domenica 17 luglio 2022

I predatori dell'arca perduta - part I

Daniele era un amico d'infanzia. Talmente intimo che suo fratello Giancarlo aveva dormito decine di volte con me e centinaia di volte con mia sorella.  
Prima che amici, eravamo insomma una specie di parenti acquisiti, anche se eravamo separati da 500 chilometri, 5 anni e un giorno.
Se non era lui a chiamarmi il 27 maggio per farmi gli auguri, ero io a cercarlo il 28. 
Quell'anno toccava a me, perche' il piccolo Daniele diventava maggiorenne.
"Per il compleanno ho chiesto ai miei di lasciarmi venire in viaggio con te. Dove vai quest'estate?", mi chiese. 
"Vado in Medio Oriente. Siria, Giordania, Israele...Forse anche in Libano".
Lui non batte' ciglio, si limito' a riferire la bozza dell'itinerario ai genitori e ad ottenere la loro approvazione: quello sarebbe stato il regalo per i suoi 18 anni. 
Piu' che coraggio o fiducia in me, quella di Daniele era beata ingenuita'. 
Che lo avrebbe spinto a celebrare la maggiore eta' con una serie di riti di passaggio, dalle bombe israeliane al raggiro alla frontiera con la Siria, dalla notte sul tetto della moschea all'ingresso a Petra scavalcando il muro di cinta. 
Due mesi dopo quella telefonata partimmo, facemmo scalo a Istanbul e atterrammo a Beirut a tarda sera. Li' Daniele mi rivelo' che "in realta' immaginava Istanbul come Beirut e Beirut come Istanbul".
Cioe' pensava e sperava di ritrovarsi in una citta' ricca di moschee, palazzi, torri e panorami mozzafiato. Invece l'avevo trascinato in una metropoli illuminata da qualche fuoco acceso sui marciapiedi e con gli edifici crivellati di colpi, se non completamente sventrati. 
Il fatto di arrivare in piena notte, non aiuto' a rompere il ghiaccio.
Daniele sfogo' la tensione nel modo che piu' gli si addiceva. 
Nell'ascensore che ci portava al quarto piano di un palazzo nel quale avremmo trascorso la prima notte, sgancio' una miscela a base di anidride carbonica, metano, idrogeno e azoto molecolare, i prodotti scartati dal suo giovane stomaco dopo aver processato e fermentato il kebab ingurgitato qualche ora prima sul Bosforo. 
Un ordigno allo zolfo del quale in altre circostanze Daniele sarebbe andato fiero e del quale mi avrebbe mostrato il potenziale combustibile e pirotecnico, oltre che pestilenziale.
Li' per li' pero' non eravamo soli. 
A condividere l'esiguo spazio vitale in quell'ascensore di Beirut c'era Antonio Pazienti da Monteverde Vecchio e c'era soprattutto Mustafa'. 
Ovvero l'uomo che per i successivi quattro giorni ci avrebbe scarrozzato completamente gratis in giro per il Libano.
L'uomo che s'era preso la briga di venirci a prendere in aeroporto e che ci aveva trovato una sistemazione (gratis pure quella) a casa del nipote reietto in quanto gay non dichiarato. Dove noi tre avremmo trascorso un paio di notti appiccicati in un letto matrimoniale.
Mustafa', la cui biografia comprendeva un paio di guerre sanguinose e un conflitto permanente con Israele, la cui indiscussa autorita' era sintetizzata dal soprannome - mokhtar, sindaco - era un anziano e di poche parole. Non ne aveva bisogno. 
E non parlando alcuna lingua al di fuori dell'arabo, anche volendo con noi non avrebbe potuto esprimersi. 
Dopo tre piani alle prese con quel proiettile a gas sparato da Daniele, il cui fetore cresceva in misura proporzionale ai piani e all'imbarazzo, persino Mustafa' cerco' rifugio in un angolo dell'ascensore. 
E dopo aver disperatamente cercato in un'intercapedine qualche avanzo di aria incontaminata, sbatte' con forza due volte la mano aperta contro le pareti dell'ascensore.
Che arrivo' a destinazione poco prima che svenissimo tutti e quattro.
Daniele, Antonio, Mustafa' ed io.
Uno dei tanti check point lungo le strade libanesi
Nei due mesi intercorsi tra la telefonata di auguri di Daniele e il volo Roma-Istanbul-Beirut avevo infatti conosciuto un muratore libanese. Bassam si era affacciato un sabato mattina alla finestra della mia camera - al sesto piano di un palazzo avvolto nelle impalcature. Si era messo a prendere misure e segnare tracce, e visto che c'era a rispondere alle mie domande. 
Tempo 10 minuti, io mi ero convinto che andare in Libano sarebbe stato fattibile e lui aveva trovato il corriere che avrebbe portato alla sua famiglia uno zaino pieno di regali.
Come mister Mchemwa, due anni prima di mister Mchemwa. 
Solo che invece di riportare indietro cibo, Bassam mi rifilo' otto chili di roba, che fui costretto a catalogare per ragioni di sicurezza. Mica per altro.
Nell'Invicta che imbarcai a bordo della del volo della Turkish c'era un campionario di chincaglierie che comprendeva anche una torre di Pisa in miniatura e una palla di plastica con il Colosseo e la neve artificiale.
Il tutto era destinato a suo suocero Mustafa', il quale mi avrebbe fatto da Cicerone nei Paese dei cedri.
Anzi CI avrebbe fatto da guida, visto che oltre a me c'erano Daniele e Antonio, quanto di meglio la vita mi avesse e avrebbe offerto sul piano delle amicizie.
Un pescatore al tramonto sul lungomare di Beirut
(Tratto da Ulisse - Dicembre 2008)
La fettuccia rossa serpeggia anarchica sul linoleum prima di incocciare un cubo di formica, opaco come la vetrata che svela la notte di Beirut. Nessuno straniero in fila. Il doganiere sfoglia il mio passaporto, sbadiglia, e mormora qualcosa al collega. 
“Dove vai?”,mi chiede. 
“A casa di un amico”, rispondo. 
“Come si chiama?”. 
“Mustafà”. 
“Mustafà… E poi?”. 
“Boh… Mustafà”. 
All’ufficiale scappa un ghigno e non riesco a dargli torto. 
Là fuori ci saranno decine di migliaia di Mustafà, ma purtroppo l’unica cosa che so dell’uomo che mi aspetta nel parcheggio è il nome di battesimo. 
Che poi chissà se si dice battesimo, trattandosi di un musulmano. 
Il cognome avrei dovuto chiederlo a Bassam, l’omino olivastro che a metà giugno aveva scavalcato la finestra della mia camera e si era messo a scavare tracce sulle pareti, sostenendo che se volevo conoscere il Libano lui sapeva chi faceva al caso mio. 
Suo suocero Mustafà - all’occorrenza sindaco, coltivatore terriero e accompagnatore di businessmen sauditi - aveva un tetto da offrirmi. 
Il muratore non aveva finito di formulare la proposta che avevo accettato, e un mese dopo ero atterrato all’aeroporto internazionale. 
“Sai almeno dove abita?”, insiste l'ufficiale dell'aeroporto di Beirut. 
Con lo sguardo minaccio di raccontargli i dettagli dell’antefatto, lui intuisce il pericolo e in un attimo mi ritrovo fuori, nel piazzale, quindi a bordo di una macchina che si fa largo tra le ombre, dopodiche' chiuso nell'ascensore della morte con Daniele, Antonio e Mustafa'. E infine incastrato nel letto matrimoniale messo a disposizione del nipote e l'indomani mattina a far le presentazioni a casa Ghamloush.
Perche' nel frattempo me lo sono fatto dire, il cognome di Mustafà.
Mustafàtra le rovine di Byblos, accanto alla moglie e ad una delle figlie 
Mustafà è il pater familias di una dinastia che abbraccia tre generazioni di cugini coniugati coi cognati e di nipoti sposati coi vicini di casa. Più che un albero genealogico, una matassa di parentele intrecciata con divorzi, affidamenti e convivenze a distanza di oceani. 
