Immagina un mondo a parti invertite. Le coste europee, da Santorini a Saint Tropez, da Torremolinos a Torre a Mare, invase da orde di asiatici, dalla creme del coattume spendaccione di tutto il levante. Vacanzieri famelici, superficiali e un po' maleducati, che convergono da ogni angolo di oriente con i loro pitoni tatuati sul deltoide e 24 ore su 24, 7 su 7, 365 giorni l'anno, si riversano in massa negli stabilimenti mediterranei assetati di svaghi, carichi di soldi e di desideri da esaudire.
Metti che il primo dei desiderata sia che il posto che li accoglie somigli a quelli che hanno lasciato a casa. Metti che la necessita' economica e l'impreparazione prima, la connivenza e la mancanza di responsabilita' poi, indeboliscano l'istinto di conservazione della propria identita' di chi li ospita e col tempo gli amministratori locali e la legge del piu' forte trasformino dalle fondamenta le localita' balneari europee secondo le direttive e le inclinazioni degli ultimi arrivati.
Metti che alla fine l'imperativo categorico diventi di assecondarne le richieste perché o così o pomì.
Come effetto di queste tensioni centrifughe, dalle coste europee spariscono gradualmente gli alfabeti latino e greco e ovunque spuntano insegne, pubblicita', prodotti e menu esclusivamente in ideogrammi. Piano piano, le balere arrivano a suonare solo buona musica vietnamita, i bar a trasmettere i match del campionato pakistano di cricket, i chioschi a preparare leccornie cinesi come gli spiedini di scorpione e le zuppe di zampe di gallina. Perché i turisti orientali sono abituati a questo, pretendono questo. E nessuno ha la voglia di sottrarsi all'imposizione dei loro costumi o ha la forza di combattere le leggi del mercato.
Va a finire che, nelle località di mare europee manipolate come pezzi di pongo, per tirare a campare le anziane devono indossare abiti folkloristici e armeggiare con rospi di legno pur di attirare l'attenzione dei ricchi turisti stranieri per vendergli qualche ammennicolo, le donne devono piegarsi a fare massaggi ai piedi di bofonchianti panzoni cambogiani, gli uomini non possono far altro che propinare souvenir tibetani, magliettine cingalesi, scarpe nepalesi e pantaloni indiani - falsi ma pari pari agli originali di moda in Asia. E le ragazze e i ragazzi possono semplicemente vendere il loro corpo.
Phuket e' cosi'. Al contrario, ovviamente. Perche' attualmente il mondo gira in questa direzione.
Sulla battigia thailandese gli stranieri sono arrivati in massa una ventina di anni fa. Hanno cominciato in punta dei piedi, chiedendo l'usufrutto di spiagge candide e larghe, quindi le hanno attrezzate con i loro passatempi e infine si sono appropriati del manico. Per le loro serate hanno consigliato ai locali di seminare trappole per lo shopping compulsivo ad ogni metro quadro. E per le loro notti, visto che c'erano, hanno chiesto e ottenuto che il Paese offrisse sesso facile a prezzi modici.
Hanno investito tutto e tutti.
E di fronte al dilagare della contaminazione, l'unico Stato del Siam che nella sua storia non e' mai stato occupato da una potenza coloniale ha detto si', si' e ancora si', consegnandosi al dollaro e alla
masnada che si muove da casa solo a patto che il diverso non sia troppo diverso, che la globalizzazione sia all'insegna dell'occidentalizzazione, che il terzo mondo scimmiotti se stesso, si faccia addolcire da un paio di palline Haagen Dasz e si prostri davanti agli sghei. Ringraziando, pure. E la Tailandia ha ringraziato.
Khawp khun (ka').
Figa - pensa qualcuno - naturale che vada cosi': noi siamo abili, forti, intraprendenti e civilizzati. Loro sono succubi, fragili, disponibili e sostanzialmente pirla. Ovvio - penso io - infatti per produrre una siffatta aberrazione culturale e umana bisogna essere in due.
Viaggiare da straniero nel Paese che da piu' di sessanta anni e' governato da Bhumibol Adulyadej, un monarca in rosa sempre piu' incartapecorito e sempre meno rappresentativo, e' difficile muoversi senza ritrovarsi un adesivo sul petto che dica a chi di dovere dove ti deve portare. Ed e' impossibile capire di cos'altro vivano i thailandesi se non degli introiti derivati dall'afflusso scomposto di
12 milioni di turisti all'anno. Qui si vende tutto, e quello che non si vende si affitta: una barca, un paracadute, una moto d'acqua, un buggy, un paio di mani delicate. O una spiaggia teoricamente protetta. Quella di Maya bay, in uno spicchio della piu' piccola delle due incantevoli isole di Phi Phi, nel 2000 e' stata chiusa per quasi un mese. Danny Boyle e la sua produzione di Hollywood hanno preso spunto dall'omonima novella di Alex Garland e si sono installati in un parco naturale, dove hanno ripreso il faccino di Di Caprio e la scucchia di Robert Carlyle nel film
The Beach.Una pellicola dalla quale si desume che i viaggiatori indipendenti siano membri di una setta di invasati antropofagi costantemente sotto l'effetto di sostanze psicotrope.
