o lil soss. La salsiccetta al momento e' in vacanza dai suoi genitori, a Newcastle, nel nuovo Galles del sud. E Karl fa di tutto per nasconderle la mia presenza. "Non ti posso ospitare - mi dice prima ancora di sapere come mi chiami - perche' se mia moglie lo scopre chiede il divorzio". In compenso mi accompagna in giro per la citta', mi abbevera, mi porta in piscina, mi aiuta a cercare un ostello e un ufficio cambi aperto, fa il giro di sei ferramenta per trovare un adattatore, e di varie piazzole di sosta per un tir disposto ad accompagnarmi a sud. Un paio di volte mi porta anche a casa sua, dove mi fornisce il necessaire per un pediluvio grezzo a base di acqua e sale e una confezione maxi di betadine. Non prima di aver chiamato la sua salsiccetta per chiederle dove fossero le medicine, inventandosi di essere sbucciato un ginocchio a Timor. Solo quando mi invita a cena in un ristorante vietnamita, stanco di farmi cenno di stare zitto ogni volta che il suo telefonino squilla, le racconta la verita'. "... No salsiccetta mia, ti giuro che non e' un backpacker come quelli che vediamo in centro.... No, ti giuro che non dorme da noi... No, saussy, ti giuro che non gli ho comprato il biglietto del bus per Alice Springs...".
Karl al contrario fa di tutto per non costringermi a prenderla, la greyhound. Trovata truck city, la stazione di servizio nella quale si riforniscono i camionisti prima di puntare verso meridione, appende a tutte le pareti un annuncio a mio nome. Scritto in un inglese discutibile e con un contenuto involontariamente ironico, sul pezzo di carta io parlo di me stesso in terza persona. Mi definisco un viaggiatore molto povero ma con tante storie divertenti. Dopodiche' chiedo ad un autista generoso se ha voglia di dividere una camera con me. Neanche a dirlo, in due giorni non chiama nessuno.
Come Ucha e Jeff, Karl e' infettato dal morbo della generosita' che genera imbarazzo. Prova un irrefrenabile istinto protettivo, servizievole e quasi caritatevole. Come gli altri, non mi pone mai una domanda personale, non mi stuzzica mai su massimi sistemi, non mi solletica mai l'autostima con una forma di riconoscimento intellettuale. Mi piace pensare che mi legga negli occhi, ma non basta. Perche' dall'alto di una razionalita' raffreddata, ne' con lui ne' con gli altri dimostro fino in fondo la riconoscenza che la loro disponibilita' gratuita meriterebbe. E se non apprezzo del tutto probabilmente sbaglio. Perche' fra le cose che il viaggio insegna quasi quotidianamente c'e' anche l'afflato a prescindere dalla conoscenza. Una tensione che al contrario non la richiede affatto, la conoscenza. Un tipo di spontaneismo acritico e unidirezionale. Forse la chiave di ogni rapporto umano. Invece che la sua fine.
La mattina del 3 gennaio Karl mi viene a prendere in ostello, mi affida un panino con uova e bacon e due barattoli di noci e pezzi di cioccolata e poi mi deposita all'imbocco della Stuart Highway, l'autostrada che taglia in verticale l'Australia seguendo il percorso della vecchia via telegrafica. Dieci minuti dopo, Tom, un elettricista nato a Perth, mi offre un passaggio per una cittadina vicino a Pine Creek. Dove un violento acquazzone e l'assenza di ripari mi consigliano di optare definitivamente per l'autobus di linea. Per coprire i 1500km fino ad Alice Springs sborso l'equivalente di una settimana in Laos. L'indomani mi sono lasciato fra i ricordi la trentesima notte insonne del viaggio e le piogge che mi perseguitavano da Singapore. Nel deserto australiano c'e' il sole. E il termometro sale sopra i 45 gradi.
