Il punto non e' la paura di volare. La prima volta che ho allacciato la cintura di un aereo ero talmente piccolo che dall'alto scrutavo le nuvole alla ricerca di nonno Paolo. Qualche anno fa ho pure tentato la scalata alla carriera di steward, ma mi hanno bocciato al colloquio. Maila, che fra un parto e l'altro farebbe l'assistente di volo, mi ha spiegato che sono un tipo troppo in gamba per gli standard delle compagnie aeree. Il che spiega solo che mia sorella oltre che un po' bugiarda sa essere affettuosa.
Insomma, il punto non e' che ho paura di volare. E' che le strade sono la cartella clinica di un Paese. Se le impari a leggere ti dicono piu' dell'albero genealogico, del conto in banca e dell'oroscopo. Attraversare una nazione via terra, abbracciare con gli occhi i campi coltivati, le piazzette dei paesini, le rive dei fiumi, i carretti trainati da buoi o da esseri umani, i ponti a sei corsie o quelli arrugginiti, le stazioni di servizio automatizzate o le baracche di legno che di giorno fungono da posti di ristoro e di notte sono il riparo di intere famiglie, significa osservare come e di cosa vive la sua gente. Ci sono mondi che ancora si fondano sul settore primario, nei quali la maggior parte della vita si svolge lontano dai centri abitati.
Percorrere le arterie automobilistiche significa anche toccare con mano le infrastrutture di un Paese e avere un primo assaggio del tenore di una popolazione. Dato il costo della manutenzione della rete viaria, lo stato del manto stradale e' spesso uno specchio delle disponibilita' del governo o del suo interesse per i cittadini. Dato il prezzo delle auto - equiparabile a qualsiasi latitudine - il parco macchine e' un riferimento parziale ma fedele del potere di acquisto dei salari. Tutte indicazioni che gli aeroporti e il centro delle citta', nella loro omologazione, raramente forniscono. Ma c'e' di piu'.
Lo stile di guida della gente ti racconta del senso civico, dell'osservanza delle regole, del rispetto per la vita altrui e del grado di attaccamento alla propria. Condividere i disagi della gente, infine, consente di andare anche oltre. Di sfiorare il modus pensandi. Ieri, alla trentunesima ora di un viaggio, ho chiesto ad un ragazzo se per caso il nostro bus fosse in ritardo. Mi ha risposto "su cosa?".
Perche' percorrere un Paese dal basso significa anche saggiare come viene percepito il rapporto fra spazio e tempo, fra ideale e reale. E poi come si interiorizzano le regole non scritte e ci si adegua. La base della mentalita' di un popolo, insomma. Viaggiare via terra ti regala questo. E poi paesaggi mozzafiato.
Per questo salire un barcone a Sekupang e ritrovarmi in un giorno a Jakarta mi sembrava un'occasione mancata. Di fronte, a 5 ore di mare, c'era Sumatra, un'isola estesa una volta e mezzo l'Italia. La sesta piu' grande della Terra. Cosi', mentre il battello attraccava a Batam, c'ho ripensato. Seduto ad una tavolino di plastica del porto ho scambiato qualche risata con quei bastardi di Nodin e Tagor e ho deciso di prendere l'Indonesia alla larga. Molto alla larga. Le scorciatoie stanno alle soluzioni complicate come il cioccolato al cacao. E' questione di gusti e di principio.
La prima cosa che ho capito di questo Paese e' che se dai credito a tutte le ragazze che ti definiscono handsome va a finire che ci credi. La seconda e' l'assoluta inutilita' della domanda : "A che ora arriviamo?". Ho impiegato un giorno per lasciare Nagoya e la sua aria da malsano posto di frontiera zeppo di gente venuta da Medan dietro il richiamo degli yen e dei dollari degli uomini di affari giapponesi e singaporeani in visita sessuale e poi costretta a bighellonare tutto il giorno perche' i pochi stranieri se ne stanno reclusi nei resort. Quindi ne ho impiegato un altro per andare da Sekupang a Bukittinggi. Al porto di Batam mi avevano garantito che sarebbero bastate 12 ore. Invece per attraversare i monti Barisan me ne sono servite 21. Eppure qualche buontempone in vena di eufemismi ha battezzato trans-sumatran highway quella timida colata di asfalto zigzagante che striscia nel cuore della giungla che ospita tigri, oranghi e tapiri, ampi fiumi marroni e palme alte come palazzi di cinque piani. Qui la natura non e' ne' salvaggia ne' lussureggiante. E' esagerata. Sull'isola piu' devastata dalla furia dello tsunami nasce un fiore - la rafflesia - largo come un 33 giri e spesso come un guanciale, sono stati trovati insetti lunghi cinquantaquattro centimetri, ha sede il lago Toba, la piu' grande caldera vulcanica del pianeta e, fra gli altri, abita il Krakatoa, la cui esplosione del 27 agosto 1883 fu udita fino a Perth e genero' un'onda alta 40 metri che fece vittime anche lungo le coste della penisola arabica. Tutti primati mondiali. A Sumatra la natura ha sempre qualche argomento contro il fondamento antropocentrico di questo globo. Percio', scendendo sotto la linea dell'equatore, io mi sarei umilmente accontentato di visionare il cambio di direzione nel risucchio dell'acqua negli scarichi. Ma a Bukittinggi ho trovato solo un bagno alla turca. E nella periferia di Pekanbaru, dove ho trascorso svariate ore in attesa di un bus di ricambio, i bisognini si fanno solo all'aria aperta.