Ogni mattina la stirpe si riunisce davanti ad un piatto di manaish con zatar e si cimenta in singolar tenzoni a base di uova sode – tanto vince sempre il nonno - poi s’incastra nel furgone di famiglia. 
E noi tre ci accodiamo.
Con 730 auto ogni mille persone, il Libano è lo Stato col più alto numero di vetture pro capite al mondo. E con 358 abitanti per km2 su una superficie pari a quella dell’Abruzzo, è anche il più densamente abitato del Medio Oriente. L’incrocio dei due dati genera un traffico selvaggio, scandito da regole che col codice stradale c’entrano poco. 
Al volante ci vuole pazienza e fatalismo. Virtù endemiche in una regione che è stata nel mirino di fenici e francesi, passando per assiri, persiani, greci, romani, arabi, ottomani ed inglesi, e connaturate ad una Repubblica che riconosce 18 confessioni e in Parlamento ne rappresenta la metà. Un Paese talmente tribolato che una specie di inquietante monolite di cemento zeppo di carri armati sovietici viene chiamato “monumento alla pace”. 
Io, il topo-talkie e la scopation wagon con l'adesivo CH
Armato di pazienza e fatalismo, fra un cocomero e un sorpasso avventato, un check-point e un’esercitazione dei militari siriani nella valle della Bekaa, Mustafà ci guida alla scoperta dei patrimoni dell’Unesco del suo Paese. 
Il primo giorno andiamo a Jeita per visitare una grotta e a Jbeil per camminare tra le rovine di Byblos, un agglomerato sorto nel neolitico, che nel 4500 avanti Cristo era un villaggio di pescatori, che sarebbe diventato uno dei principali centri fenici e che con i suoi 9 millenni di storia è una delle se non la più antica città del mondo abitata con continuità. 
Al ritorno a Beirut ci concediamo una passeggiata sul lungomare, la Corniche, che fra yacht club, luna park e alberghi di lusso ospita anche una capanna abbarbicata di fronte ai faraglioni conosciuti come gli scogli dei piccioni che incorniciano la discesa del sole nel mar Mediterraneo. Secondo la Lonely Planet, quello gestito da Abdallah in canottiera e' il bar più microscopico della Terra
Ma col tempo ho capito che la Lonely Planet ne spara parecchie.
Il figlio di Abdallah, io, Daniele, Abdallah e Antonio
Il secondo giorno, dopo un'altra colazione a base di manaish, zatar e royal rumble con le uova sode, i Ghamloush si riversano nel furgoncino Toyota con l'adesivo CH e annunciano che ci dirigiamo verso sud per visitare il porto di Sidone e il souk di Tiro ma soprattutto per andare a Jbeil.
Che alle nostre orecchie suona para para a Jbail, ma che e' un altro mondo.
Jbeil e' il paesino nel quale ci sono dei resti romani e quelli di un insediamento del neolitico. 
Jbeil e' la cittadina nella quale Mustafa' e' nato e della quale - almeno ci dicono - e' stato sindaco. 
Jbeil e' un agglomerato con poche migliaia di abitanti, quasi tutti sciiti e quasi tutti imparentati con Mustafa'.
Il porto di Sidone
Nonostante questo, prima di arrivare a destinazione, Mustafa' mi prendere da parte e con l'intercessione della nipote che parla meglio inglese - Nada - mi mette in guardia.
"Non dire a nessuno che la destinazione finale del tuo viaggio e' Israele. A nessuno".
"Ma non sono parenti tuoi? Soprattutto non sei tu a fare da garante per me?", chiedo - leggermente allarmato dal suo sguardo - sempre tramite Nada.
Dei tre io ero l'unico che avrebbe chiuso il cerchio andando in Israele. Antonio si sarebbe fermato in Giordania e da li' sarebbe rientrato a Roma. Daniele sarebbe passato dalla Giordania all'Egitto, dove avrebbe raggiunto suo fratello Giancarlo (quello delle decine di notti nel letto con me e delle centinaia con mia sorella), che lavorava in un villaggio turistico sul Mar Rosso.
"Io mi fido di te, ma non si sa mai a quali orecchie possano arrivare informazioni del genere e come possano essere prese. Insomma, non so se gli altri si fidino di me", mi fa Mustafa.
Jbeil e' una delle roccaforti di Hezbollah, l'ex milizia paramilitare fondata nel 1982 durante la guerra civile e diventata gradualmente una forza anche politica, sicuramente ideologica, massicciamente finanziata dalla Repubblica Islamica dell'Iran, considerata responsabile di attivita' terroristiche dall'Unione Europea e un'organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dai suoi alleati piu stretti: Canada, Australia e ovviamente Israele. 
Come tutte le cittadine che sono legate a Hezbollah, anche Jbeil al suo ingresso da' il benevenuto al visitatore con un cartello che rappresenta la foto della cupola della Roccia, il simbolo di Gerusalemme.
Il sottotesto e' "ce  ripigliamm tutt chell ch'è o nuost".
Un modo per ribadire che la difesa dell'identita' musulmana della regione e' fortemente in contrapposizione, se non del tutto incompatibile, con l'esistenza dello Stato ebraico. 
Gli eredi della dinastia Ghamloush giocano con i topo-talkie sulla strada verso Jbeil
A differenza di molte altre cittadine del genere, pero', Jbeil e' a 5km in linea d'aria dalla fascia di sicurezza controllata dall'UNIFIL, il contingente ONU messo li' per creare una zona cuscinetto - smilitarizzata - tra Tel Aviv e Beirut e la cui i starebbe per interim. Ma che di fatto per oltre 30 anni ha pattugliato la porzione di territorio libanese occupato dalle forze di Israele. 
Insomma, Jbeil e' talmente vicina a Hezbollah che Mustafa', uno dei suoi figli prediletti, non si sente libero di ospitare un 23enne saccapelista diretto verso lo Stato Ebraico perche' teme che la notizia possa provocare mal di pancia, dicerie e ritorsioni nei suoi e nei miei confronti.
E allo stesso tempo Jbeil e' talmente vicina ad Israele che la casa di Mustafa' e' stata bombardata ad inizio anno. E ne porta ancora i segni.
Il salotto e una delle stanze da letto sono state sventrate e negli ultimi mesi i Ghamloush hanno fatto ricostruire i muri, che pero' hanno ancora la calce vita, grigioscura, che contrasta nettamente con l'ocra rosa delle pareti risparmiate dalle bombe.
"Per fortuna in casa non c'era nessuno", dicono.
Jbeil, biscotti, tè e narghilè con la famiglia Ghalmoush allargata
A Jbeil non c'e' francamente molto da vedere, per cui dopo un'oretta trascorsa a sgranocchiare biscotti e a fumare narghile' con il parentado ("Ricordati di non dire che vai in Israele.... ricordati di non dire che vai in Israele") accettiamo l'invito di due ragazzotti locali che ci propongono di unirci alla tradizionale partitella di calcio pomeridiana in quello che loro chiamano campo e che in realta' e' una piana ghiaiosa e polverosa dove se ne danno di santa ragione. Perdiamo di un gol e quando a tempo scaduto mi capita un pallone buono per il pareggio, un bestione libanese mi molla un pestone sul malleolo d'appoggio. 
Io finisco a terra, la partita finisce 3-2 e non ci resta che tornare alla base.
Arrivati a casa Ghamloush, Antonio si butta sotto l'unica doccia a disposizione, mentre Daniele si rintana in una stanza a giocare coi bambini e una specie di Chicco Indovina l'Animale in versione mediorientale, mentre io rimedio da Nada il ghiaccio per la caviglia. 
Mentre la ragazza apre il freezer, l'aria si riempie del suono delle sirene.