Sul retro di una cartina della citta' di Darwin, la Ocean Exposure pubblicizzava il suo centro - l'Aquascene - dove l'attivita' principe, quella piu' esaltante, consiste nel fish feeding, nel dar da mangiare ai pesci. A Gumeracha, nei pressi di Adelaide, c'e' invece la opportunita' unica di ammirare il rocking horse, il cavallo a dondolo, piu' grande del mondo. Il trafiletto sul giornale spiega che si puo' anche scalare. E per chi non coglie subito la portata del divertimento, c'e' anche un punto esclamativo. E' uno degli aspetti che il terzo mondo non invidiera' mai al primo: la sua capacita' di vendere aria fritta alla gente. E soprattutto di fargliela pagare cara. Arrivando ad Alice Springs, percio', la pessima notizia era stata che i bus pubblici per l'Ayers rock erano in programma solo una volta a settimana. E che uno era partito ieri. L'unica opzione per ammirare il piu' grosso monolite del globo, ma soprattutto per ficcare il naso nel deserto piu' antico della Terra, per strofinare il muso nella cultura aborigena dei kaititj, e' insomma unirsi ad un gruppo organizzato da un'agenzia. A mali estremi, evito accuratamente qualsiasi compagnia si autoproclami adventure qualcosa, ma non riesco ad evitare che il leader, un ragazzone di origine abruzzese che si chiama Domenico Di Lallo, si fa chiamare solo Dom e non spiccica una parola di italiano, sia una di quelle persone che hanno la forza per guidare il furgoncino, il cuore per far da mangiare a tutti, il carisma per raccontare storie e l'entusiasmo per motivare un gruppo sostanzialmente apatico, ma che per deformazione mentale passano meta' del tempo a dire che l'esperienza sara' fuckin' awesome e per contratto a dire che tutti i clienti sono stati fuckin' great. In gruppo siamo una quindicina. Per due sere accendiamo un fuoco e per altrettante notti dormiamo in sacchi a pelo adagiati sulla sabbia, circondati dal pensiero dei dingo e dei goanna e sovrastati da una volta di galassie. La terza mattina arriviamo ai piedi di Uluru, il sasso sacro, e quando Dom domanda chi abbia intenzione di provare a scalarlo, titubo.
Negli ultimi giorni il piede e' peggiorato a vista d'occhio. Non solo l'infezione si e' estesa ad altre tre dita e ha coinvolto anche il sinistro, ma soprattutto sotto la pianta sono spuntate delle bolle che sembrano di aria o di acqua, ma che invece contengono di peggio. Tutto sul mio piede destro. Quello della "tallonite" che col tempo si era rivelata una frattura mai curata. Quello dell'infrazione al sesamoide, che col tempo era diventata un callo osseo e infine un'operazione da 12 punti di sutura - 11 estratti, uno ancora li'. Quello della cesura a spirale del perone all'altezza del malleolo e del gesso tanto stretto da farmi sfiorare la tromboflebite. Ora quello dell'infiammazione rimediata a Bajawa che era diventato lo squaraus di Alice Springs. Il mio piede destro. Quello che a quasi venti anni dall'ultima partita con Totti e dalla prima contro Nesta e' l'ultimo angoletto della mia persona che ricorda quello di un calciatore. Solo che le punizioni a foglia morta gli riescono peggio.
