L'intruso e' penetrato dalla finestrella, sfruttando il buio. Pensando forse che dormissi. Ma purtroppo per lui ero bello sveglio. Così quando l'ho visto entrare, scivolare furtivo lungo la parete della stanzetta e sistemarsi vicino alla porta del bagno, ho trattenuto un sussulto mettendo mano al coltellino. Poi ho acceso la luce, e l'intruso si è fermato. "Stai calmo - gli ho detto - che' se fai il bravo non ti scuoio. Anzi, viste tutte le falene, le mosche, i ragni e le zanzare che ci sono qui dentro potresti farmi anche comodo. Per cui stabiliamo le regole d'ingaggio: io non posso evitare che tu entri quando vuoi, ma se durante la notte mi accorgo che mi passeggi sul viso, ti ficco questa lama nelle budella e mi faccio un borsello nuovo". Con tutti i suoi trentacentimetri grigi a pois bordeaux e quella testa grossa come una noce pesca, il geco si e' risentito. Prima che arrivassi io, quell'ambiente era il suo reame. Ma fra le tre soluzioni proposte da Jeff ho scelto di dormire nel salone di bellezza di famiglia, quello intitolato alla nonna. Si chiamava Pella Papaja, ma siccome il nome era troppo lungo per l'insegna, il negozio l'hanno chiamato semplicemente Pella Pa. Quando non e' chiuso per le feste, oltre ad sistemare i capelli di uomini, donne e indecisi cronici, al Pella Pa di Kupang si vestono e si acconciano le spose, si organizzano servizi fotografici e viaggi di nozze. Dietro la saracinesca gialla si aprono tre ambienti ricolmi di vestiti bianchi, istantanee affatto spontanee e fiori finti. In fondo ad ogni stanza c'e' un camerino. E quello piu' grande, accessoriato con un bagnetto alla turca senza acqua, diventa per i tre giorni a cavallo di Natale la mia dimora timorese. Che divido con una bestiolina viscida.I giovani dell'isola spaccata a meta' dalla guerra del '99 si tingono i capelli nei colori piu' appariscenti, dal fucsia al cobalto. Gli adulti masticano il betel, come gli indiani. Per questo hanno le labbra e i denti coperti da una patina poco attraente di rosso. Tutti insieme, invece di salutarsi con una stretta di mano o con un bacino sulla guancia, si strofinano i nasi. Il primo a propormi la punta del suo e' il papa' di Diana. Lei fa la meteorologa, nel 2006 ha vinto un concorso di "bellezza e intelligenza", ed e' stata eletta miss Nusa Tenggara orientale. In qualita' di ragazza piu' attraente di tutto l'arco indonesiano che va da Sumbawa a Timor, Jeff ritiene che se proprio a me gli uomini non piacciono lei possa fare al caso mio. Quel che non mi dice e' che la famiglia di Diana aspetta da tempo un partito all'altezza di cotanta figliuola. Percio' quando mi accompagna nella casetta alla periferia di Kupang, davanti ad una tavola imbandita con sei tipi di carni, ci aspettano parenti di quattro gradi pronti ad investirmi del ruolo di principe azzurro. Cosi' passo la vigilia sorvegliato da ventotto sguardi indagatori, estasiati, giudicanti, speranzosi, tutti addosso.
"Tanto il cane non lo mangio". Metto pero' subito in chiaro. "E' vero che anche altri animali domestici provano paura e dolore, che forse nutrono addirittura forme di fedelta' e fiducia verso l'uomo. Ma nei cani e' la quantita' e la qualita' dei sentimenti che e' diversa. Nei cani c'e' amicizia e riconoscenza, affetto e rancore, gioia e tristezza, noia ed eccitazione. Non solo e' crudele allevare una creatura in grado di provare queste emozioni allo scopo di mangiarla, ma e' il tradimento della sua fiducia incondizionata che diventa un atto vile, deprecabile e disumano". Staccando gli occhi dal piatto, incrocio uno sguardo trasognante, pieno di stelline luccicanti. Come quello di Candy Candy. "Falla finita, Jeff!".
