Sullo schermo la Thailandia, la Malesia e Singapore sono imbiancate, Papua e le isole indonesiane tinte con un giallo pallido. La chiazza rossa, effettivamente, veste il resto dell'Indocina, dallo Yunnan alla Cambogia, dalla Birmania al Vietnam. "Guarda il Laos - Mathieu, un mansueto barbuto di Lilla, mi ferma sulla porta dell'ostello di Kunming per mostrarmi un sito internet francese - e' giusto al centro della zona ad alto rischio malarico. Hai fatto la profilassi?". Ovviamente no. Primo perche' non ne sapevo nulla, e secondo poi perche' io e le malattie abbiamo un rapporto di reciproca indifferenza: io non mi preoccupo di loro, e loro mi lasciano in pace. "Tu hai voglia di scherzare. Ce l'hai il repellente antizanzare?". Quello si'. "Beh, non ci fai niente". ... "Fidati, andare in Laos senza precauzioni e' un azzardo". Ti ringrazio per l'appello accorato, Mathieu, ma per deformazione caratteriale gestisco meglio i guai che le paranoie. "Aspetta qui, ho una cosa che ti salvera' la vita". Se e' una scatola di preservativi, me l'ha gia' regalata un tuo concittadino tre mesi fa. Ed e' ancora incellophanata. "Tieni". Neanche il tempo di dileguarmi, che Mathieu riappare con il suo zainetto, occupato per un quarto da un contenitore della
Tupperware da pic nic di Pasquetta. Solo che al posto dell'insalata di riso ci sono medicine a sufficienza per un reparto del Gemelli. Mancano solo quelle contro l'ipocondria. Dal mucchio ne estrae una confezione di Lariam 250mg e me la porge. "Prendi una compressa subito. Poi le altre ad intervalli di tre giorni". Ti ringrazio, ma mi risulta che queste ti scassino lo stomaco e che il morbo sia resistente al principio attivo. "Forse, ma e' l'unica cosa che puoi fare per limitare il rischio. Stai per andare incontro al
paludisme". Veramente neanche in Botsw... "Se ti viene la febbre, corri subito all'ospedale". Ho capito va, grazie mille Mathieu. "Se non ce sono nei paraggi, consulta almeno un medico". Afferrato, grazie per le pillole. "Se la febbre non accenna a diminuire, continua a prenderne ad intervalli sempre piu' brevi, fino ad una pasticca ogni 6 ore". Si', mo' me lo segno. Grazie anche per le informazioni. "Dopodiche', se non le usi tutte, riconsegnale alle farmacie munite di contenitori per la raccolta di medicinali scaduti, con i quali...". GRAZIE, MATHIEU. Ma se non mi lasci prendere quel bus, in Laos neanche ci arrivo.
Per una volta che il visto e' puntuale, il torpedone e' pieno. La soluzione diventa lo spezzatino fai da te. Sette passaggi, a partire da quello di un esuberante cinese che mi scorta di corsa al terminal recitando in un mantra tutte le marche di auto (
Audi-Honda-Wolksvagen-Ferrari-Benz-Toyota-Opel-Bmw-oh-Bmw, ohi-ohi-ohi) che sogna di guidare, e in stazione ho giusto il tempo di risucchiare gli ennesimi noodles istantanei salendo in corsa sul bus per Mengla'. Ultimo biglietto utile, posto numero 33, proprio in fondo, dove i sedili sono lettini larghi 40 centimetri, lunghi meno del necessario, incavati nel solito cupolino porta-gambe, appiccicati e appiccicaticci. Il famoso genio dell'incastro ne ha ricavati dieci in un volume di due metri per due metri per due metri scarsi, ma la struttura scricchiola terribilmente ad ogni sobbalzo. Per entrarci bisogna contorcersi e incassarsi, per stendercisi bisognerebbe staccarsi le braccia, e compresa nel prezzo di ogni curva c'e' la ginocchiata del vicino che russa con le scarpe vicino alla testa. Nell'antro della promiscuita' confluiscono gli umori da usura del tempo, il tanfo dei calzini bucati, l'afrore dei vestiti mai troppo lavati. E non arriva un filo d'aria. In compenso dal motore salgono zaffate bollenti di olio bruciato che squagliano le scapole e amalgamano le puzze con maestria. L'effetto nel naso e' quello della spazzatura cotta al sole. Cerco disperatamente il bottone per spegnere la funzione olfattiva, poi provo a darmi il colpo di grazia con la discografia di Pino Daniele. Ma di prender sonno non se ne parla. E mentre ai lati della gabbia sfilano le ombre del Xishuangbanna e dei suoi contadini attrezzati con torcette frontali, alla quindicesima ora di sbatacchiamenti, inchiodate e gomitate, sentendo il richiamo del mio bistrattato apparato immunitario, inghiotto una compressa di Lariam. Per noia.