"Allora... chi vuole salire?". Di fronte alla domanda di Dom, io alzo la manina. Timidamente. Lo vedo passare in rassegna gli altri, alle mie spalle, e lo vedo concludere. "Due, allora. Dario e Yuko". Questo perche' oltre a vendere aria, nel mondo civilizzato si vendono avventure in tutta sicurezza. Quindi Dom ha il compito di avvisare il gruppo che nel salire sull'Ayers Rock sono decedute una sessantina di persone. Per ultimo un attempato signore tedesco, un esperto scalatore, che alcuni mesi fa e' precipitato scendendo. Pensava che il suo pullmino lo stesse abbandonando e s'e' messo a correre, perdendo fatalmente l'equilibrio. L'ossessione per la sicurezza piu' il dovere morale e professionale di avvertire del rischio fanno strike. Cinque tedeschi - un paio dei quali intraprendenti ventenni - cinque inglesi - due dei quali ultras dell'Everton da quaranta lattine di birra al giorno - un francese e tre svizzere, restano a terra. Sale solo la giapponese, che della spiegazione non ha capito nulla. E io. Che ripongo sempre una fiducia sconfinata nella capacita' del mio corpo di perdonare la mia mancanza di rispetto verso di lui. La salita e' stancante ma accessibile, in cima il vento e' impetuoso ma rinvigorente (mi reinvento intervistatore dei turisti orientali che arrivano in cima, spacciandomi per giornalista della Bbc e cooptando Yuko con la sua videocamera), in discesa le punte dei piedi battono dolorosamente sulle scarpe. Ma ne esco meglio di un giapponese che si rompre entrambe le caviglie e viene giu' di culo. "Mi hai fatto morire di paura - mi dice Dom, quando finalmente arrivo nel piazzale, abbracciandomi con la foga inconsolabile di chi se l'e' vista brutta - ...You're REALLY fuckin' awesome, my friend!".
Con quella testa pelata a forma di cono gelato, quei 104 chili distribuiti a casaccio, la camminata da cyborg, l'occhialetto rotondo sempre appannato e quei cinque - non uno - yeah! sempre piu' strillati prima di ogni risposta, Karl mi fa sbellicare. E' capace di parlare per intere mezz'ore col piu' volgare accento aussie, gonfiando e strapazzando le vocali e ciancicando tutto il resto. Poi ogni tanto si arresta su qualche passaggio banale. "Do you understand 'boiled water'?" "...'istinct'?"... "'road train'?". Abbastanza.
Nato quarantacinque anni fa sulla costa sudorientale del Paese da una famiglia di origine tedesca, da alcuni mesi si e' trasferito a Darwin per lavoro. Karl fa l'elicotterista. Trasporta ingegneri ed operai a sulle piattaforme petrolifere che per conto delle compagnie australiane estraggono greggio e gas naturali a largo di Timor Est. E dall'attimo in cui attacco bottone, sulla pista dell'aeroporto di Dili, contrae lo stesso virus che aveva colpito Ucha e Jeff. Per Karl sono quasi tutti bloody idiots. Tutti tranne la moglie, incinta della primogenita, e il sottoscritto. Lei e' my little sausage, la mia salsiccetta, con le varianti saussy o lil soss. La salsiccetta al momento e' in vacanza dai suoi genitori, a Newcastle, nel nuovo Galles del sud. E Karl fa di tutto per nasconderle la mia presenza. "Non ti posso ospitare - mi dice prima ancora di sapere come mi chiami - perche' se mia moglie lo scopre chiede il divorzio". In compenso mi accompagna in giro per la citta', mi abbevera, mi porta in piscina, mi aiuta a cercare un ostello e un ufficio cambi aperto, fa il giro di sei ferramenta per trovare un adattatore, e di varie piazzole di sosta per un tir disposto ad accompagnarmi a sud. Un paio di volte mi porta anche a casa sua, dove mi fornisce il necessaire per un pediluvio grezzo a base di acqua e sale e una confezione maxi di betadine. Non prima di aver chiamato la sua salsiccetta per chiederle dove fossero le medicine, inventandosi di essere sbucciato un ginocchio a Timor. Solo quando mi invita a cena in un ristorante vietnamita, stanco di farmi cenno di stare zitto ogni volta che il suo telefonino squilla, le racconta la verita'. "... No salsiccetta mia, ti giuro che non e' un backpacker come quelli che vediamo in centro.... No, ti giuro che non dorme da noi... No, saussy, ti giuro che non gli ho comprato il biglietto del bus per Alice Springs...".
Karl al contrario fa di tutto per non costringermi a prenderla, la greyhound. Trovata truck city, la stazione di servizio nella quale si riforniscono i camionisti prima di puntare verso meridione, appende a tutte le pareti un annuncio a mio nome. Scritto in un inglese discutibile e con un contenuto involontariamente ironico, sul pezzo di carta io parlo di me stesso in terza persona. Mi definisco un viaggiatore molto povero ma con tante storie divertenti. Dopodiche' chiedo ad un autista generoso se ha voglia di dividere una camera con me. Neanche a dirlo, in due giorni non chiama nessuno.