Il giorno dopo le visite alle famiglie di Kupang raddoppiano. Tenendoci sempre abbondantemente sotto i 25 chilometri orari, rechiamo visita due volte ai Papaja, una ai genitori di Diana, una a quelli di Iman, una a quelli di Randy e finiamo anche per sgranocchiare riso in bianco e pollo fritto da una coppia di parrucchieri che vive in una baracca del campo profughi. Il giro di auguri e di chiacchiere natalizie, compresa una lunga e improduttiva dissertazione di carattere relativistico-ecumenico col nonno di Iman, finisce in piena notte, sotto il solito diluvio.
L'indomani Jeff mi sveglia alle 4, un'ora prima del bus per Timor Est. "E' incredibile. Ne sai piu' tu di me..." "Falla finita, Jeff". "Dico sul serio... non capisco come si possa cambiare cosi' tanto la vita..." "Falla finita". "...di una persona in appena tre o quattro giorni". "Falla finita Jeff, tanto un bacio non te lo do".




L'imbarcazione regge l'urto delle onde laterali, coi fasci di canne di bambu' che bilanciano l'arrivo della schiuma da destra come da sinistra. Ma quando la tormenta risucchia l'acqua davanti a noi, la poppa sembra sprofondare nella voragine, e ne esce indenne solo dopo aver imbarcato secchiate di mare e aver prodotto il gemito stridente della bestia maltrattata.
Sara' l'aria particolarmente telegenica del sopravvissuto, sara' per non essere inferiori alla CNN o piu' banalmente perche' sono l'unico straniero sull'isola assieme ad un signore tedesco di nome Rudi, ma la troupe di TTV (dove la prima T sta per Trans, ma nel senso di transnazionale, la seconda T sta per Tele e l
"I think it's the ocean... I love Biarritz when the sea it's so frightening that it turns people to stone. The Atlantic there is really unforgiving, and ruthlessly cruel. You can feel it calling you.... But people in Biarritz...nothing freaks them out...they're the most tolerant and easy going people in Europe ".
I cercatori di onde hanno scoperto le spiagge di Bali trent'anni fa. L'isola a forma di pesce, di sottomarino o di impronta di scarpa da donna, abitata per il 94% da induisti, e' diventata in fretta la Mecca dei surfisti anglosassoni. E da paradiso della tavola, nel giro di un paio di lustri e' assurta al ruolo di frontiera esotica del turismo di massa. La gente del posto e' brillante ma cordiale, con quel foulard in testa pittoresca quanto serve, la storia ha lasciato tracce monumentalmente tangibili, il clima umido e' mitigato dai rilievi dell'interno, la varieta' dei paesaggi in rapporto alla superficie dell'isola e' impressionante. I suoi templi sembrano spuntare dalla vegetazione in uno sfondo di vulcani, risaie e canyon. Nel verde piu' scuro ma a pochi minuti da barriere coralline e coste bianche, lunghe e in qualche caso ancora sufficientemente immacolate. E poi - o meglio, per questo - c'e' un aeroporto internazionale che scarica stranieri da quattro continenti senza neanche pretendere da loro la fatica di uno scalo. "Fino ad oggi conoscevo solo un australiano che non c'era mai venuto - mi dice James di Perth mentre il ferry preso a Giava sta per attraccare nel buio di Gilimanuk - ed ero io". L'atmosfera di Bali e' meno sfacciata dei posti di mare thailandesi, ma l'evoluzione e' similare. Per le strade di Kuta, il centro della vita notturna degli stranieri a torso nudo, ad ogni passo ti senti proporre una cerbottana di Kalimantan grossa come un kalashnikov, un taxi, un cambio in nero, un massaggio, una donna o un allucinogeno, in un climax trasgressivo da liceo classico. E siccome il target di un posto si desume facilmente dalla mercanzia in vendita, non e' un caso che negli stand campeggino adesivi da attaccare su auto e moto australiane con messaggi di gran classe tipo "don't laugh - my other ride is your mother", "suck my cock - vomit", "lick my bucklet crueth", "tongue my ass" (quest'ultima un plagio della precedente) o "unless ur goin 2 lick it - get off my ass".