"Stanno per bombardare", mi dice.

Calmi tutti - penso. In che senso stanno per bombardare? Ste cose non e' che succedono cosi'... Nei film c'e' un crescendo di tensione, una nota di sottofondo che accompagna il cambio di registro, un'inquadratura stretta che fermi l'attimo tragico, il pericolo che incombe, le vite sospese, la corsa verso il bunker, il dolore, la sofferenza, quel che l'e'.
Invece niente. Resto impalato.
"Stanno per bombardare" dice Nada.
La guardo. Evidentemente in casa non c'e' un bunker, altrimenti ci saremmo gia' fiondati li'. Mancando il piano A, e' placido che non esistano neanche ne' il piano B ne' il C.
Non ci resta che affacciarci al balcone del primo piano. Intanto evitiamo che le bombe finiscano esattamente dove erano finite quelle che le avevano precedute e che avevano sventrato il retro della casa. E se va bene capiamo anche qualcosa.
Dopo 10 secondi il rumore dei jet si fa roboante. Sono tre e vengono da sinistra, cioe' da sud. Volano a quota bassissima e proprio quando sono all'altezza di casa Ghamloush sganciano tre bombe, una a testa.
La villetta di Jbeil e' costruita su un poggio, stretta tra il fianco una collinetta, alle sue spalle, e una piccola vallata che si apre davanti nel quale il panorama e' fatto di rilievi piccoli, morbidi e con poca vegetazione.
Le tre bombe cadono li', davanti ai nostri occhi, a poche centinaia di metri. 
Siamo salvi, almeno per ora.
Corro al bagno, dove Antonio e' sotto la doccia e non ha sentito nulla. 
Corro nella cameretta, dove Daniele sta ripetendo coi bimbini Ghamloush il verso della mucca, della gallina e della pecora. Neanche lui ha sentito niente.
L'indomani torniamo a Beirut, e da casa del nipote reietto chiamo i miei, per rassicurarli che se hanno sentito parlare di un bombardamento israeliano sul sud del Libano non devono preoccuparsi, perche' io sono vivo.
Daniele prova a spiegare ad un perplesso madonnaro di Baalbek che non può comprare souvenir  

Quattro anni dopo, durante un viaggio in Patagonia, mi imbattero' in una ragazza israeliana. Non ne ricordo il nome, perche' quando si era presentata ero a letto con un febbrone. Ero reduce da due giorni di trekking in Cile - sotto il nevischio del Torres del Paine - nel quale mi ero incamminato con una t-shirt e un k-way e nel quale mi ero perso. Erano seguite 48ore da incubo, la maggior parte delle quali trascorse nel terminal del Calafate dove ero rimasto bloccato perche' il bus in arrivo da Puntarenas era entrato nella struttura proprio quando il torpedone in partenza per il nord stava lasciando l'autostazione. E visto che non avevo i soldi per dormire da qualche parte ne' le energie per fare in autostop anche il percorso inverso, mi ero accampato nella struttura, in attesa che l'indomani mattina qualcosa o qualcuno mi portasse altrove. Nel frattempo avevo trascorso la notte circondato da ubriachi molesti e ne ero uscito fingendomi ubriaco e molesto a mia volta. 
Ma insomma, dopo il trekking, il freddo, le notti insonni e il cibo scarsissimo, quando finalmente ero arrivato a Puerto Madryn ero un cencio. Come al solito senza neanche un'aspirina appresso. La ragazza israeliana che aveva visto quel cadavere nella sua camerata s'era prodigata per riportarmi in vita a colpi di medicinali e brodini. Dopodiche' mi aveva accompagnato anche nella penisola Valdes, dove avremmo cercato di vedere le balene. In attesa della barca, avevamo camminato lungo la spiaggia e li' mi aveva rivelato che nell'estate del 1999 prestava servizio militare nell'aviazione israeliana e che si occupava in particolare delle operazioni nel nord del Paese.
Sapevo che tutto quello che succede da quelle parti e' avvolto in un mistero fitto, a maggior ragione se di mezzo ci sono stranieri e/o obiettivi sensibili. Ma quella ragazza s'era presa la briga di raccogliermi col cucchiaino, aveva per lo meno percepito che di me si poteva fidare e soprattutto erano passati quattro anni e mezzo. Per cui ci provai.
"Mi spieghi perche' bombardaste Jbeil? Cosa c'era li'?"
La risposta per grandi linee la potevo immaginare. La contraerea di Hezbollah, un deposito di munizioni di Hezbollah, qualche rifugio di Hezbollah. Non e' che si scappava da li'. Ma considerando la reticenza di Mustafa' e il fatto che la villetta fosse stata bombardata, la curiosita' era legittima.
La ragazza israeliana fece un sospiro, alzo' il mento e le sopracciglia, si fermo' e mi guardo'.

"Se te lo dico, poi ti devo uccidere", mi disse mentre passeggiavamo sulla spiaggia di punta Delgada.

Da allora ogni tanto questa battuta me la rivendo. 
Ma nella circostanza non ho mica capito se era una battuta o meno.
I nipoti Ghamloush ci salutano dal balcone dell'appartamento di Beirut
Sopravvissuti al bombardamento israeliano di Jbeil, l'indomani tornammo a Beirut. Nell'ultima giornata coi Ghamloush, Mustafa' guido' il furgoncino verso le imperiose rovine romane di Baalbek, quindi nella valle della Bekaa, e da li' su verso le montagne che ospitano quel che resta dei famosi cedri del Libano e Bcharre' - culla e tomba di Khalil Gibran. Infine - non senza qualche problema tecnico dati i sentieri strettissimi - tra i monasteri maroniti della valle di Kadisha.
Dopo quasi 5 giorni nei quali non avevano tirato fuori una lira, Mustafa' ci lascio' davanti alla grande moschea di Trabulous, che in italiano chiamiamo Tripoli ma che non ha niente a che vedere con la capitale libica. Prima di congedarci sotto un sicomoro e di riprendere la strada per Beirut, Mustafa' bonfonchio' qualcosa e ci propino' l'ennesima anguria, che io ingurgitai di mala voglia come tutti i cocomeri che mi vengono propinati in Medio Oriente nonostante mi facciano cacare ma ai quali non posso opporre un diniego, neanche cortese.
Bcharré - sotto lo sguardo di Mustafà, Antonio cerca di capire chi caspita sia Khalil Gibran

Antonio, Daniele ed io avevamo deciso che era tempo di andare in Siria. 
Verso Qalat-al-Hosn, il Crac des Chevaliers, uno dei castelli dei crociati meglio conservati di tutta la regione. Un posto ad appena 70km da Tripoli, ma per raggiungere il quale l'unica alternativa era una trasporto privato. 

Lo trovammo subito, l'uomo sulla trentina che ci propose di accompagnarci al di la' del confine siriano e alle nostre condizioni. Shamir impose come unica condizione quella di aspettare che trovasse altri passeggeri diretti verso nord. A noi andava bene, anche perche' avremmo ingannato l'attesa girando per la citta'. A tempo debito tornammo dall'autista improvvisato, il quale non aveva rimediato nessun altro avventore diretto in Siria. 
Poco male, il sole era ormai tramontato ed era arrivato il momento di guidare verso il posto di frontiera di Aboudieh: 36 km che inizialmente Shamir percorse a ritmo lentissimo, nella speranza di incrociare qualche passeggero col quale riempire un altro sedile della sua enorme Dodge Anni Cinquanta. Poi velocissimamente, per accelerare i tempi. Infine in folle e col freno a mano tirato, fingendo un guasto meccanico per poterci mollare appena oltre il confine siriano a notte fonda.
"Ti sei impegnato a portarci al Qalat-al-Hosn e li' ci porti!" obiettammo.
Macche'.
(fine - part 1) 

sabato 16 luglio 2022

L'ultima crociata - part II

Daniele ed io all'assalto del Qasr Ibn Ma'an, il castello di Palmyra 
Allestiti in due capusole di cemento spartane e illuminate da luce una fioca, i due posti di frontiera di Aboudieh erano separati da poche centinaia di metri e dalle sponde del fiume al Kabir. Un corso d'acqua, citato da Flavio Giuseppe nel primo libro dei Maccabei, che gli antichi greci chiamavano Eleutherus, che un tempo faceva da spartiacque tra l'impero Tolemaico e quello Seleucide e che adesso segna il confine tra Libano e Siria. Ma che in quella sera del primo agosto1999 segno' piu' banalmente il momento nel quale la Dodge di Shamir inizio' a singhiozzare e sobbalzare in modo sinistro. Eravamo avvolti nel buio e stretti tra i canneti, ma quel poco che si vedeva nell'abitacolo mi fece capire che l'autista che ci aveva caricato a Tripoli con la promessa di portarci al Krak des Chevaliers stava smanettando col cambio e con la frizione, pestando l'acceleratore a vuoto per poi inserire marce basse. Cosi' facendo, la vecchia Dodge procedeva boccheggiando a strappi.