Come Ucha e Jeff, Karl e' infettato dal morbo della generosita' che genera imbarazzo. Prova un irrefrenabile istinto protettivo, servizievole e quasi caritatevole. Come gli altri, non mi pone mai una domanda personale, non mi stuzzica mai su massimi sistemi, non mi solletica mai l'autostima con una forma di riconoscimento intellettuale. Mi piace pensare che mi legga negli occhi, ma non basta. Perche' dall'alto di una razionalita' raffreddata, ne' con lui ne' con gli altri dimostro fino in fondo la riconoscenza che la loro disponibilita' gratuita meriterebbe. E se non apprezzo del tutto probabilmente sbaglio. Perche' fra le cose che il viaggio insegna quasi quotidianamente c'e' anche l'afflato a prescindere dalla conoscenza. Una tensione che al contrario non la richiede affatto, la conoscenza. Un tipo di spontaneismo acritico e unidirezionale. Forse la chiave di ogni rapporto umano. Invece che la sua fine.
La mattina del 3 gennaio Karl mi viene a prendere in ostello, mi affida un panino con uova e bacon e due barattoli di noci e pezzi di cioccolata e poi mi deposita all'imbocco della Stuart Highway, l'autostrada che taglia in verticale l'Australia seguendo il percorso della vecchia via telegrafica. Dieci minuti dopo, Tom, un elettricista nato a Perth, mi offre un passaggio per una cittadina vicino a Pine Creek. Dove un violento acquazzone e l'assenza di ripari mi consigliano di optare definitivamente per l'autobus di linea. Per coprire i 1500km fino ad Alice Springs sborso l'equivalente di una settimana in Laos. L'indomani mi sono lasciato fra i ricordi la trentesima notte insonne del viaggio e le piogge che mi perseguitavano da Singapore. Nel deserto australiano c'e' il sole. E il termometro sale sopra i 45 gradi.
Sul retro di una cartina della citta' di Darwin, la Ocean Exposure pubblicizzava il suo centro - l'Aquascene - dove l'attivita' principe, quella piu' esaltante, consiste nel fish feeding, nel dar da mangiare ai pesci. A Gumeracha, nei pressi di Adelaide, c'e' invece la opportunita' unica di ammirare il rocking horse, il cavallo a dondolo, piu' grande del mondo. Il trafiletto sul giornale spiega che si puo' anche scalare. E per chi non coglie subito la portata del divertimento, c'e' anche un punto esclamativo. E' uno degli aspetti che il terzo mondo non invidiera' mai al primo: la sua capacita' di vendere aria fritta alla gente. E soprattutto di fargliela pagare cara. Arrivando ad Alice Springs, percio', la pessima notizia era stata che i bus pubblici per l'Ayers rock erano in programma solo una volta a settimana. E che uno era partito ieri. L'unica opzione per ammirare il piu' grosso monolite del globo, ma soprattutto per ficcare il naso nel deserto piu' antico della Terra, per strofinare il muso nella cultura aborigena dei kaititj, e' insomma unirsi ad un gruppo organizzato da un'agenzia. A mali estremi, evito accuratamente qualsiasi compagnia si autoproclami adventure qualcosa, ma non riesco ad evitare che il leader, un ragazzone di origine abruzzese che si chiama Domenico Di Lallo, si fa chiamare solo Dom e non spiccica una parola di italiano, sia una di quelle persone che hanno la forza per guidare il furgoncino, il cuore per far da mangiare a tutti, il carisma per raccontare storie e l'entusiasmo per motivare un gruppo sostanzialmente apatico, ma che per deformazione mentale passano meta' del tempo a dire che l'esperienza sara' fuckin' awesome e per contratto a dire che tutti i clienti sono stati fuckin' great. In gruppo siamo una quindicina. Per due sere accendiamo un fuoco e per altrettante notti dormiamo in sacchi a pelo adagiati sulla sabbia, circondati dal pensiero dei dingo e dei goanna e sovrastati da una volta di galassie. La terza mattina arriviamo ai piedi di Uluru, il sasso sacro, e quando Dom domanda chi abbia intenzione di provare a scalarlo, titubo.