A Kuta arrivo dopo mezzanotte, spinto da Okil - che di mestiere fa il poliziotto e per hobby insidia le straniere - che mi promettere un documento "segretissimo" sulla conferenza sul clima che il giorno dopo trovo sulle prime pagine di tutti i giornali. Non avendo altri interessi nella zona di Nusa Dua, dove si discute e si protesta, dopo una breve notte proseguo per Ubud, la cittadina dell'interno famosa per essere la culla della cultura balinese. Quando le coste sono state assalite dagli stranieri, e' li' che si sono rintanati gli artisti, attratti dal fresco e da dintorni soavi che istigano alla pittura. Anche se la concentrazione di ateliers, boutiques, gallerie e cafe' e' sproporzionata rispetto al numero degi visitatori, Ubud mantiene uno stile dignitoso, prospero e curato. Forte del buon gusto che ammanta anche le copie delle statue rivestite di muschi, il santuario delle scimmie e l'ultimo cortile della piu' piccola guest house, e' diventata la seconda casa di tanti occidentali. Arrivando nella cittadina conosco Marine di Biarritz, che a Ubud lavora da poco ma ne sa abbastanza da proporsi come Cicerone fra i meandri di un museo annesso ad un resort cosi' di lusso che tre persone sono addette quotidianamente solo alla preparazione delle decine di composizioni floreali quadricrome disposte secondo i punti cardinali su una base fatta di foglie di gelso da offire agli dei assieme ad incensi e biscottini. Marine mi invita anche ad assistere ad una ipnotica rappresentazione teatrale nella quale solo l'unico ospite. Nella danza tradizionale balinese la musica e il corpo procedono a scatti, in un crescendo di pathos vagamente sconvolgente. Gli occhi, i piedi e le mani, tutte le estremita' corporee, si tendono come per percepire ogni piu' sottile vibrazione del mondo, ogni atto e' enfatizzato, i movimenti risultano allucinati, trasmettono l'angoscia dell'esistenza, succhiano positivita' ma rilasciano energie. Ma chiedere al coreografo e al direttore dello spettacolo dettagli sulla filosofia e la concezione della vita e della morte che ne stanno alla base o ragguagli sul rapporto fra lo spazio interiore ed esteriore, non fa che aggiungere un altro ramo all'albero delle domande appese. Senza che nessuno mi abbia ancora spiegato perche' mai davanti al Registan di Samarcanda sulle mattonelle della pavimentazione stradale sono incisi dei palloni da calcio. "Mi sa che ti devi comprare un libro" mi dice Marine, proponendomi di unirmi alla cena che segue lo spettacolo. "Mi piace il modo in cui partecipi attivamente a tutto" mi sento confessare durante l'aperitivo da Futu, il ragazzo che si oscura in biglietteria. Il fatto e' che sono talmente duro di comprendonio che non posso permettermi di essere anche disattento, gli rispondo. Perche' Futu non e' tipo da sorbirsi un trattato sul rapporto fra attenzione, considerazione, rispetto e memoria come Deth a Luang Prabang. E poi perche' gia' la pasta cucinata da Marine e' una colla scotta. Ci manca solo che ce la mangiamo pure fredda.
Sul molo dal quale l'indomani saluto Trawangan trovo Orry, un giovane professore di matematica che per per tre giorni e' stato mio vicino di stanza e compagno di cene. Una fusione splendidamente imperfetta di discrezione cinese e simpatia indonesiana. Quando la nazionalita' e' solo un fatto di passaporto. "Pure stanotte hai dormito giusto qualche ora - mi apostrofa come se leggesse uno scontrino - Da quando sei arrivato ti ho visto parlare con decine di persone di politica e sport, musica, economia e droghe, fare il periplo dell'isola sotto il sole, e poi fare snorkelling, scrivere, scattare foto, scherzare con una serie di sconosciuti, giocare quasi due ore al giorno a beach volley e poi uscire ogni sera coi tuoi amici fino a tardi. Sono quasi 6 mesi che fai questa vita e adesso vai fino a Flores in bus.... Mi spieghi dove le trovi, queste energie?". Questa e' facile, caro Orry. "Si chiamano attivita' di sostituzione. In pratica e' tutta libido inespressa".