Negli ultimi 5 anni avevo passato piu' tempo al volante di un'auto che davanti alla TV, avevo guidato fino alla Slovenia e all'Andalusia, nell'A112 avevo fatto l'amore e una volta ci avevo anche dormito dopo un concerto. Insomma, quello era il mio habitat. "Ce sta a prova'" sentenziai. Dopo una pantomina di qualche minuto, la Dodge si sgionfio', Shamir mollo' un pugno sul cruscotto e scese imprecando in arabo. Avvolto nella kefiah emise il verdetto. "L'auto non va".  Era chiaro che stesse fingendo. Quel che non era chiaro era perche' avesse inscenato quel guasto, quali fossero le sue intenzioni e soprattutto come potessimo uscirne. Nel farlo, dovevamo ballare sul filo della determinazione e della condiscendeza, cercare di fargli insomma capire che non eravamo sprovveduti ma anche che non cercavamo lo scontro. Erano passate le 10 di sera, eravamo appiedati nella campagna siriana e quando c'eravamo fermati sul ciglio della strada, la Dodge era stata accerchiata da un nugolo di ombre. Tra quei figuri, potevano celarsi impiccioni, bricconi occasionali o loschi sodali dell'autista. Nel fazzoletto di territorio siriano appena oltre il confine libanese, la condiscendenza poteva passare facilmente per malleabilita', che verso mezzanotte poteva sapere tanto di vulnerabilita'.
Eravamo stanchi, frustrati e un po' allarmati, ma non era il caso ne' di sembrare impauriti ne' di tirare troppo la corda.

"Hai detto che ci porti a Qalat al Hosn e ci porti a Qalat al Hosn", insistemmo. Con un'intensita' inversamente proporzionale al numero di persone che si accalcavano attorno alla macchina quando ci fermavamo. Shamir ribadi' che non poteva farci nulla. E lo disse con la faccia da impunito e un pizzico di finta contrizione. Gli veniva facile, visto che un po' dispiaciuto lo era davvero. Era dispiaciuto di averci caricato a Tripoli per quattro denari, era dispiaciuto di non aver trovato altri passeggeri, forse era dispiaciuto di essersi giocato la serata e magari anche perche' quel giochino rischiava di fargli bruciare la frizione. "Non possiamo proseguire, ma vi assicuro che a destinazione vi ci porta un bus. E non dovete pagare altro", chioso'.

Nel frattempo avevamo raggiunto un'arteria piu' illuminata, il che ci consentiva di vedere i volti della dozzina di siriani che si accalcavano su di noi ogni volta che la Dodge tirava il fiato e noi ne uscivamo. Proprio in quell'istante si fermo' un minibus con a bordo una ventina di persone. "Questo va al Krak des Chevaliers", disse Shamir. Era il caso di tenere alta la guardia ma di abbassare toni e pretese. L'autista del furgoncino confermo', ci prese a bordo gratis e noi facemmo buon viso a cattivo gioco. Alla frontiera, il nostro guidatore aveva avuto uno scambio con un altro uomo. Col senno di poi, in quel momento aveva escogitato il piano per per sbolognarci sul primo bus di passaggio e proseguire per Tartus o tornare in Libano. L'unica possibilita' che gli restava per farlo senza restituirci i pochi soldi che gli avevamo dato era quella di inscenare un problema meccanico. Accettammo. E verso mezzanotte arrivammo ai piedi dell'aspra e imponente struttura che 8 secoli fa ospitava fino a 4mila crociati sulla strada verso la Terra Santa.

Questa in realtà è la cittadella di Aleppo, non il Crac des Chevaliers 

Il castello - inizialmente curdo - fu occupato dai cavalieri dell'ordine di S.Giovanni in Gerusalemme, da quelli di Rodi e di Malta nel 1099, durante la prima spedizione per liberare il Santo Sepolcro, e nei due secoli successivi fu fortificato divetando un avamposto imprescindibile in tutte le crociate. Cosi' facendo, vide alternarsi condottieri dai nomi che piu' medievali non si puo'. Tipo Baldovino e Goffredo di Buglione, Boemondo di Antiochia a Tancredi d'Altavilla. Accanto alla fortezza in tempi piu' recenti era sorta la cittadina di Hosn (il castello, appunto) nella quale c'era un'unica struttura ricettiva - l'hotel Baibar - ben oltre le nostre magre disponibilita' economiche. Non potendo permetterci una camera tripla e non essendoci dei dormitori, contrattammo uno spazio nel parcheggio antistante l'albergo per piazzare la tenda oltre all'uso del bagno pubblico nella hall. Eravamo partiti la mattina da Beirut e, passando per Baalbek, Bcharre', la valle di Kadisha, Tripoli e la disavventura con la Dodge di Shamir, eravamo arrivati a destinazione piuttosto provati, oltre che lerci. Tolta una patina di polvere prendemmo subito sonno. Nonostante la tenda fosse piantata su un basamento di cemento e nonostante avessimo dovuto mettere fuori i tre zaini, che' dentro c'entravamo giusto noi tre. 


L'indomani ripresi coscienza per primo. Era piena estate, e in quelle condizioni si cominciava a fare la sauna nelle prime ore dell'alba. Senza un materassino, poi, la schiena strillava. Misi la mano fuori e presi la prima bottiglia che trovai. Una Coca-Cola acquistata sulla strada fra Tripoli e la frontiera, quando c'eravamo liberati delle ultime lire libanesi. Il primo sorso ando' giu' spedito. Il secondo molto meno. Tra la lingua e i denti sentii un nugolo di pezzettini. 

"Qualcuno ha comprato i biscottini al cocco e poi li ha sputazzati nella bottiglia", pensai. 
Il terzo sorso era troppo pieno di corpi estranei per pensare che fossero davvero pezzettini di cocco finiti inavvertitamente prima nella bottiglia e poi nella mia bocca. Aprii gli occhi. Nel liquido marroncino galleggiavano centinaia di formiche moribonde, ma talmante dopate di zuccheri da agitarsi per aggrapparsi alla vita. Di notte avevano preso d'assalto gli zaini che avemo lasciato accanto alla tenda e avevano pure trovato il modo di praticare un suicidio di massa nella Coca Cola.
L'effetto del primo narghile' alla mela su Daniele

Il pasto successivo fu peggiore. Dopo aver visitato il castello dei crociati prendemmo un minibus per Homs e - in attesa di quello successivo per Aleppo - comprammo quel poco che offriva uno spaccio vicino alla fermata: nel mio caso una confezione di corned beef, un blocco salato di carne di manzo in scatola che probabilmente gia' faceva ribrezzo quando era stata infilata nella sua lattina giallastra, ma che aveva trascorso gli ultimi anni sullo scaffale di una drogheria nei pressi dell'Oronte, il fiume ribelle, e che aveva assorbito tanto di quel calore da aver assunto il sapore del pancreas di un dromedario. Ne mangiai due bocconi e cosi', quando la sera arrivammo ad Aleppo, ero praticamente a digiuno.
Di Aleppo amammo tutto.

La cittadella, il souq piu labirintico e profumato del Medio Oriente, il Kawkab hotel col vecchio fac-totum Ehlu, il bagno alla turca in pendenza e il letto singolo sul quale ci allungammo dopo aver diviso un materasso in Libano e una tenda sotto il castello dei crociati. Amammo la suggestione magnetica della basilica di San Simeone, lo scheletro delle mura erette attorno ai resti della colonna di 15 metri in cima alla quale 1600 anni fa un eremita figlio di pastori si ritiro' per pregare, scrivere e dispensare consigli tanto ai devoti quanto alla Chiesa. Visto che non riusciva ad isolarsi dal mondo, Simeone aveva deciso di fuggire in verticale, perciò trascorse 37 anni, fino alla sua morte, su un pilastro del quale oggi non rimane che una pietra ovoidale e una pellicola di Buñuel. Di Aleppo amammo le serate a base di inebrianti e innocenti narghile' alla frutta, di pane e hummus, di pasticcini al miele e te', di domino e di briscola in tre. E la storia che contribuiva a raccontare. 
Un'ora a nord-ovest di Aleppo si trovano le rovine della basilica di S.Simeone lo stilita  - Qal'at Sim'an - costruita attorno ai resti della colonna sulla quale visse l'eremita e che ora e' ridotta a poco piu' di una pietra perche' nel corso dei secoli i fedeli hanno sviluppato la tradizione di portarne via un pezzetto