Negli ultimi giorni il piede e' peggiorato a vista d'occhio. Non solo l'infezione si e' estesa ad altre tre dita e ha coinvolto anche il sinistro, ma soprattutto sotto la pianta sono spuntate delle bolle che sembrano di aria o di acqua, ma che invece contengono di peggio. Tutto sul mio piede destro. Quello della "tallonite" che col tempo si era rivelata una frattura mai curata. Quello dell'infrazione al sesamoide, che col tempo era diventata un callo osseo e infine un'operazione da 12 punti di sutura - 11 estratti, uno ancora li'. Quello della cesura a spirale del perone all'altezza del malleolo e del gesso tanto stretto da farmi sfiorare la tromboflebite. Ora quello dell'infiammazione rimediata a Bajawa che era diventato lo squaraus di Alice Springs. Il mio piede destro. Quello che a quasi venti anni dall'ultima partita con Totti e dalla prima contro Nesta e' l'ultimo angoletto della mia persona che ricorda quello di un calciatore. Solo che le punizioni a foglia morta gli riescono peggio.
"Allora... chi vuole salire?". Di fronte alla domanda di Dom, io alzo la manina. Timidamente. Lo vedo passare in rassegna gli altri, alle mie spalle, e lo vedo concludere. "Due, allora. Dario e Yuko". Questo perche' oltre a vendere aria, nel mondo civilizzato si vendono avventure in tutta sicurezza. Quindi Dom ha il compito di avvisare il gruppo che nel salire sull'Ayers Rock sono decedute una sessantina di persone. Per ultimo un attempato signore tedesco, un esperto scalatore, che alcuni mesi fa e' precipitato scendendo. Pensava che il suo pullmino lo stesse abbandonando e s'e' messo a correre, perdendo fatalmente l'equilibrio. L'ossessione per la sicurezza piu' il dovere morale e professionale di avvertire del rischio fanno strike. Cinque tedeschi - un paio dei quali intraprendenti ventenni - cinque inglesi - due dei quali ultras dell'Everton da quaranta lattine di birra al giorno - un francese e tre svizzere, restano a terra. Sale solo la giapponese, che della spiegazione non ha capito nulla. E io. Che ripongo sempre una fiducia sconfinata nella capacita' del mio corpo di perdonare la mia mancanza di rispetto verso di lui. La salita e' stancante ma accessibile, in cima il vento e' impetuoso ma rinvigorente (mi reinvento intervistatore dei turisti orientali che arrivano in cima, spacciandomi per giornalista della Bbc e cooptando Yuko con la sua videocamera), in discesa le punte dei piedi battono dolorosamente sulle scarpe. Ma ne esco meglio di un giapponese che si rompre entrambe le caviglie e viene giu' di culo. "Mi hai fatto morire di paura - mi dice Dom, quando finalmente arrivo nel piazzale, abbracciandomi con la foga inconsolabile di chi se l'e' vista brutta - ...You're REALLY fuckin' awesome, my friend!".
3 commenti:
Bravo Dà,questa è la canzone usata dalla RAS x uno spot pubblicitario. E' la mia assicurazione,m'hai ricordato che m'è scaduta(n'è vero,l'ho pagata il21-12,era solo per non lasciare un post senza commenti........lo sò sò un cojone!)!
Con un po di ritardo, finalmente anche questo post è stato completato
Ancora una volta mi hai fatto accapponare la pelle e battere forte il corazon.
ue Darius, la tua guida Don avrebbe dovuto spiegarvi che Ayers rock e' un sito sacro per gli aborigeni (e quando ti ci trovi di fronte capisci perche') e che anche se e' permesso salirci non e' molto rispettoso.
conoscendoti penso che se te l'avesse spiegato non saresti salito.
un abbraccio,
peter
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