Al centro di quest'amaca sospesa fra Asia e Oceania infatti ribolle l'isoletta di Giava. Estesa quanto il regno delle due Sicilie ma popolata come i tre Stati a ridosso dei Pirenei, è la casa - a volte il tugurio - di centoventimilioni di persone. Milione più milione meno, la stima e' approssimativa e per difetto. Perche' in un arcipelago disteso da est ad ovest quanto tutta l'Europa, oltre la meta' degli indonesiani viene e va, finché non si ammassa in questa sottiletta di terra fra l'Oceano indiano e quello Pacifico, concimata a catastrofi naturali e disordini civili, frizioni sociali e accenni di modernismo. E pressoché insensibile alla politica della trasmigrazione, l'insieme di incentivi economici e lavorativi disposti dal governo in favore di chi si trasferisce su un'isola lontana da Jakarta: moltissimi giavanesi intascano l'equivalente di 400 euro, diventano proprietari di un appezzamento di terra, trascorrono il periodo stabilito nella sottopopolata destinazione remota e poi ritornano alla base. Portandosi spesso dietro qualche disperato di Celebes o delle Molucche. La conseguenza, in un Paese nel quale il 60% degli abitanti vive nelle campagne, dove nei soli mesi invernali la temperatura non scende mai sotto i 23 gradi ma piove un metro di acqua, è che ai lati delle strade lisce, intasate da motorini e camion che non hanno ancora avuto il piacere di conoscere la benzina verde, si alternano senza soluzione di continuità cittadine e risaie, insediamenti rurali e discariche, baraccopoli e centri commerciali. Il ritmo è di quasi 900 persone ogni chilometro quadrato. In termini di spostamenti sul territorio significa che l'incolonnamento e' perenne. E che puoi metterti comodo e fidarti dell'amico autista del bus di turno. Lui SEMBRA prendere rischi eccessivi quando sorpassa cinque camion in un un unico curvone o quando pennella gimkane fra le auto che trasportano motorini, motorini che trasportano bici e bici che trasportano materassi, ma in realtà sa quel che fa. E poi quando alla periferia di un villaggio un nugolo di gente soccorre i sanguinanti superstiti dello stesso modello di bus, della stessa compagnia di trasporti, finito con il muso dentro un fosso, lo capisce da solo, l'amico autista, che per un po' è il caso di rallentare. E accettare che su un tragitto di otto ore il ritardo salga a quattro.
Gli indonesiani sono fatalisti. E se per ridere alle mie idiozie bisogna essere un po' imbecilli e molto gentili, gli indonesiani lo sono parecchio. Quell'occhio vitreo, qualche volta cerchiato da una corona celeste, inquieta ma inganna: qui la gente è allegra e scanzonata. Sarà il pensiero che l'Australia è a vista ma se la son fatta soffiare dagli inglesi, ma sono persino autoironici. Come il signore sul bus per Probolinggo, che dopo aver sopportato a lungo gli effluvi dell'incontro ravvicinato fra la mia scarpa e un escremento mi ha chiesto se avevo fatto indigestione di nasi goreng, il riso fritto. E poi straparlano di calcio. Quando ne parlo con Cecile, uno dei sei visitatori di Borobudur, lei mi porge la sua polaroid per immortalarla in compagnia di un ragazzo in una sala di attesa di un terminal. Fra gli avvocati girondini di stanza a Lussemburgo un semplice gesto carino, fra i giovani indonesiani una chiara autorizzazione a procedere. Pertanto nel primo scatto lui le appoggia casualmente l'anulare su un capezzolo, nel secondo le affonda entrambe le mani su entrambi i seni. Gli indonesiani sanno prendere l'iniziativa. Non mi resta che andare a Bali per vedere se ho imparato la lezione.