Manufatto geopolitico del XX secolo, prodotto del divide et impera occidentale fra le due guerre mondiali, tappeto verde per i rilanci di Regno Unito e Francia nel gioco d’azzardo mediorientale, palcoscenico delle vite da film della regina Zenobia e di Lawrence d’Arabia, nei millenni la mezzaluna fertile a ovest del Tigri ha attirato civiltà che hanno lasciato testimonianze spettacolari della loro dominazione. Dagli hittiti agli egiziani, dai persiani ai bizantini, dagli ottomani ai mongoli. In Siria questo bendiddio si traduce nel triangolo tra Aleppo, Damasco e Palmyra. Cosi', dopo 48 ore ad Halab, prendemmo un bus per Hama e poi un altro per Tadmor, dove arrvammo mentre faceva buio, in tempo per sistemare la tenda tra le meravigliose rovine della sposa del deserto, la città dei datteri e – appunto - delle palme, quella che i romani non furono mai del tutto in grado di conquistare.
Nelle distese un tempo insanguinate dalla ferocia del Saladino, le estati sono segnate dalla lotta all’afa e agli insetti. Nel primo caso l’alleato si chiama chai, ed e' nella giornata successiva che scopriamo che il tè aromatizzato offerto da beduini e dai contadini ad ogni angolo e ad ogni oasi abbia effettivamente il suo perche'. Dopo aver girato da soli lo splendido sito archeologico, decidemmo di salire verso il castello arroccato scenograficamente in cima alla collina che fa da spettacolare sfondo a Palmyra. Il Qasr Ibn Ma'an e' un cartolina vivente e rappresenta un richiamo troppo forte. Peccato che ci fossero 40 gradi e che i liquidi scarseggiassero. 
Quando arrivammo in cima eravamo vicini al collasso.
Ci salvarono un pugno di ragazzetti locali, dei frangipanini che scesero e risalirono con l'acqua. "Quella non vi aiutera'. Provate questo, piuttosto", ci dissero poi degli anziani della zona, offrendoci il loro te' versato in bicchierini di vetro. Era talmente bollente che non riuscimmo a tenere i continitori in mano, ma effettivamente caldo com'era alzo' immediatamente la temperatura corporea e rese meno traumatico il contrasto fra la nostra epidermide e la calura del deserto. La saccarina fece il resto.
Palmyra vista dalla cima del castello
La sera stessa lasciamo Palmyra e costeggiammo il Badyiat ash sham, il deserto orientale, la distesa di sassi percorsa da carovane di pellegrini che dall'Asia Minore si dirigono verso La Mecca. Alla nostra sinistra non c'era traccia di esseri umani per centinaia di chilometri. Quando il bus si fermo' per una sosta tecnica, nella baracca nella quale mangiammo un boccone, cercando di schivare l'assalto delle mosche, compariva la scritta in arabo Benvenuti in Siria, anche se il confine iracheno distava 160km. Tanto per cambiare, arrivammo a Damasco col buio. 
Damasco, la moschea degli Omayyadi
Il fatto che non avessimo cellulari, che internet praticamente non esistesse e che l'unica fonte di informazioni fosse la guida Lonely Planet non aveva mai costituito un grosso problema fino a quando il primo alberghetto preso di mira era quello buono. Lo divenne, nel caso di Damasco, visto che nel quartiere nel quale ci sistemammo non c'erano alimentari aperti e avevamo finito l'acqua. Quella sera la disperazione mi porto' ad entrare nell'unica bottega illuminata in zona, quella di un macellaio, e a chiedergli di darmi gentilmente qualcosa, qualsiasi cosa. La bottiglia col suo qualsiasi cosa, conteneva un qualcosa di liquido vagamente giallognolo e limaccioso. Per poco non mi ci strozzai. 
Daniele, Antonio e l'abbiocco omayyade
Appunti per il diariodiviaggio con la t-shirt Rosolina Po 
Un tempo definita ‘la perla tempestata di diamanti’, per suoi i parchi e i suoi giardini, la città che contende ad altri centri del vicino oriente il titolo di abitato più antico del mondo nel 1999 era un agglomerato variegato, zeppo di parabole, che ospitava un terzo di tutti siriani piu' minoranze curde, cristiano-maronite, armene e circasse, e ancora centinaia di migliaia di profughi iracheni e persino genti che si esprimevano in aramaico, l’antica lingua della Bibbia. A Damasco si respirano la Bibbia e il Corano, ma i precedetti tramandati dallo stile di vita nomade si toccano con mano.
Primo fra tutti, l’accoglienza verso lo straniero. Non ci sorprese, insomma, che due figli di kashkash, gli allevatori di piccionici invitassero subito nel loro cortile per sorseggiare insieme te' alla menta e per far gorgogliare pipe piene di tabacco alla mela. Leggermente di piu', invece, ci sorprese 
il fatto che Hossein e il suo amico si tenessero la mano in pubblico. Un'abitudine forse figlia illegittima dei costumi sessuali della regione e dei rapporti umani e fisici inesistenti tra uomini e donne, ma che comunque col tempo scopriremo essere all'ordine del giorno, in Medio Oriente. E soprattutto non essere ne' un comportamento stigmatizzato in quanto sconveniente ne' considerato in se' indice di omosessualita'. Che pure esiste e viene rispettata piu' di quanto si possa immaginare. 
Il giorno seguente visitammo 
la moschea degli Omayyadi, il luogo sacro che custodisce la testa di Giovanni il Battista e nel quale – primo Papa della storia – Karol Wojtyla di lì a poco si toglierà le scarpe in segno di rispetto verso i fratelli musulmani. Dopo una gita a Maalula dettata in parte dalle indicazioni della guida e molto da quelli che diventano i nostri mantra (con Daniele ogni parola veniva  storpiata duventando un feticcio dotato di vita propria, da Scopation wagon a Topo-talkie, da Bcharre Qalat-al-Hosn, da Palmyra a Maalula - mentre Antonio nel frattempo era diventato Scapigliato, anzi ScapigliEto), tornammo a Damasco a bordo dell'ennesimo bus sul quale campeggiavano due foto: quella del presidente, il vecchio Hafez Assad, ormai quasi 70enne e leone piu' di nome che di fatto, e quella del figlio Bashar, la cui testa piccola in cima al collo lungo lo faceva sembrare un'oliva su uno stuzzicadenti, piu' che uno statista. 
Maalula, uno degli ultimi posti al mondo nei quali si parla l'aramaico occidentale
Il culto della personalita' dei leader nelle giovani nazioni mediorientali era un materia di studio, soprattutto in epoche i passaggio di potere e di consegne. Il fatto che Siria e Giordania stessero contemporaneamente per voltare pagina rendeva la questione ancor piu' delicata. Chiuso il capitolo Siria, era proprio in Giordania che eravamo diretti. Stavolta, per evitare sorprese ci mettemmo in marcia nel primo pomeriggio, ma le formalita' doganali alla frontiera andarono per le lunghe e arrivammo ad Amman solo quando il sole era già tramontato.

A differenza di Damasco, la capitale giordana non ha una pianta concentrica ed e' anzi costruita su varie colline e ogni quartiere sembra scrutare gli altri da lontano, con diffidenza. Il taxi collettivo ci scarico' dalle parti del Wadi Al Srour, uno dei sobborghi piu' centrali, dove oltre alla maggior parte delle attrazioni turistiche - il teatro romano e l'Odeon, la moschea e il palazzo Omayyade - secondo la guida ci sarebbero potute essere un paio di di stemazioni adatte a noi.
In realta' Talal street non aveva nulla per le nostre tasche. Il primo hotel nel quale entrammo era troppo caro, il secondo era pieno. Anche se forse avevano una soluzione alternativa. Un omino ci accompagno' per le scale fino all'ultimo piano dell'edificio. Li apri' una porta di metallo e ci illustro' l'alternativa
Sul tetto c'era una costruzione in lamiera, un cubo zincato all'interno del quale era stata ricavata una stanza. Il nostro arabo e l'inglese dell'omino non ci consenti' di capire se quello fosse un alloggio di servizio o una sala delle torture, ma l'informazione non avrebbe cambiato la sostanza
Nonostante fosse notte, sembrava di essere entrati in un forno. La cameretta non aveva finestre, non era stata aperta da una vita e aveva assorbito il calore asfissiante dell'estate mediorientale. Era rovente, non circolava un filo d'aria e in piu' puzzava da morire. Anche volendo chiudere un occhio sulle brandine, sarebbe stato impossibile passare la notte tra quelle quattro pareti di metallo incandescente e fetente. 
"E' quasi meglio dormire all'aperto", dicemmo.
All'aperto c'era il bivacco di alcuni barboni, che in quel momento si stavano preparando ad affrontare la notte. 
Il tetto confinava con la Grand Al Husseini mosque e alcuni gia' dormivano a pochi metri dal minareto. 
Ci guardammo. 
Piuttosto che rimetterci in marcia con gli zaini in spalla alla ricerca di una soluzione alternativa, decidemmo che per una notte ci saremmo potuto accontentare. 
(fine part - 2)