A Bukittinggi piove che Dio la manda. E come in tutte le nazioni che non si decidono a percorrerla, quella famosa via dello sviluppo, qui dal cielo sembra che cada terriccio. Le strade si riempiono di pozzanghere di melma, figuriamoci i sentieri di collina come quelli che imbocco per andare al villaggio di Koto Gadang nonostante gli avvertimenti dei locali. Mi mettono in guardia, dicendo che e' pericoloso, nei fatti rimedio due strappi in motorino gratis e senza neanche domandarli. E poi li' conosco Imel. Il 5 novembre scorso, giorno del suo compleanno, l'epatite le ha portato via il fratello Roni, e quando mi saluta -
Hallo mister! - come tutti i suoi connazionali, negli occhi ha ancora i segni della prima visita al cimitero. Imel mi invita a casa sua, per ripararmi dalla pioggia, per offrirmi un amaro te' al gelsomino e per presentarmi la madre, la zia, la nonna, la sorella minore e l'unico fratello rimasto. Di Roni mi dice che amava suonare la chitarra e che una volta ha lavorato presso un signore che nel cortile allevava un coccodrillo. Mi mostra anche la foto del rettile, il quale crescendo ha finito per mangiarsi il cane del signore. Poi guarda le mie foto, e quando ha esaurito gli
oooh mi chiede di prometterle che quando tornero' a Bukittinggi andro' ospite a casa loro. Il massimo che riesco a dirle prima di commiatarmi e' i
nsciallah.
In partenza il contachilometri del bus che intende portarmi a sud segna 697.400. E a giudicare dallo stato della carrozzeria potrebbe mancare anche un 1 davanti. Non c'e' il posto del bigliettaio, ma la somiglianza con gli Atac verdi degli anni Settanta e' impressionante, e anticipa che di sedili reclinabili e poggiatesta non se ne parla. Di un check-up prima della partenza neanche. Fra rottura (e riparazione) dei freni, della cinghia di trasmissione, di uno pneumatico maciullato e di qualche altro pezzo del motore, dopo 4 ore abbiamo macinato dodici chilometri. Nella lista delle cose che la strada insegna aggiungo la pazienza. Quando comincia a fare buio scopro con piacere che l'unica lucina che funziona e' quella sopra la mia testa. Il che e' un bene, perche' posso leggere fino ai primi accenni di voltastomaco. Ma e' anche un male, perche' proprio li' dove avevo progettato di appoggiare la tempia sinistra si intensifica il viavai di scarrafoni cornuti. E il cuscinetto gonfiabile s'e' bucato. Prima ancora che Sumatra cominci scorrere sotto le ruote del mio bus
economi class ho l'impressione che posso estrarre dalla naftalina l'aggettivo
allucinante.
Per andare da Windhoek a Maun c'avevo impiegato tre giorni. Ma li' il mezzo si era proprio scassato e, rintanato in una fattoria al confine fra Namibia e Botswana, mi ero almeno divertito a dar da mangiare carne di asino ad un leopardo, a stuzzicare un caracal e a intrattenermi di notte con i boscimani e le loro leggende. Qui invece gli intrattemimenti scarseggiano. E il tragitto dura 42 ore. Finche', nella migliore tradizione di Side, Batumi, Ashgabad, Samarcanda, Osh, Bangkok, Bukittinggi e compagnia, alle tre di notte il bus scarica me e i miei ossicini pronti per una partita di
shanghai in un piccolo terminal alla periferia di Jakarta, la piu' caotica megalopoli del sud-est asiatico. E all'alba del centocinquantesimo giorno di viaggio, con sulle spalle circa 600 ore di spostamenti e uno zaino avvolto da una croccante crosta di fanghiglia rappresa, mi adagio su un lenzuolo bucherellato di Jalal Jaksa. Giusto in tempo per il
muezzin delle quattro antimeridiane.
P.S. Aggiornato il file del dario-percorso con GoogleEarth, aggiunta una nuova performance del capitolo What's my name again?... ed altre piccole sorprese all'interno delle sezioni DarioTube, Dario Bazar, raggiungibili attrverso il link JourneyMen...