"
"E lì...". "Anzitutto s'è stupita che ci fosse un ventilatore direzionato verso l'alto al posto dell'aria condizionata. Ma per 4 euro cosa pretendi...". "E poi?". "Sulla toilette non ha commentato. Ma non trovando né lavelli né specchi e un foro nel pavimento al posto del wc, immagino abbia realizzato che non sono l'uomo della sua vita". "Peccato". "Comunque non rientrava tra i miei piani di viaggio fidanzarmi con una ragazza col mascara fucsia". "Mica l'avrai cacciata!". "Certo che no. Ma dovevo sciacquare i panni". "E lei ha aspettato?". "Sì, pioveva. Mi ha chiesto se sull'mp3 avessi un po' di
"Avevi bevuto o sei cretino?". "Nessuna delle due. E' solo una tattica per salvare la faccia: quando hai l'impressione che lei non ci stia, buttala sul filosofico. Fai un figurone". "Mi prendi per scemo. Ma insomma, come ha reagito questa Lona?". "Mi ha chiesto quanto guadagnavo". "E basta?". "No, anche cosa cerco nella vita e nelle donne. Più facile rispondere alla prima che alla seconda". "Ti ha sputato in faccia?". "No, mi ha detto che se ci fossimo incontrati prima mi avrebbe proposto di andare a Bali insieme. Fra una settimana parte per il Giappone, va a fare la cameriera per sei mesi, e nel frattempo si è concessa una vacanza di qualche giorno. E' partita stamattina". "L'hai salutata?". "E' passata nella guesthouse e si è fatta accompagnare in stazione. Ma solo perché la valigia pesava". "L'hai baciata?". "Macché. Le ho dato la mail visto che me l'ha chiesta". "Tutto qui?". "No. Dopo sono andato a vedere la zona di Kota. Deludente. Meglio il porto di Jakarta. A parte il fatto che lì fra lo smog, la fogna e la baraccopoli costruita sulla discarica m'è risalito il gelato del fast food". "Quello all'angolo?". "Sì, perché hai presente la carta igienica vetrata che vendono nei supermercati? Nei bagni di McDonald mi avevano detto che c'era quella soffice. Te lo confermo, guarda qui". "Ladro! E ora?"."Vado a ritirare il bucato asciutto, torno a prendere lo zaino e stanotte parto per Yogyakarta. Ho trovato un passaggio su un furgoncino che oltre a me trasporta due indonesiani e il loro scooter". Tre uomini e una forcella. Proprio dietro la nuca.
Il punto non e' la paura di volare. La prima volta che ho allacciato la cintura di un aereo ero talmente piccolo che dall'alto scrutavo le nuvole alla ricerca di nonno Paolo. Qualche anno fa ho pure tentato la scalata alla carriera di steward, ma mi hanno bocciato al colloquio. Maila, che fra un parto e l'altro farebbe l'assistente di volo, mi ha spiegato che sono un tipo troppo in gamba per gli standard delle compagnie aeree. Il che spiega solo che mia sorella oltre che un po' bugiarda sa essere affettuosa.
Percorrere le arterie automobilistiche significa anche toccare con mano le infrastrutture di un Paese e avere un primo assaggio del tenore di una popolazione. Dato il costo della manutenzione della rete viaria, lo stato del manto stradale e' spesso uno specchio delle disponibilita' del governo o del suo interesse per i cittadini. Dato il prezzo delle auto - equiparabile a qualsiasi latitudine - il parco macchine e' un riferimento parziale ma fedele del potere di acquisto dei salari. Tutte indicazioni che gli aeroporti e il centro delle citta', nella loro omologazione, raramente forniscono. Ma c'e' di piu'.
A Bukittinggi piove che Dio la manda. E come in tutte le nazioni che non si decidono a percorrerla, quella famosa via dello sviluppo, qui dal cielo sembra che cada terriccio. Le strade si riempiono di pozzanghere di melma, figuriamoci i sentieri di collina come quelli che imbocco per andare al villaggio di Koto Gadang nonostante gli avvertimenti dei locali. Mi mettono in guardia, dicendo che e' pericoloso, nei fatti rimedio due strappi in motorino gratis e senza neanche domandarli. E poi li' conosco Imel. Il 5 novembre scorso, giorno del suo compleanno, l'epatite le ha portato via il fratello Roni, e quando mi saluta - Hallo mister! - come tutti i suoi connazionali, negli occhi ha ancora i segni della prima visita al cimitero. Imel mi invita a casa sua, per ripararmi dalla pioggia, per offrirmi un amaro te' al gelsomino e per presentarmi la madre, la zia, la nonna, la sorella minore e l'unico fratello rimasto. Di Roni mi dice che amava suonare la chitarra e che una volta ha lavorato presso un signore che nel cortile allevava un coccodrillo. Mi mostra anche la foto del rettile, il quale crescendo ha finito per mangiarsi il cane del signore. Poi guarda le mie foto, e quando ha esaurito gli oooh mi chiede di prometterle che quando tornero' a Bukittinggi andro' ospite a casa loro. Il massimo che riesco a dirle prima di commiatarmi e' insciallah.