A Mengla' il bus arriva col buio. E sempre con l'oscurita', piu' di un'ora dopo, un furgoncino mi deposita a Mohan, il villaggio fantasma di frontiera. Dove aspetto le otto e mezza per la cerimonia di apertura del varco: tutto l'organico al completo,
present arm, marcetta, sistemazione delle divise, passo dell'oca, alzabandiera e inno nazionale. La scenetta, immersa nella bruma dell'alba tropicale, andrebbe immortalata. Ma e' assolutamente vietato usare digitali e derivate. E poi riavvolgo il nastro degli ultimi due mesi: dall'Uzbekistan sono uscito col visto scaduto, in Kazakhstan sono entrato scavalcando una recinzione e ne sono fuoriuscito dichiarandomi un terrorista armato, in Kyrgyzstan sono arrivato e partito scattando foto ed esibendo visti approssimativi, in Tagikistan ho combinato di peggio. Almeno stavolta e' il caso di non insistere nella caccia ad un paio di manette. E poi la Cina ha gia' dato. In cima ad Irkeshtam, al di la' della sbarra di confine, invece di un cartello, di un segnale o di un semaforo, mi aveva accolto un militare. Bardato, infreddolito e ritto su un piedistallo da pizzardone, al mio passaggio aveva sollevato di colpo una bandierina verde, indicandomi il container del controllo passaporti (non che mi fosse sfuggito, essendo l'unica traccia della presenza umana nel raggio di cinque miglia) e intimandomi di riporre la macchina fotografica. Avevo obbedito a parole. Nei fatti lo scatto alla cieca inquadra sia il playmobil sia la bandierina. Salutata la Cina, un
tuc-tuc mi scorta a Boten, sul lato laotiano del confine. I doganieri qui sono appena nove, e in una bacheca sfoggiano con orgoglio le istantanee di un'amichevole di calciotto con i dirimpettai. Solo che i cinesi sono quarantacinque. E della partita non si riporta il risultato.
Da Boten a Udomxai la strada e' spesso virtuale. Il limite e' fissato sui 30 orari, ma il problema e' avvicinarsi a quella velocita', non superarla. Mika aveva provato a convincermi che fosse una sciocchezza. Finlandese suburbano, con quelle guance rigonfie, il doppiomento, le narici larghe, il setto schiacciato e le labbra siliconate sembrava un suino albino. In realta' era soprattutto un cretino. Che nel
Cloudland di Kunming mi aveva dato del quarantenne ("Sara' la barba". Si', oppure che sei un beota) dopo avermi mostrato una cartina del Laos, aver preso approssimativamente le misure della scala fra pollice e indice, allargato il compasso percettibilmente e posizionato le dita in linea retta fra la frontiera e Luang Prabang. Come se ci andassi in funicolare. "Sono 100km scarsi, ci vogliono un paio d'ore" la sua profezia. I chilometri sono 300 e le ore di viaggio 9 e mezzo. Durante le quali, fra un posto di blocco e l'altro, dalla vegetazione saltano fuori alcune bisce, parecchi camion disposti a frontali vincenti e una miriade di villaggetti identici: un pugno di palafitte col tetto spiovente di paglia, maialini che grufolano, uomini che trasportano fasci di legna sulla schiena, ragazzine con le sporte legate in fronte, donne che ruminano spighe di orzo, bambini che interrompono il gioco per correre sul ciglio a salutare il passaggio dei pickup, sciami di motorini tutti diversi, talmente piccoli che sembrano fatti in casa. E che si guidano con una mano, mentre l'altra tiene un ombrellino, una gallina o un neonato. Fra le palme e i banani le carnagioni si fanno ambrate, gli occhi si riprendono parte della forma tondeggiante, i sorrisi tornano a splendere, la quiete a regnare e soprattutto, come per miracolo, riappare il sole.