giovedì 14 luglio 2022

Il tempo maledetto - part III

La moschea Grand Al Husseini era stata eretta nel 1924 - per volonta' del re Abdallah I - sui resti di uno dei templi musulmani piu' antichi di Amman, un edificio religioso inaugurato dal califfo al-Khattab nel 640 e considerato il primo esempio architettonico del genere nella storia del regno di Giordania. In quello stesso 1924 venne eretto il primo dei due minareti: alto 13 metri era - ed e' - una delle costruzioni piu' visibili e riconoscibili del centro di Amman. Dal tetto dell'hotel Zahran, oltre che visibile e riconoscibile, era quasi abbracciabile. I due edifici erano attigui, il minareto si poteva toccare. 
L'omino che ci aveva mostrato la stanza di zinco prese atto del fatto che preferivamo unirci agli homeless e ci indico' una pila di materassini sottili come trapunte. Ne prendemmo uno a testa e li trascinammo nell'angolo piu' lontano rispetto alla moschea. Il resto dello spazio era occupato da una ventina di persone senza fissa dimora, delle quali non sapevamo fino a che punto potevamo fidarci.
Ci sistemammo accanto alle ringhiere con vista sul una delle arterie della capitale giordana, piazzammo gli zaini tra noi e il vuoto e ci infilammo nei sacchi a pelo. Non per il freddo, ma per frapporre uno strato tra noi e quel condensato di germi sui quali avremmo trascorso la notte. 
Devastati dalla ultime due in tenda e con addosso l'insolazione di Palmyra, prendemmo subito sonno.
Dai tempi di Bilal l'Abissino, agli inizi del settimo secolo dopo Cristo, fino agli anni Venti del Novecento, il richiamo della preghiera era sempre stata un'operazione casereccia: l'adhan era a carico di un gentiluomo - il muezzin - che Ariosto chiamava talacimanno, il quale saliva su per il minareto, si affacciava da un balconcino e ricordava cinque volte al giorno ai fedeli che era giunto il momento dell'orazione. Approfittandone anche per rammentare loro qualche precetto fondamentale. Anzi, gridandolo a squarciagola. Negli anni Trenta, nelle moschee comparvero i primi altoparlanti, i quali da una parte facilitarono la vita dei muezzin, dall'altra pero' la complicarono dannatamente a chi abitava nei pressi dei minareti. 
E' stato calcolato che l'adhan puo' durare fino a 5 minuti e raggiungere l'intensita' di 88 decibel, laddove 90 corrispondono al passaggio di un treno e all'azione di una motosega. 
Noi quel minareto avremmo potuto toccarlo con mano. Invece fu lui a schiaffeggiare noi.  
L'adhan del salat al fajr, il richiamo della preghiera che corrisponde al crepuscolo, ci sfondo' i timpani alle 4 di mattina, nel mezzo della fase Rem. Poi si placo'. Appena riprendemmo sonno, gli altoparlanti del minareto ci seviziarono di nuovo le orecchie. Poi si acquietarono, illudendoci ancora. E li' l'urlo registrato ci mise il carico, massacrandoci le ultime gonadi intatte e lasciando una traccia talmente profonda che anche "Allahu Akhbar" e "Mohammed" divennero dei mantra di Daniele. 
Del resto uno dei passaggi recita: "Pregare e' meglio che dormire".
Quando finalmente ci decidemmo ad alzarci, gli altri senzattto si erano ormai dispersi per Amman.
Noi li seguimmo, e in un paio d'ore vedemmo quello che c'era da vedere nel centro cittadino. La tappa successiva sarebbe stata quella di Jerash, ma prima buttammo giu' un piano d'attacco per il proseguo del viaggio. Io avevo davanti a me piu' di due settimane, Daniele almeno una, mentre Antonio sarebbe ripartito da li' a tre giorni proprio da Amman. Ci restava poco tempo per vedere il Paese. A parte Jerash, Petra e il castello di Kerak, poi, le principali attrazioni giordane erano fuori mano, richiedevano insomma un proprio mezzo di trasporto per poter essere viste in un lasso di tempo cosi' contenuto. Decidemmo pertanto di affittare un'auto. Avremmo dovuto stanziare piu' di quanto previsto dal nostro budget, ma il mezzo privato ci avrebbe consentito di girare la Giordania e avrebbe permesso ad Antonio di rientare ad Amman in tempo per il volo. Avremmo potuto ammortizzare la spesa dormendo in macchina: eravamo in tre, ma non poteva essere mica tanto peggio della tenda o del tetto della moschea.   
Prima di farci consegnare le chiavi dell'auto, pero', prendemmo un bus per Jerash, che in epoca Imperiale era stato uno dei principali centri romani del Medio Oriente. La visita fu breve, e anche se in teoria tutto quello che vedemmo non avrebbe dovuto avere il sapore della novita', in realta' ci sorprese. Lo schema urbanistico dell'eta' di Traiano e Adriano - il decumano e il cardo massimo in splendio stato di conservazione - l'arco di trionfo e soprattutto il Foro, apparentemente l'unico nel mondo romano di forma ovale, facevano di Jerash uno splendore, non a caso la seconda meta turistica della Giordania. 
Ci restammo meno di quanto avremmo voluto solo perche' la contrattazione per l'affitto della Hyundai era stata all'arma bianca. Pur di spuntare un prezzo piu' basso, ci eravamo impegnati a riportare la macchina nella capitale entro 72 ore: per questo andammo a Jerash coi mezzi pubblici, per poi rientrare ad Amman prima della chiusura del concessionario. Presa la macchina, sgasammo verso est e appena fece buio uscimmo dalla pista di asfalto e parcheggiammo nel deserto.           
Dopo aver visto il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi (i mantra di Antonio comprendevano citazioni di Kant, di Proust e di Colpo Grosso), abbandonai la lotta e mi accomodai sui sedili posteriori della Accent, mentre i miei compagni di viaggio dormirono all'addiaccio, noncuranti del crollo della temperatura. Dopodiche' dovettero farsi bastare un pacchetto di biscottini a colazione per rimettersi in sesto dopo la notte stesi sul pietrisco del deserto giordano. Deserto che in mattinata tagliammo prima verso est, verso l'Iraq, poi verso ovest, verso la Cisgiordania, e infine verso sud, verso il Mar Rosso. In mezza giornata facemmo tappa in tre dei palazzi fortificati costruiti dagli Omayyadi tra il settimo e l'ottavo secolo, prima della rivoluzione abasside che rese piu' inclusivo l'impero guida del Medio Oriente. Ne visitammo uno in pietra basaltica nera, l'Azraq, uno piccolo, curioso, ricco di affreschi sotto le volte, l'Amra, e uno grosso e squadrato, il Kharaneh. Dopodiche' altre 5 ore di strada ci separavano da Petra. Lungo il percorso, sostammo davanti al castello crociato di Karak e rischiammo grosso quando tra un wadi e l'altro incrociammo una pattuglia della polizia nel momento in cui alla guida c'era Daniele, che con i suoi 18 anni, 3 mesi e 10 giorni ovviamente la patente non ce l'aveva. Arrivammo a Petra in serata, in una drogheria comprammo acqua e cibo e - senza l'assillo di trovare una sistemazione per la notte - ci dirigemmo al piccolo trotto verso l'ingresso del sito. 
Fondata attorno al V secolo a.C. dagli Edomiti, successivamente occupata da Assiri, Babilonesi, Persiani, Seleucidi e Romani, Petra aveva vissuto il periodo di massimo splendore sotto i Nabatei e aveva vissuto il suo apice attorno al primo secolo dopo Cristo, quando l'insediamento all'epoca chiamato Raqqa' - in aramaico La Variopinta - era stato abitato da 30mila persone. Ribattezzata dopo che la dominazione di Alessandro Magno aveva portato all'ellenizzazione della lingua e dei costumi, Petra aveva poi subito un destino simile a quello di altre famosissime meraviglie del mondo antico come Machu Picchu e Angkor Wat, Tikal e l'esercito di terracotta. Era stata cioe' inghiottita dall'ambiente circostante, e la sua memoria era stata risucchiata nell'oblio. 
Per secoli le sue meraviglie erano diventate parte della quotidianita' dei beduini locali, che bivaccavano nelle grotte scavate nella roccia finche' Petra non era stata riportata all'attenzione occidentale solo nel 1812, grazie a Johann Burckhardt, un orientalista svizzero-tedesco convertito all'Islam. Prima di morire a 33 anni, logorato della dissenteria e delle febbri, Burckhardt aveva esplorato il Medio Oriente - dalla Nubia alla Siria - documentando Abu Simbel e Dongola, traducendo Robinson Crusoe in arabo e diventanto un apprezzato giurista e conoscitore del Corano. Nonostante la sua testimonianza postuma, Petra era comunque rimasta isolata per le difficolta' incontrate dagli esploratori dell'epoca a superare la diffidenza delle tribu' del deserto. Solo nel 1929, l'Impero britannico era riuscito ad organizzare una vera spedizione archeologica. 
Le sfide di tiro al bersaglio tra Daniele e Antonio
Ancora relativamente poco conosciuta, Petra era poi entrata nell'immaginario occidentale di quelli della nostra generazione grazie alla serie di copertine del National Geographic seguite all'uscita di Indiana Jones e l'ultima crociata. Il film in se' non era bastato, perche' il tempio nel quale Harrison Ford e Sean Connery scovano il sacro Graal appare come un luogo talmente magico da sembrare finto, come molte delle location dei film di George Lucas. Ed invece esiste ed e' il Khazneh, il Tesoro, uno dei primi monumenti del sito di Petra. Attorno al quale, a partire dagli anni Novanta, crebbero l'interesse mondiale e si alimento' l'industria turistica, che in quegli anni arrivo' a garantire il 15% del PIL nazionale giordano. 