"Quando se ne sono andati avevano modificato per sempre il profilo della spiaggia" si lamenta una signora che mi affitta maschera e boccaglio per lo snorkelling.
Pero' adesso il numero di chi va a vedere quella distesa di sabbia e' quasi raddoppiato. E allora va bene cosi', perche' e' il risultato che conta.
E a giudicare dalla rapidita' con la quale si e' ripresa dalla devastazione del 26 dicembre 2004, l'isola che penzola come una goccia di terra nel mare delle Andamane ha imparato a perseguirlo senza troppi scrupoli, quel risultato. Progettata come un parco giochi per turisti poco abbienti, col tempo e' diventata il Bengodi degli acquisti e la Las Vegas della lussuria. Una volta che hai partorito un posto cosi' e' difficile tornare indietro, e' indispendabile andare avanti ed e' consigliato pure accelerare. Perche' chi rallenta si fa superare a destra e chi si ferma e' perduto.
L'ovest sforna dissociati a iosa, e se Phuket dovesse frenare davanti a qualche rimorso di coscienza o dubbio esistenziale, altrove spunterebbe qualche altra spiaggetta, qualche altra comunita', disposta a mettersi in mutande. Per poi togliersele davanti ai soldi stranieri.
Percio' quando cala la sera, l'isola da' il meglio di se'. Davanti ad ogni bar, anche il piu' periferico e pudico, spuntano una mezza dozzina di signorine che ti invitano a bere. Non mordono, ma garantiscono quella compagnia che la maggior parte di chi e' volato fin qui non disdegna. E che a Phuket e' il minimo sindacale per sopravvivere alla concorrenza. Li' dove invece il gioco si fa' piu' duro, a Bangla', in una costola di Patong, proliferano i banana e i ping pong show, i locali dove pulzelle succinte ballano su una passerella finche' non arriva il turista di turno che per una cinquantina di euro se le porta un'oretta nell'hotel di fianco. Per strada si moltiplicano le avances delle meretrici, le occhiate spermatozoiche dei lady boy e le proposte di massaggio. Ai piedi, alla testa, su tutto il corpo, con olio o sportivi, quelli con la sorpresa nell'uovo. Il mare e' un accessorio, le giornate scivolano veloci verso la loro consacrazione. E siccome nell'hard discount della depravazione si respira polvere di viagra, l'identita' di ogni avventore pare marchiata a fuoco dalle sue abitudini sessuali, etichettata dalle finalita' della sua visita.
Allora noti centinaia di lui bianco con lei thai, decine di lui bianco canuto con lei thai giovane, di lui bianco con un lui thai che pero' si sente una lei thai, di lui bianco con un lui thai che si sente un lui thai, di lui bianco venuto a cercare una lei thai, di lui bianco venuto a cercare un lui thai, di lui bianco venuto a prendere quel che offre la piazza. Se sei a corto di fantasie sessuali, fai una passeggiata per Patong e alla fine ne saprai piu' di prima. Tanto tutto si svolge en plein air, dalle proposte verbali alle carezze sullo scroto. Sara' un caso, forse una forma di prudenza, spero non una conseguenza di altro, ma a Phuket quasi non si vedono bambini.
"Io vengo qui due volte l'anno - mi dice Uwe, un quarantreenne tedesco - passo un po' di tempo a Patong e un po' a Pattaya dalla mia ragazza. La quale (ride) e' sposata con un italiano che la mantiene a distanza girandole 300 euro al mese". Mi ricorda un'altra storia. Quella che che fini' con una ragazza peruviana sposata col gestore di un bar di Pavia che in una discoteca di Arequipa mi pianto' teatralmente un dito sullo sterno e mi disse: "Non sai quello che ti perdi".
Sbagliato. Con uno sforzo di immaginazione ci arrivavo, a capire cosa mi fossi perso.
Me lo sono volutamente sempre perso, dappertutto. Ma il punto non era e non e' mai stato quello.
Percio', per evitare che anche Uwe mi pianti un dito al centro del petto e mi dica che non so quel che mi perdo, non glielo confesso mica che per la seconda volta me ne vado dalla Thailandia senza trombatine all'attivo. E non gli dico neanche che a Phuket non ho comprato una t-shirt che sia una, e che i miei unici souvenir sono una contusione al polso sinistro, una al ginocchio destro, una all'anca e due ecchimosi grosse come bruschette sugli avambracci. Non mi ha mazzulato nessuno, e' solo overdose di beach volley. L'unica cosa che mi manca della Thailandia quando martedi' sera, dopo 13 ore di trasferimenti, arrivo a Georgetown, in Malaysia.
Un altro mondo.