Ventotto ore dopo la partenza da Kunming, in qualche modo, arrivo a destinazione. E durante le operazioni di cambio incrocio un omino sulla sessantina. Tarchiato, con la testa ovoidale, un accenno di pappagorgia, gli occhi piccoli resi ancor piu' minuti dagli occhiali spessi e una buffa maniera di guardarti dal basso verso l'alto, inclinando indietro tutto il busto. Ha la silhouette inconfondibile della vecchia conoscenza, se non ricordo male si chiama Jean-Yvon. Ci siamo intravisti una mezza dozzina di volte, in passato, l'ultima quasi sei anni fa. E in sua assenza, nel suo disordinatissimo appartamento di Suresnes, alla periferia ovest di Parigi, ho trascorso settimane indimenticabili a base di frustrazione, alienazione e molto meno sesso di quanto avrei voluto. "Buongiorno zio, si ricorda di me?". "Ah... l'italiano... il giornalista... il fotografo... il viaggiatore". Si', tutto e niente, sono io. "...allora quando torna in Francia mi saluta sua nipote Carole?". Che sta in Tanzania. A proposito di coincidenze e mezze Delusioni.
Adagiata con i suoi 32 templi sulla penisoletta fra il Mekong e la docile sinusoide di un suo affluente, il Nam Khan, Luang Prabang e' patrimonio dell'umanita' che vive di turismo. Ma che appoggiandosi sulla gentilezza non smaliziata dei suoi abitanti non ha ancora perso l'ingenuita' della fanciulla acerba. Ex capitale del regno, e' una cittadina rilassata, garbata e tranquilla, che pero' in questi giorni e' agitata da un fermento positivo, da un fremito di gioia collettiva. Il 27 ottobre si celebra infatti il
lai heau fai, una ricorrenza buddista che coincide con la festa per la luna piena piu' importante dell'anno, la prima che cade dopo la stagione monsonica. Quella che segna la fine delle piogge e il ritorno del sereno. Per tre giorni i monaci e gli abitanti preparano grandi barche di cartapesta, dispongono in ogni angolo candele e foglie di gelso inghirlandate con fiori arancioni, fanno le prove di effetti speciali con miccette e fischiabotti, assistono tifando a gare di canoa fra villaggi, sbattono piatti e suonano tamburi. Sono le prove generali della grande processione in abiti tradizionali che si conclude nel tempio principale, il Wat Xieng Thong (pron. Uat-scien-ton: quando un monaco m'ha chiesto se ci ero mai stato ho attaccato con Chicago e San Francisco, prima di arguire che avevo sbagliato strada...) mentre le barche vengono affidate alla corrente del poderoso Mekong.
Tre giorni giovani giovani in una guesthouse profumata, in compagnia di Taylor la bionda, Christina la mora e Tierney la rossa - aspiranti fattone dal sangue anglosassone allungato col brunello di Montalcino - e di una biciclettina rosa, col cestino e senza freni, sulla cui sella appuntita metto a repentaglio reputazione, potenzialita' riproduttive e noce del capocollo fra le piste di campagna. Poi, quando della festa resta solo la cera rappresa sui marciapiedi e mi incammino verso Vientiane, lo rivedo. Mika, il finlandese dei 100 chilometri, delle 3 ore e dei 40 anni. Indossa un paio di anfibi e una tuta mimetica con striature ocra e sta sferzando l'aria con un arnese simile ad un manganello retrattile. "Mi alleno all'autodifesa attiva". Autoche? "Questo l'ho preso in un mercatino cinese, ma ho anche un coltello. Mi premunisco contro ogni pericolo". Nel Laos? "Certo. L'Indocina e' piena di rischi!". Come no. A proposito, Mika, tu l'hai fatta la profilassi antimalarica? No? Tieni, allora. Ne manca solo una...