Bastava dare un'occhiata al piazzale antistante l'entrata per capire che Petra era diventata la gallina dalle uova d'oro della regione. Un pavimento in pietre lavorate, curate, pulite e perfettamente incastonate, luci al neon, un hotel quattro stelle e nessuna spazzatura in giro. La biglietteria, la prima struttura autenticamente turistica che vedessimo in quel viaggio, faceva sapere che l'ingresso costava 25 dollari americani - ovvero 45mila lire. Piu' del nostro budget giornaliero, peraltro gia' eroso dall'affitto dell'auto. Mentre una famiglia di turisti arabi scattava le foto davanti all'ingresso, scrutammo il cancello. Era alto un paio di metri e non era sorvegliato. Volendo, qualcuno avebbe potuto scavalcarlo. Rischioso si', ma per nulla difficile. Sul lato destro, il cancello finiva contro il muro di cinta dell'albergo. A sinistra, invece, il muro piegava, seguendo il perimetro esterno del sito archeologico. Piegava e declinava, perche' l'accesso al cuore di Petra avveniva a piccoli passi, con un lungo camminamento in discesa, e perche' alla sinistra dell'ingresso si apriva una piccola vallata. Il buio non ci consenti' di capire ne' quanto fosse profonda, ne' cosa ci fosse in fondo al dirupo, ma basto' sporgersi per capire tre cose: il muro non era costruito a strapiombo, ma tra i mattoni e la vallata c'era un piccolo camminamento e il muro stesso diventava presto un parapetto che costeggiava la rampa d'accesso. Nel giro di pochi passi, si passava dai due metri e mezzo del muro all'altezza del cancello a due metri, poi ad un metro e mezzo e poi ancora ad un metro scarso d'altezza. Insomma, incamminarsi lungo il muro esternamente rispetto al sito e camminare lungo il ciglio della vallata, significava mettersi nelle condizioni di scavalcarlo agevolmente ed entrare a Petra senza passare per la biglietteria.   
Il tramonto da Tafilah, cittadina giordana a meta' strada tra Kerak e Petra
"Scavalchiamo". Fu Antonio a formulare l'idea ad alta voce. Quella era l'ultima serata insieme: dopo Petra, Scapigliato avrebbe dovuto guidare a tutta velocita' per riportare la Hyundai ad Amman e da li' andare in aeroporto. Per la prima volta dall'inizio del viaggio, decidemmo quindi di concederci il lusso di una birra. E li', seduti in un locale vuoto di Wadi Musa, ci confrontammo. Antonio, acqua cheta, richiamato sempre alla prudenza per indole, come gli spesso gli capitava si scaldava in corso d'opera. Era stato lui, 4 anni prima, a cambiare i soldi in nero sul treno jugoslavo, accendendo la miccia che avrebbe portato al fermo della polizia serba a Belgrado. Daniele, che pure aveva accolto con favore ogni deviazione dalla retta via che quel viaggio ci aveva presentato, oppose un tiepido no. Io mi sedevo a meta' del guado. Era stato proprio il treno serbo a farmi scoprire il gusto per quel gioco 3D nel quale ci si immergeva in una realta' cercando di esplorarne i confini legali e comportamentali e nel quale pur essendo l'anello debole della catena si provava a mettere tutto in discussione, nel nome della conoscenza e degli effetti della vita sui propri neurotrasmettitori. In pratica l'adrenalina era diventata una delle misure della profondita' e del peso specifico dell'esperienza. D'altra parte, pero', appena 7 mesi prima ero finito in gattabuia in Tunisia per molto meno, per aver scattato una fotografia innocente. E me l'ero vista bruttarella. Negli ultimi 10 giorni, poi, tra bombe israeliane su Jbaa, auto in panne nella campagna siriana e notti all'addiaccio assieme ai senzatetto di Amman avevamo fatto il pieno di emozioni, esperienze e epinefrina. 
Non sapevo se fosse davvero il caso di sfidare ancora una volta la sorte. 
La mente e il caghetta, sull'album del viaggio questa l'ho intitolata cosi'
Invece lo facemmo. E lo facemmo pure strano. Finita la birra, guidammo verso la periferia di Wadi Musa - letteralmente la Valle di Mose' - per evitare di dare troppo nell'occhio e per non dovere avere a che fare con l'illuminazione stradale. Parcheggiammo la Accent su un greppo, dove anche le luci della cittadina erano poco visibili. Noncuranti della nottata precedente nel deserto, Daniele e Antonio si sistemarono all'aperto, salvo poi scapicollarsi dentro l'abitacolo. L'agglomerato, come molti centri mediorientali, pullulava infatti di cani randagi per proteggerci dai quali ci ritrovammo barricati dentro la macchina, circondati da animali, neanche fossimo i protagonisti di Cujo II. Dormimmo poco e male, e alle 4 e mezza suono' la sveglia. Dovevamo sfruttare il buio e non avevamo tempo da perdere. Ci vestimmo di nero - anche se questo significava indossare vari strati - e prima delle 5 eravamo nuovamente all'ingresso del sito archeologico, spalle al muro di cinta e con lo sguardo rivolto verso la vallata. L'aurora ci consenti' di intravedere tutto: la profondita', la pendenza e soprattutto il fatto che sull'altro versante, a 200 metri in linea d'aria, c'erano alcune baracche sorvegliate da cani i quali probabilmente ci videro, sicuramente ci sentirono e di fatto abbaiarono. 
"Merda", pensammo. Nel biancore dell'alba, i nostri vestiti neri facevano l'effetto di un neo sulla fronte.
Il Wadi al Hasa
Come facilmente previsto, meno di 100 metri piu' giu' rispetto al cancello d'entrata, il muro di cinta si era ridotto ad una fila di mattoni scavalcabili senza problemi. Eravamo dentro, senza esattamente sapere cosa aspettarci ne' come agire. In epoca proto-internettiana, l'unica mappa di cui disponevamo era lo schizzo della Lonely Planet, dal quale si capiva che il Khazneh, l'edificio piu' iconico di Petra, distava circa 2 chilometri e mezzo dall'entrata, la meta' dei quali stretti in un canyon quasi altrettanto celebre, il Siq. Cos'altro ci fosse esattamente tra l'ingresso e il Tesoro o se il sito fosse pattugliato, controllato da telecamere a circuito chiuso ed eventualmente dove potessimo nasconderci, furono domande che ci ponemmo solo una volta che eravamo dentro, sentendoci improvvisamente esposti ad una serie di intemperie ben peggiori di quelle che avevamo superato. Scavalcare il muro era stato come tuffarsi nell'oceano, ma adesso ci toccava sopravvivere in mare aperto. Le prime luci dell'alba illuminarono il profilo della roccia sedimentaria clastica nella quale i Nabatei avevano scavato monumenti, templi e tombe come quella dell'obelisco, accanto al Bab-al Siq Triclinium, nella quale ci rifugiammo attorno alle 5.30 di mattina, come naufraghi su quell'isoletta.     
L'anfratto nel quale ci infilammo, era alto un metro e mezzo, ma profondo e largo abbastanza da ospitare comodamente noi tre piu' lo scheletro di un vacca. Non sapevamo se qualcuno ci aveva visto e aspettava solo che uscissimo allo scoperto per coglierci con le mani nel sacco. Il timore ci avrebbe accompagnato per tutto il giorno. Ma pensavamo, o speravamo, che da li' a poco il sito sarebbe stato preso d'assalto dai visitatori. L'anno prima, Antonio ed io eravamo stati a Tikal, dove i cancelli aprivano prima dell'alba perche' quello era il momento migliore per esplorare la rovine Maya nella giungla del Guatemala. Motivo per il quale tra l'altro ero dovuto restare a digiuno per 28 ore filate. Immaginavamo insomma che dalle 6 in poi saremmo potuti uscire e mescolarci alla folla che avrebbe preso d'assalto Petra. Ma quella si dimostro' una speranza vana. Alle 6.10 passo' una persona. Alle 6.30 altre due. Prima delle 7, poi, proprio mentre eravamo pronti ad uscire, sbuco' un uomo armato in groppa ad un ciuco. Nella grotta cominciava a fare troppo caldo per gli strati di nero e ci spogliammo. Poi prendemmo il coraggio a due mani e uscimmo allo scoperto, lasciando li' lo scheletro della vacca.    
Per dare leggermente meno nell'occhio e per poter abbozzare una tesi difensiva, all'imbocco del Siq ci separammo. Io davanti, poi Daniele e in fondo Antonio. Se la security avesse fermato uno dei tre, avremmo potuto prendere tempo affermando che i biglietti ce li aveva un altro membro della combriccola. Architettai quello stratagemma, che serviva piu' altro per rallentare i battiti cardiaci, e cedetti alla tentazione di aggiungerci un dettaglio assolutamente ridondante. 
Se fossi arrivato a destinazione senza problemi, avrei canticchiato la colonna sonora di Indiana Jones, per comunicare che il grosso era fatto. Quando in fondo al Siq intravidi la facciata del Tesoro, tirai fuori la Nikon e contemporaneamente intonai il ritornello di Riders March.
Non ce l'avevamo ancora fatta, anzi il dubbio che qualcuno ci stesse aspettando all'ingresso con le manette ci rimase incollato addosso fino al pomeriggio inoltrato. Ma intanto, man mano che passava il tempo e che aumentava la distanza dall'ingresso, potevamo millantare di aver smarrito i biglietti. Tanto piu' che appena ci riunimmo davanti al Tesoro, ci issammo su uno degli speroni di fronte al Khazneh e ci immortalammo alla maniera del secolo scorso, con un autoscatto a tempo e con un'inquadratura della quale non avemmo riprova fino al mese successivo, quando sviluppai il rullino. Non ci restava che goderci la visita di una delle sette meraviglie del mondo moderno, anche se a complicarlae c'era un altro fattore.   
C'e' sempre un altro fattore. Nella circostanza un appuntamento in linea di massima con Giancarlo, il fratello di Daniele, nonche' mio para-cognato. Viveva e lavorava in Egitto, e quando aveva sentito pronunciare il nome di Petra, s'era impegnato a fare di tutto per raggiungerci. Peccato che nessuno di noi avesse un cellulare e che le sporadiche comunicazioni avvenissero in differita via posta elettronica. L'ultima volta che gli avevamo scritto un'email, avevamo confermato la data dell'arrivo a Petra avevamo stabilito che l'incontro sarebbe eventualmente avvenuto davanti al Khazneh, che era l'unico riferimento possibile, l'unico monumento del quale conoscessimo nome e volto. 
Quel che non sapevamo, pero', era che il Khazneh e' all'imbocco, una specie di porta d'accesso ad un sito che si estende per 260km quadrati. Non sapendo neanche a che ora Giancarlo si sarebbe potuto palesare, avevamo fissato dei possibili appuntamenti ad intervalli regolari. "Ci vediamo o alle 9 o alle 10, o alle 11 o a mezzogiorno davanti al Tesoro", gli avevamo scritto. 

Cosi' facendo, per quattro ore ci obbligammo a fare l'elastico tra il Khazneh e tutto quello che si apriva c'era alle sue spalle. Alla fine, Giancarlo non venne. E noi camminammo come uomini degli altipiani, consumando il doppio delle energie e il triplo dell'acqua. All'una eravamo cotti, oltre che a digiuno, ma nonostante questo ci inerpicammo fino all'altra grande attrazione del sito, il Monastero - al Deir - chiamato cosi' perche' quella che probabilmente era una tomba dei Nabatei era stata utilizzata come un luogo di culto dai Romani.
Per arrivarci, bisognava camminare 3 chilometri e mezzo dal Khazneh e poi salire 800 gradini scavati nella roccia, tant'e' che i turisti meno in forma si affidavano volentieri al trasporto a pagamento offerto dagli asini. Non noi, che se non avevamo avuto i soldi per il biglietto d'ingresso e non ne avevamo per comprare da mangiare o da bere tra le mura di Petra, certo non ne avevamo per farci trasportare dai somari. Anche se sarebbe stato quantomeno consigliabile. 
Quando scendemmo a valle, eravamo alla frutta: solo dal Monastero all'ingresso sono piu' di 6km di strada. Ad inizio agosto, a digiuno, a corto d'acqua, dopo una serie di notti trascorse in auto, in tenda, sotto le stelle nel deserto e sul tetto della moschea, e dopo esserci costretti a camminare per Petra il doppio di quanto dovuto alla ricerca de Giancarlo perduto, Daniele arrivo' ad un passo dallo svenimento. Si rianimo' per un frangente, quando davanti a noi una signora si sciacquo' i piedi con dell'acqua potabile e lui per poco non puni' quell'oltraggio saltandole alla giugulare. Ma pur con la spada di Damocle del dubbio che saremmo stati arrestati all'uscita, accelerammo il passo e guadagnammo l'uscita, dove Antonio ci avrebbe salutati per riportare nella capitale la Hyundai color carta da zucchero, mentre Daniele e io avremmo proseguito verso sud, salendo in fretta su un bus diretto verso il porto di Aqaba.  
Mentre Daniele lottava tra la vita e la morte, tenuto per i capelli da un sacchetto di zucchero che avevo rimediato chissà dove, mi guardai attorno. Anche sull'autobus di linea giordano il ritratto del figlio era compariva accanto a quello del padre. In questo caso, però, re Hussein era passato a miglior vita 5 mesi prima. Dopo un funerale mai visto, che era riuscito a mettere insieme Arafat e Netanyahu, i presidenti di Russia, Egitto e Siria, Boris Eltsin e cinque presidenti americani, per la sua successione si era scatenato un bel casino. E non solo perché il re hascemita aveva avuto 11 figli da 4 donne diverse e una dodicesima era stata adottata dalla terza moglie. Per provare a regolare i conti e il traffico nel palazzo e nella società giordana, il figlio prescelto - Abdallah - finirà per cucinare una serie di frittate. La più clamorosa delle quali si sarebbe rivelata concedere l'amnistia ad alcuni fondamentalisti in carcere. Un modo per ingraziarsi il clero e i musulmani oltranzisti ma che porto' alla liberazione di molti terroristi, tra i quali quell'al-Zarqawi che 5 anni dopo sarebbe diventato l'emiro di Al Qaeda in Iraq. E che dopo, assieme ad Abu Bakr al Baghdadi, avrebbe fondato lo Stato Islamico, diventandone il simbolo, la mano armata e l'orrificante tagliagole. 
Al Zarqawi era a piede libero, quando arrivammo ad Aqaba il 9 agosto del '99. A due giorni da un evento astronomico che monopolizzò l'interesse e la curiosità del mondo, ma che in Giordania fu vissuto come l'avvento dell'Apocalisse. L'eclissi solare.     
(fine -part 3)